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La fauna selvatica dell’antico Egitto: una vera arca di Noé, degna del Paradiso terrestre

di Francesco Lamendola - 29/06/2010



Al tempo in cui i faraoni governavano l’Egitto e quel popolo straordinario innalzava le vestigia imperiture della propria civiltà, la parte inferiore della valle del Nilo, dalla Prima cateratta alla foce sul Mare Mediterraneo, era una stretta striscia verdeggiante di palme, di campi coltivati grazie al fertile limo depositato dalle piene, e di paludi selvagge (nella regione del Delta), circondata da due deserti aridissimi e quasi impraticabili, tranne poche e difficoltose vie carovaniere: il Deserto Libico, parte nord-orientale del Sahara, e il Deserto Arabico.
D’altra parte, quando si parla della storia e dell’ecologia dell’antico Egitto, non bisognerebbe mai dimenticare che ci si riferisce ad un arco di tempo immenso, non meno di 3.000 anni, durante il quale sono intervenuti svariati fattori di alterazione del paesaggio, della vegetazione, della fauna e, forse, anche del clima. In Europa, per esempio, un simile arco temporale implica delle trasformazioni notevolissime dell’ecosistema: basti pensare a come cambiò il paesaggio della Grecia, dell’Italia o della Gallia con la progressiva distruzione delle foreste primigenie, per fare posto alle coltivazioni ed al pascolo, nonché per fornire il legname necessario alla costruzione delle grandi flotte romane, con tutto lo sconvolgimento idrogeologico e climatico che ne fu l’inevitabile conseguenza.
Perciò, una cosa è parlare della flora e della fauna dell’Egitto agli albori di quella civiltà, ossia al periodo tinita (da Thinis, nome della città di origine dei sovrani), corrispondente alle due dinastie che regnarono, approssimativamente, dal 3150 al 2700 a. C.; e una cosa è parlare dell’Egitto al tempo della conquista persiana (525 a. C.: battaglia di Pelusio fra l’esercito di Cambise II e quello di Psammetico III) o al tempo dei Tolomei, eredi di Alessandro Magno (periodo che si conclude con la morte di Cleopatra e la trasformazione del Paese in provincia romana, ad opera di Ottaviano Augusto, nel 30 a. C.).
Nel IV millennio avanti Cristo il processo di desertificazione del Sahara era già molto avanzato, ma non interamente concluso; il clima era più umido di quel che non sia oggi (è noto che, secondo alcuni studiosi, la Sfinge recherebbe tracce di erosione pluviale); ampi tratti di deserto erano ancora delle steppe con una rada vegetazione alberata: e, di conseguenza, era ancora presente una fauna molto ricca, che comprendeva specie di grandi dimensioni, come il lene e l’elefante, ormai da gran tempo respinte a sud del Sahara (cfr. anche l nostro precedente articolo «Il destino del leone europeo ed asiatico, tragico esempio dell’insensata distruttività umana», pubblicato su sito di Arianna Editrice in data 08/07/08).
Per farsi un’idea della fauna dell’Egitto tinita e, ancor più, di quello predinastico, basta ammirare le stupende incisioni rupestri del Tassili, del Tibesti e di altre località montuose che, oggi, si trovano in mezzo al più vasto ed arido deserto della Terra, ma che, alcune migliaia di anni fa, dovevano essere circondate da pianure verdeggianti, dato che vi si aggiravano giraffe, bufali, gazzelle, rinoceronti, elefanti, leoni, nonché l’uro («Bos taurus primigenius»), diffuso anche nel Medio Oriente e in Europa, dove si sarebbe definitivamente estinto solo nel XVII secolo.
Per la ricostruzione della fauna selvatica dell’antico Egitto siamo in una posizione particolarmente vantaggiosa, perché, oltre ai ressi fossilizzati e ai racconti degli storici antichi, possediamo anche numerose rappresentazioni iconografiche dell’arte egiziana, tanto più che numerosi animali erano stati divinizzati o, per meglio dire, erano stati considerati come incarnazioni di divinità.
Così, possiamo ammirare zanne di elefante finemente lavorate, ma anche zanne di ippopotamo; statuette in terracotta ed altri materiali che rappresentano ibis, coccodrilli, ippopotami; bassorilievi con un ippopotamo che lotta contro un coccodrillo, o di un coccodrillo che aspetta di poter divorare il piccolo appena partorito da una femmina di ippopotamo; scene di caccia, di pesca e di uccellagione; raffigurazioni di gazzelle, di leoni, di pesci, di gru, di rane del Nilo; perfino un rilievo dipinto che raffigura la cattura di una iena (animale che gli Egizi tentarono, ma invano, di addomesticare), risalente alla VI Dinastia.
Né le testimonianze iconografiche sulla flora e sulla fauna della terra del Nilo provengono solo dall’Egitto, ma anche da svariati altri luoghi che facevano parte dell’Impero romano, ad esempio dalle pitture e dai mosaici di Pompei e di Palestrina: tanto che i sicomori, le piante di papiro, gli ippopotami e gli altri animali del grande fiume africano, e specialmente del Delta, a un certo punto -in età imperiale -  divennero un vero e proprio “topos” dell’immaginario collettivo, paragonabile, per certi aspetti, al “locus amoenus” caro alla poesia bucolica,.
Un quadro d’insieme della fauna selvatica dell’antico Egitto è delineato nell’enciclopedia monotematica «Egittomania. L’affascinante mondo dell’antico Egitto» (titolo originale: «Egiptomania. El fascinante mundo del antiguo Egipto», a cura di V. Ortega e C. Dorico, Editorial Planeta De Agostini, Barcellona, 1997; traduzione italiana Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1999, vol. 2, 194-97; vol. 6, pp. 156-160):

«All’epoca della formazione della civiltà egizia, la fauna era numerosa e varia, tipicamente africana. Nella valle e nelle vicine savane vivevano elefanti, giraffe, antilopi daini, camosci, asini selvatici struzzi e uri. Vi erano anche numerosi predatori, felini e canidi. Gli scimmioni, come il babbuino e il cercopiteco, frequentavano la valle e i suoi dintorni. Tra gli uccelli vi erano ospiti sempre presenti nella valle: rapaci che si nutrivano di carogne e diverse specie di falchi e di gufi. Nel corso delle prime tre dinastie, il grande incremento delle terre coltivate, il drenaggio dei pantani e l’aridità dei terreni costrinsero molti animali ad allontanarsi dalla vale. Alcune specie che dipendevano meno dall’acqua rimasero nelle praterie e negli scarsi e radi boschetti, situati a lato dei fiumi, o nei deserti. Durante l’Antico Regno gli Egizi tentarono di addomesticare alcune specie selvatiche, tra cui le gazzelle, le antilopi, i mufloni, i camosci, le gru, le manguste e persino le iene.
La fauna dei fiumi, dei laghi e delle paludi comprendeva ippopotami, coccodrilli, lontre, manguste, genette, varani, tartarughe e numerosi pesci. Vi era una rande varietà di specie di uccelli migratori acquatici, trampolieri e palmipedi. Tra gli insetti, l’ape svolgeva un ruolo importante, poiché produceva il miele. Essa appare nel sistema geroglifico, così come la mosca, lo scarabeo, la cavalletta e il millepiedi. I serpenti, come il cobra o la vipera cornuta, erano numerosi nella valle, così come gli scorpioni. Gli Egizi erano fortemente legati agli animali, che consideravano loro stessi creature della natura, parte dello stesso tutto, insieme alle bestie e alle piante. Non ci si deve dunque meravigliare se molti animali erano per gli Egizi delle divinità. Ma questo legame con la natura poteva implicare anche dei rischi per la salute e la vita stessa. Allo stesso modo esisteva il pericolo di disgrazie, come quando si aveva a che fare con animali grandi o feroci. […]
Nell’antichità vivevano in Egitto animali di grandi dimensioni, come la giraffa o l’elefante che fanno parte del sistema geroglifico. L’elefante, in egiziano “abu”, diede il nome a Elefantina, una città che si trova vicino alla prima cateratta del Nilo. Con le sue zanne si fabbricavano armi e si realizzavano ornamenti e opere d’arte. Il determinativo di “giraffa” si usa nella scrittura per parole come “ser”, che significa “predire” o “avvistare”, perché questo erbivoro si poteva scorgere da molto lontano. […]
Un’enorme varietà di uccelli viveva nei diversi habitat del paese. C’erano i predatori, come ilo grifone o avvoltoio d’Egitto (“Neophron percnopterus”) ancora presente nelle zone desertiche; ilo grande avvoltoio fulvo, l’aquila pescatrice, il falco pellegrino e il comune cacciatore di topi; vi erano anche rapaci notturni, come la civetta, e diverse specie di gufi. Una specie di passero, il “Passer domesticus aegyptyacus” era molto temuto dai contadini, poiché rovinava i raccolti. Un gallinaceo, che scomparve all’inizio dei tempi storici in Egitto, fu la faraona. Molti uccelli sono associati al fiume e alle paludi,. Esistevano tre varietà di ibis: quello sacro, che è raffigurato non solo in scene di pantani o di fiumi ma anche in contesti simbolici, identificato con il dio Thot; l’ibis crestato, riconoscibile per la cresta di piume sul capo, e quello nero. Le anatre erano molto diffuse,. Quella con la coda molto grande era uno degli uccelli acquatici più comuni; addomesticato in epoche molto antiche, è sempre presente nei bassorilievi e nei dipinti delle mastabe dell’Antico Regno. La pavoncella, che si riconosce molto bene per la sua caratteristica cresta, è rappresentata già sulla mazza del re Scorpione della dinastia 0; aveva un significato simbolico, rappresentando i popoli prigionieri. L’airone si distingue per il becco dritto e lungo e il ciuffo di piume sulla testa; come simbolo del sole, fu l’uccello sacro di Eliopoli e divenne la leggendaria fenice dei Greci per il legame con il sole che tramonta e che nasce. Altri uccelli presenti nella zona del Nilo erano il pellicano, la garzetta, lo jaribù, il fenicottero, il martin pescatore reale e diverse specie di oche. Tra gli uccelli non acquatici dobbiamo ricordare l’upupa, la quaglia, la colomba e diversi tipi di rondini. […]
Le acque e le rive del Nilo offrivano un habitat propizio a numerosi animali, soprattutto ai pesci. Alcune specie facevano part anche del sistema di simboli geroglifici; altre, invece, erano rappresentate sulle pareti delle tombe. Oggi alcune di esse sono estinte, come ad esempio l’”Heterobranchus” (“nar” in egizio); questo siluride prestò il suo nome egizio all’unificatore del paese, il faraone Narmer. Il “Barbus bynni” era dotato di una spina velenosa sulla pinna dorsale. Altri siluriformi, i pesci sinodontidi, erano rappresentati di frequente, soprattutto nei bassorilievi delle mastabe dell’Antico Regno (2686-2173 a. C.). I mormiridi, invece, vivevano nelle zone calde del Nilo; essi possedevano una sorta di proboscide con la quale esploravano il fondale del fiume in cerca di larve di inetti  e vermi. Il “Mormyrus Kannume” o “pesce di Ossirinco” era piuttosto comune nel Nilo; esso, tra l’altro, fu anche oggetto di venerazione nel XIX “nomos” dell’Alto Egitto. Tra i perciformi si distingueva la “Tilapia nilotica, ampiamente raffigurata poiché cova le uova in bocca, e per gli Egizi simboleggiava la rinascita, mentre, per via della sua colorazione rossastra, era connessa anche alla simbologia solare. Il “Latus niloticus” (“aha” in egizio), perciforme di colore azzurro, fu venerato e mummificato. Nelle scene di tombe figuravano anche insetti, come la cavalletta (“Acridium peregrinum”), la libellula e diverse specie di farfalle.
La rana del Nilo o “Rana mascareniensis” fu l’unco animale anfibio venerato in Egitto; grazie alla sua capacità di mimetizzazione, infatti, essa era considerata un animale sacro. La rana, di color verde scuro, abitava nelle zone paludose e nei canali di irrigazione. Il coccodrillo del Nilo (“Crocodilus niloticus”), invece, non esiste più nell’antica terra dei faraoni, perché l’avanzare del deserto del Sahara ha costretto questo rettile a spostarsi in luoghi distati dall’Egitto. I coccodrilli vivevano soprattutto nelle acque del Delta e nella zona di el-Faiyum. Questi animali erano molto temuti dai marinai, i quali recitavano degli incantesimi per scongiurare il pericolo. Il coccodrillo fu anche considerato un’incarnazione del dio Seth. Gli Egizi resero culto a Sobek, il duo coccodrillo, associandolo al culto solare; esso fu particolarmente venerato a Coccodrillopoli. Pur non essendo stato trovato alcun cimitero di coccodrilli, esistono numerose mummie di questi rettili. Nelle acque dolci viveva una specie di tartaruga, la “Trionyx triunguis”, che fu rappresentata anche nel tempio della regina Hatshepsut a Deir-e-Bahri. Infine, tra i mammiferi vanno senz’altro annoverati gli ippopotami. Questo pachiderma era estremamente pericoloso  e arrecava notevoli danni ai raccolti; per tale motivo, dunque, fu considerato una manifestazione delle forze negative e la caccia all’ippopotamo divenne un vero e proprio rituale. Ciò nonostante, questo animale non fu sempre ritenuto nefasto; non a caso, la femmina dell’ippopotamo simboleggiava la fecondità.
La fauna ornitologica era piuttosto abbondante. Diverse specie di uccelli erano associate al fiume e ai bassi fondali. Esistevano varie specie di oche, tra le quali l’”Alopochen aegytpiacius”. Vivevano qui anche gli ibis, le cui tre specie sono documentate nel sistema di simboli geroglifici: l’ibis nero (“Plegadis falcinellus”), peraltro ancora esistente in Egitto, il cui nome in egizio era “guemet”; le altre due erano l’ibis crestato (“Ibis comato”), con il caratteristico pennacchio sulla testa, e l’ibis sacro (“Threskiornis aethiopicus”). L’airone imperiale (“Ardea cinerea”) aveva piumaggio grigio e collo bianco; il suo nome era “benu”, ed era legato al culto solare. Altri volatili erano il pellicano, la cicogna, il fenicottero, la gru, il cormorano, il martin pescatore e alcune specie di anatre.»

Questa ricchissima fauna terrestre ed acquatica e questa ancor più ricca avifauna, nell’ambito di una civiltà la cui religione presentava spiccati caratteri teriomorfi (di derivazione neolitica, come oggi sembra accertato) era caratterizzata dalla consapevolezza della necessità di preservare un rapporto armonioso fra uomo e natura.
Perciò, senza voler reclutare a forza gli antichi Egiziani nelle file degli ecologisti “ante litteram” (sappiamo come faraoni quali Ramsete II amassero mostrare la propria virilità andando a caccia di leoni), non vi è dubbio che gli interventi umani - peraltro massicci e durevoli, specialmente per quanto riguarda l’irrigazione e tutto quanto permetteva di assicurare la regolarità delle piene annuali - non furono caratterizzati da quella brutale e miope invasività che, in epoca moderna, ha stravolto l’equilibrio idrogeologico di intere regioni (si pensi soltanto alla creazione, negli anni Sessanta del ‘900, del Lago Nasser, mediante la costruzione della diga di Assuan ed il “trasferimento” di un intero complesso architettonico - quello di Abu Simbel - che, altrimenti, sarebbe rimasto sommerso dalle acque del Nilo).
Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse che il rapporto degli antichi Egiziani con la fauna selvatica fosse idilliaco, solo perché alcuni animali erano stati divinizzati o perché quella civiltà possedeva un buon grado di consapevolezza ecologica.
Oltre al pericolo dell’incontro con un leone, con un ippopotamo o con un coccodrillo - l’animale, quest’ultimo, probabilmente più temuto di tutti -, gli antichi Egiziani conoscevano bene, per esperienza diretta, quanto gli insetti fossero nocivi alle coltivazioni e quale grave pericolo rappresentassero, ad esempio, le periodiche invasioni di milioni e milioni di locuste migratrici o cavallette propriamente dette (la «Locusta migratoria» di Linneo), le quali costituiscono tuttora un gravissimo flagello per vaste regioni dell’Africa.
Chi non ricorda il racconto biblico del libro dell’«Esodo» relativo a Mosè, al faraone e alle dieci piaghe che si abbatterono sull’Egitto, prima che gli Ebrei ottenessero l’autorizzazione a lasciare il Paese per cercare altrove una nuova sede? Delle dieci piaghe, quattro riguardano impressionanti invasioni di animali e parassiti: le rane, i pidocchi (7,26-8,11), i mosconi (8,12-15) e le cavallette (10, 1-20); una riguarda una moria di bestiame domestico (9, 1-7) ed una si riferisce alla comparsa di ulcere su uomini e animali (9, 1-7) e solo quattro sono riferibili a misteriosi e catastrofici eventi atmosferici ed astronomici o all’insorgenza di micidiali malattie (la tramutazione dell’acqua in sangue; la grandine; le tenebre e la morte dei primogeniti).
Ad ogni modo, se le invasioni delle locuste erano pressoché inarrestabili, diverso sarebbe stato il discorso se gli Egiziani avessero voluto eliminare, o ridurre drasticamente, la minaccia rappresentata dai grossi animali pericolosi per l’uomo, concentrati per lo più nella lussureggiante regione del Delta nilotico.
Il fatto che preferissero affidarsi agli amuleti, agli scongiuri e alle preghiere, allorché dovevano penetrarvi, piuttosto che lanciare una campagna di sterminio contro di essi, dimostra che la loro sensibilità era simile a quella dei moderni Indiani riguardo alla minaccia costituita dalle tigri del Bengala, che nessun governo di New Delhi ha mai pensato di distruggere per salvaguardare i pescatori e i boscaioli delle Sundarbans (ne abbiamo già parlato nell’articolo «Quando le “mangiatrici d’uomini pongono il concreto dilemma: l’uomo o la tigre?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 19/03/08).
La coesistenza del grande coccodrillo del Nilo, dell’ippopotamo e di altri animali pericolosi per l’uomo con una fitta popolazione umana, come era quella a ridosso del Delta del Nilo (con grandi città quali Eliopoli, Sais, Bubasti e, più tardi, Alessandria) ricorda la presenza odierna della tigre indiana nelle paludi del Delta del Gange, a pochi chilometri da una zona altrettanto fittamente antropizzata, a cavallo della frontiera tra India e Bangladesh e comprendente una metropoli come Calcutta.
In entrambi i casi, ci sembra che l’Occidente moderno avrebbe parecchie cose da imparare…