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"Shock shopping", da cittadino a consumatore: come la grande distribuzione ci manipola

di Antonella Loi - 29/06/2010

Fonte: tiscali


Una "malattia che ci consuma" ma che non sappiamo di avere. La Grande distribuzione organizzata è entrata nella nostra vita fino ad impossessarsene, velocemente. I grandi centri commerciali, disseminati in ogni angolo delle nostre città, sono diventati le nuove agorà dove il cittadino si trasforma in consumatore, vittima inconsapevole di una surrettizia "manipolazione della mente". Lo shopping è più di una moda, è uno stile di vita. “Le strategie messe in campo per condizionare gli acquisti e tutta la filiera produttiva dei consumi sono a dir poco impressionanti”, dice Saverio Pipitone che nel suo libro-inchiesta Shock Shopping (Arianna editrice, 156 pagine, 10,80 euro) fa la scansione alla Gdo, gestita da multinazionali prive di senso etico e "dedite allo sfruttamento". “Veniamo indotti a consumare sempre di più, utilizzando metodi creati appositamente per indurci a comprare: ci serve una cosa e usciamo dall’ipermercato con il carrello pieno”.
Pipitone, siamo schiavi del consumo?
“Ci sono alcune pratiche come il posizionamento delle merci sugli scaffali che mirano proprio a questo, prodotti attraenti messi ad altezza d'occhi. Ci sono delle case produttrici, come per esempio Barilla, che pagano alla Gdo per inserire i prodotti negli scaffali in una posizione strategica. Quelli messi più sotto o in alto son prodotti con marche inferiori che costano meno e che pertanto devono essere più difficili da trovare. Oppure si pensi alle caramelle messe sempre ad altezza di occhi di bambino. Ma le pratiche sono tante, i percorsi prestabiliti all'interno del centro commerciale con all’ingresso frutta e verdura e prodotti in offerta. Gli elettrodomestici, invece, in punti più tranquilli perché devi avere il tempo di pensare".
 Un processo che lei definisce di "manipolazione".
"Esatto. Nei centri commerciali, ma anche negli autogrill, sei costretto a seguire un percorso preciso per uscire, studiato proprio per farti comprare. Ci sono degli architetti che studiano come aumentare la permanenza e quindi il consumo all'interno del centro commerciale. Ci sono quelli che studiano il posizionamento delle merci negli scaffali o quelli che studiano gli elementi sui quali far leva per indurre al consumo superfluo. All'interno dei centri Ikea viene messa una musica soft italiana e vengono sparsi dei profumi piacevoli per indurre il consumatore ad aumentare la permanenza. L'obiettivo è guadagnare e vendere, puntando molto sulla quantità perché solo così si riesce ad avere prezzi bassi e quindi maggiori vendite".
Dietro la grande distribuzione c'è un sistema che annienta i piccoli produttori e, gradualmente, anche la qualità dei prodotti. Con costi sociali e ambientali altissimi.
"Ci sono delle grosse aziende, delle multinazionali, che sfruttano i dipendenti. Lo si è potuto vedere recentemente all'interno di Esselunga - c'è stato il caso di una cassiera alla quale impedivano di andare in bagno - ma anche di Lidl, dove in Germania i dipendenti venivano controllati con telecamente e intercettazioni ambientali. Quindi ricattati sulla base delle cose che si raccontavano a vicenda (problemi familiari o economici) durante la pausa pranzo o caffè. Senza contare che lavorano ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Ci sono costi sociali e ambientali che non vengono considerati. Per esempio Ikea non ha mai dichiarato da dove importa il legname e gli altri materiali che usa per i suoi mobili da montare comodamente a casa. Il prezzo basso è introdotto in bilancio come un costo, un costo ambientale e sociale che sopportano evidentemente altre persone nei paesi sfruttati".
Cosa avviene in Italia?
"Spesso la stessa cosa. Qualche mese fa in Lombardia, in un Ipercoop i dipendenti venivano spiati con le telecamere nascoste. Il quotidiano Libero ha pubblicato un'inchiesta di Gianluigi Nuzzi, autore di Vaticano Spa, che ha seguito la vicenda molto da vicino. Ovviamente l'Ipercoop ha negato tutto, ma ci sono delle testimonianze che confermano questa pratica. Nei fast food i lavoratori sono costretti a un lavoro alienante, con turni pesantissimi e magari sottopagati. Inoltre, vengono preferiti i giovani e le donne, perché più fragili e quindi più controllabili. Questi sono i costi sociali peggiori".
Ma anche i piccoli produttori sono nel mirino della Gdo.
"Esatto. La Gdo riesce ad imporre le sue condizioni al mercato e può dire al produttore come si deve comportare perché alla fine è lei a distribuire il prodotto. Per esempio in molte parti d'Italia la Gdo non va più a comprare al mercato ortofrutticolo, ma direttamente dai produttori a cui impone le sue regole, prezzo compreso. Molti mercati ortofrutticoli all'ingrosso infatti sono in crisi e molti rischiano di chiudere. Altri, come in Emilia Romagna o qui a Bologna, si riorganizzano e riescono ad interloquire con la Gdo. Ma al Sud non ci sono organizzazioni di produttori, quindi la grande distribuzione preferisce acquistare al Nord. Le conseguenze sono facilmente immaginabili".
La Gdo si espande, acquisisce grosse fette di mercato e ne condiziona il funzionamento.
"Esatto, condiziona verso l'alto la filiera. Però la cosa che ho scritto nel libro è che anche il consumatore ha la possibilità di condizionare verso l'alto tutta la filiera, attraverso le sue scelte potrebbe ridimensionare la potenza della grande distribuzione". 
Inducendola a comportamenti più etici?
"Certo anche se ultimamente si è abusato anche di questo, dell'etica. Con il boom del prodotto biologico, poi equo e solidale, poi il prodotto locale e così via. La Gdo si organizza, è capace di seguire le tendenze e stare al passo con i tempi, di modo che anche il commercio equo e solidale, il biologico, il prodotto a chilometri zero sottostiano alle regole della Gdo. L'unica soluzione che io vedo in mezzo a tutto questo è diminuire i consumi e cercare di recuperare il valore d'uso delle cose".
Consumare meno e consumare meglio.
"Esatto, a prescindere dal fatto che si tratti di prodotto etico o tradizionale. Ridimensionare i propri consumi. Viviamo in un sistema che, attraverso la pubblicità e i bisogni indotti, ci spinge a consumare sempre di più in barba ai reali bisogni, è necessario essere più razionali negli acquisti".
I grandi centri commerciali, tra l'altro, si fanno "stile di vita". Si sostituiscono alle piazze, alle strade, ai luoghi tradizionali di socializzazione.
"I centri storici spesso, soprattutto nel Nord Italia, sono in abbandono. La domenica invece di andare a passeggiare in centro si va nei centri commerciali aperti sette giorni su sette o negli outlet e che hanno ricostruito l'architettura dei centri storici. Quindi il centro della città viene gradualmente abbandonato, sparisce 'l'uomo politico' che si incontrava nelle piazze del centro, dove avveniva la vita associativa, per lasciare spazio all'uomo consumatore, la cui vita non più associativa ma individuale è scandita appunto dai consumi. Oltretutto sta avvenendo il passaggio - per quanto riguarda la società occidentale - da una società di produttori a una società di consumatori. Viene tutto prodotto nei paesi asiatici e poi consumato da noi. Qui non si produce più. Molte fabbriche dismesse stanno per essere traformate in centri commerciali".
Nel suo libro scrive che la prossima frontiera sono i centri storici.
"Proprio così. Leggevo da poco che una catena di vendita di materiali fai-da-te ha rilevato una fabbrica in chiusura che si trovava all'interno di una città per trasformarla in un grande magazzino, assumendo tutti gli ex operai licenziati. Descrive la realtà in cui viviamo in cui non si produce più ma si consuma. Negli Usa poi sta avvenendo qualcosa che sta arrivando anche da noi: mentre prima in centri commerciali stavano nelle periferie, oggi si spostano gradualmente verso il centro. La Gdo, Hm o Zara, per fare degli esempi, permette grosse disponibilità di capitali e quindi la possibilità di pagare affitti anche sostanziosi. L'obiettivo è raggiungere tutte le persone, sia quelle delle periferie che quelle del centro".
Grande disponibilità di capitali che fa gola a molti, compresa la criminalità organizzata, che può così riciclare il denaro sporco.
"Se ne potrebbe parlare a lungo. Possiamo sintetizzare notando come in Sicilia negli ultimi anni, in particolare a Palermo, Catania e Trapani, ormai sia pieno di centri commerciali, ipermercati, aperti da imprenditori cosiddetti 'puliti'. Ma che le inchieste scoprono presto essere prestanome di boss mafiosi come Matteo Messina Denaro nel caso Despar. Questo perché la grande distribuzione organizzata ti permette di incassare subito, pagare in seguito i fornitori e riciclare grandi quantità di denaro. Un supermercato semplice, di 250 metri quadri, ti fa guadagnare anche 10-20 milioni di euro, l'ideale. Ma non è una novità: negli Stati Uniti già avveniva negli anni '60 o '70, con le catene di ristoranti o pizzerie. Quando poi i prestanome vengono scoperti, ci sono sempre persone nuove che avviano nuovi punti vendita che nel giro di poco tempo si moltiplicano. E' un business sempre in attivo".