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Storiella pessimista d’Italia in quattro finali mondiali: 1970 - 1982 - 1994 - 2006.

di Marco Iacona - 28/06/2010


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La formazione è di quelle che non si dimenticano mai. Come la maestra delle elementari. Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. La semifinale dei mondiali di calcio del 17 luglio 1970 all’Azteca è passata alla storia, non per il film, modesto, girato molti anni dopo (Italia-Germania 4-3 di Andrea Barzini), ma per la riscossa dallo smacco coreano di quattro anni prima e soprattutto per le atmosfere del periodo. Con uno strano corto circuito l’Italia degli anni Settanta è diventata l’Italia delle nuove leve, degli italiani nati dopo la guerra, nonostante i miti del tempo (e che miti!) fossero stranieri e le azioni politiche un po’ velleitarie quando non criminali. Il 1970 sta tutto fra Piazza Fontana, dicembre 1969, e quel golpe Borghese, dicembre 1970, ufficializzato tre mesi dopo. Forse è nella natura delle cose che i toni si mantengano alti anche per quattro calci dati a un pallone. Dopotutto quella del giugno 1970 fu una semifinale noiosa con un’appendice grandiosa, quasi una sinfonia di Ciaikovskij. Dopo venne Pelè e chiuse le trasmissioni. Il resto, per oltre dieci anni, fu quasi tutto terrorismo e bruto conformismo (malgrado Tolkien, l’intelligenza di Pasolini e la voglia di leggerezza degli spiriti liberi).
Il 1982 è il mito della generazione nata di seguito al boom. Toglietegli papa Wojtyla e i sei gol di Paolo Rossi (5, 8 e 11 giugno) e resteranno i sogni delle epoche precedenti. Belli o brutti che fossero. Quella di “Pablito” è stata l’ultima generazione che ha giocato a mosca cieca e a guardie e ladri e che, alle medie, non avesse l’altro sesso in classe. E una delle ultime che in strada ha preso a calci un pallone; bastava solo non passassero le macchine. Poi sarebbero arrivati i computers e certe mode unisex: il Sessantotto ha chiuso il suo ciclo nelle menti dei tecnocrati. Li hanno preso tutti per i fondelli, quei giovani, facendogli credere che in una società aperta (e giusta) si sarebbero giocati le loro carte. Ma i conti erano già fatti. Nell’82 gli eterni ragazzi del ’68 avevano più di trent’anni e nessuno li avrebbe schiodati dalle “loro” poltrone. L’anno prima del mondiale di Spagna era morto Alfredo Rampi (giugno 1981). In poche ore nella periferia di Roma l’Italia passava al totalitarismo televisivo; da lì a qualche anno un imprenditore milanese, né migliore né peggiore di tanti altri, avrebbe fatto molta strada.
1994: nuovo mondo (?). Il berlusconismo è trionfante. Ed ha facce diverse. Quella del “fascista” Gianfranco Fini che dice di aver preso la strada giusta; quella della leghista Irene Pivetti scorbutico presidente della Camera, oggi star televisiva sorridente e alla moda; quella di Arrigo Sacchi chiacchierone e pedina “vincente”, eletto simbolo di uno dei capitoli (quello calcistico) della nouvelle vague italiana; quella di Roberto Baggio, talento adamantino (probabilmente il più grande del dopoguerra) che nella mercificazione del gesto sportivo stenta a trovare il proprio asse esistenziale. Come in un sabba, i quattro personaggi sono compagni di una notte americana a Pasadena (17 luglio). Attori e spettatori della seconda finale mondiale Italia-Brasile. Una partita ignobile, un fallimento quasi annunciato; una notte nella quale si scrive la sceneggiatura di un “tutti a casa” con qualche pernacchia degna del bel film di Comencini. A commentare in tv il dopo-mondiale c’è un altro simbolo dell’effimero montante, tale Parietti Alba icona della sinistra e arruolata fra le “opinioniste” televisive. Il totalitarismo televisivo ha aggiunto un’altra freccia al proprio arco: le gambe in mostra. Gambe che ahinoi non appartengono più alle bravissime Kessler (classe 1936). Oramai sessantenni e ben vestite.
Con “calciopoli” (che arriva un anno dopo “bancopoli”) e lo scandalo di Vittorio Emanuele di Savoia, tappe di una tristezza senza fine, si è nel 2006. Berlusconi è stato sconfitto (per la seconda volta) dal riciclato Prodi, “trasformatosi” da mezza calzetta democristiana a luminare e statista europeo. Ma Nanni Moretti regista sopravvalutato che veste i panni del borghesissimo contestatore, lascia intendere che il Berlusca l’Italia l’ha già irrimediabilmente cambiata. E lo Stivale è pronto al gesto estremo pur di demolire i nemici dell’uomo vincente. L’ha detto in un film mediocre (“Il caimano”), come molte sue opere né realistiche né poetiche: semplicemente mezze. Moretti mostra l’Italia dalle ossa rotte, Fabio Fazio il paese dei “buoni” di sinistra, e  Franco Battiato la metafisica del “tempo che fu” e l’incertezza per un futuro “americano” (ma il suo è un quasi-esoterismo da sfigati). Tre uomini-gol per una sinistra da Terzo millennio che non ama confondere la formazione dei propri avversari. A parte il Buttafuoco revisionista, anticonformista e colto (il nostro Baricco, ma più bravo) e la galanteria ora borghese ora agreste di Pupi Avati (che purtroppo non basta), simbolo della “cultura” della destra del 2006 è il perimetro facciale di Salvo Sottile catanese aennino, uno dei tanti (ma che fine avrà mai fatto?). La nazionale di calcio ha invece il volto pulito di un ex giocatore: Gianluca Pessotto, che da un letto d’ospedale, dopo il ricovero per tentato suicidio, apre gli occhi a fatica sull’assurdo del calcio moderno (forse era meglio l’effimero…). “Moggismo” e corruttori da un lato, grande cuore e lottatori nelle arene tedesche dall’altro. “Porci” la mattina “alati” dal pomeriggio alla sera. Berlusca-sì Berlusca-no, il totalitarismo televisivo registra tutto e il carrozzone degli scandali è andato avanti privandosi anche di sua emittenza (vedi?). Ma la nazionale ha anche i volti di Buffon, Cannavaro, Materazzi, Totti e soprattutto Lippi, ieri e per motivi diversi pecore nere, oggi esempio per tutti; ieri “nemici”, oggi icone da adorare. È l’eterna nemesi del 25 luglio quando Mussolini rotolò dagli altari alla polvere nel giro di poche ore. E quelli che l’avevano criticato divennero i fedelissimi e i fedelissimi si scoprirono “anti”. È l’eterna nemesi di un’Italia senza punti di riferimento: bacchettoni e anarchici contro anarchici e bacchettoni e tutti un po’ ruffiani.
A.D. 2010. Nel primo decennio degli anni Duemila i nodi al pettine sono oramai troppi. L’Italia è una nave con mille crepe (soprattutto morali) e le pezze dei tappabuchi non bastano più. Dopo il carico dell’11 settembre la posta in gioco si è alzata e di molto. A stento sappiamo riconoscere chi sta dalla parte del “giusto” (che non è facile sapere qual è). Poi ci ha pensato la crisi finanziaria a svuotare i serbatoi delle speranze. Sembra così arrivata l’ora del caos, dentro e fuori casa. Anzi siamo all’ultimo stadio. Vien da chiedersi se qualcuno in futuro potrà mai raccontare una quinta finale mondiale. Servirà la filosofia di Sandro Mazzola: ci vorranno “calma, forza e determinazione” quello è certo. Qualche campione vero e molte stelle in cielo.