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Non è una barriera fisica, ma mentale, quella che tarpa le ali ai nostri sogni

di Francesco Lamendola - 30/06/2010



Gente che cammina per le strade; gente che incontriamo nei negozi, negli uffici, lungo le scale e in ascensore; gente frettolosa, gente distratta, gente anonima e indaffarata: ciascuno col proprio passato, col proprio destino, con le proprie paure e le proprie speranze.
Ciascuno, soprattutto, con il pesante fardello delle proprie delusioni, che si porta sulle spalle in silenzio, come un amico seppellito troppo in fretta e che ci si sforza invano di dimenticare, di lasciarsi indietro.
Perché le speranze abortite, le speranze deluse sono qualcosa di più e di peggio di un ingombrante fardello: sono un’infezione dell’anima, qualcosa che la fa lentamente, ma inarrestabilmente imputridire.
Chissà com’erano quei visi a vent’anni, a quindici anni, a dieci, a otto anni; chissà se già allora aleggiava su quegli sguardi l’ombra cupa della delusione, se fin da allora vi si poteva leggere o intuire quel che sarebbe avvenuto dopo.
Io credo di sì.
Credo che in ogni sguardo di bambino si possa già intravedere il destino di quell’anima: se riuscirà ad aprirsi alla vita con gioia, con fiducia, realizzando la propria parte migliore; o se, invece, si chiuderà gradualmente, ma irreversibilmente, sotto i colpi della disillusione e dell’amarezza, lasciando affiorare la propria parte meno nobile.
Eppure, se rivolgessimo la domanda a tutte quelle donne e a tutti quegli uomini adulti, dopo aver mostrato loro la propria fotografia di quand’erano bambini: «Che cosa mai ti è successo, amico? Perché sei cambiato così tanto, perché la navicella dei tuoi sogni ha fatto così miseramente naufragio?», essi - posto che avessero la franchezza di non negare -, il più delle volte risponderebbero: «La vita mi ha deluso».
«La vita mi ha deluso»: è una frase terribile. Non solo per la desolata nudità e per lo squallore esistenziale che lascia intravedere, ma sopratutto per la sua tragica inconsapevolezza, che rivela di primo acchito come quell’anima non riuscirà mai a guarire dalla propria mortale malattia, ossia la tranquilla disperazione che l’avvolge come un sudario, spegnendo ogni barlume di luce e ogni soffio di bellezza e di vita.
Dire che la vita ci ha deluso è come dire che il mondo ci ha deluso: è sciocco e puerile, perché il mondo è talmente ricco e vario che, se non siamo riusciti a trovare in esso nulla di bello e di gioioso, nulla per cui valesse la pena di continuare a sognare e ad amare, allora vuol proprio dire che il problema non era fuori di noi, ma dentro di noi; che sono i nostri occhi che non hanno saputo vedere quel che c’era da vedere e godere quel che c’era da godere.
E, quel che è peggio, vuol dire che, non avendo coscienza della reale natura della nostra insoddisfazione e della nostra frustrazione, non riusciremo mai ad elaborare gli strumenti per oltrepassarla e trasformarla in sostanza vitale.
Se, poi, si chiede a tutte quelle persone: «Ma in che cosa, dunque la vita ti ha deluso? Quando, come e in quali circostanze essa ha distrutto le tue speranze, ha tradito i suoi sogni e le tue più belle aspettative?», il più delle volte ci verrà indicato un episodio decisivo, o magari una serie di episodi, di carattere affettivo, professionale o altro, che starebbero a segnare la svolta, l’inizio dell’involuzione, della regressione dal regno delle belle speranze a quello dei tristi ripiegamenti e degli sconsolati bilanci esistenziali.
Eppure, analizzando bene quegli episodi, uno per uno, non si tarderà a fare una scoperta impressionante: non era una vera e propria barriera fisica, quella che ha indotto tanti uomini e donne a gettare la spugna nella lotta per la realizzazione dei propri sogni, e a rinchiudersi un una precoce, avvilente senilità esistenziale, ma una barriera mentale.
Scoperta inattesa e sconvolgente: tutti quegli uomini e quelle donne che ora, delusi e svuotati, si aggirano per le strade della vita, simili a degli animali feriti che desiderano soltanto rifugiarsi nella propria tana, in realtà non sono mai stati sconfitti dalle circostanze obiettive della vita, ma da un nemico molto più insidioso perché occulto e, quindi, inafferrabile: se stessi.
Non hanno creduto in se stessi, non hanno creduto nella forza dei loro sogni; non hanno avuto il coraggio di lottare sino in fondo, impegnandosi con tutte le loro forze: ma si sono arresi quando tutto era ancora possibile, quando le sorti erano ancora incerte.
Una barriera mentale li ha sconfitti: li ha persuasi che non ce l’avrebbero mai fatta, che quel traguardo era troppo al di sopra delle loro forze.
Non sempre, ma in un numero di casi assai superiore a quel che non si creda, il fallimento esistenziale non è PROVOCATO, ma semplicemente OCCASIONATO da un episodio sfortunato della nostra biografia; e questa “sfortuna” non è stata un imprevisto piovuto da chissà dove, ma il punto d’arrivo di un nostro atteggiamento fondamentalmente sbagliato, coltivato a lungo, fino a diventare più di una cattiva abitudine: un secondo abito, nemico di noi stessi.
La mancanza di fiducia in se stessi non è cosa che venga al pettine all’improvviso e dal nulla: viene da lontano ed è il frutto non di una singola circostanza, ma di tutto un modo di vivere e di rapportarsi con se stessi e con la realtà esterna; un modo di vivere che ha le proprie radici nell’infanzia e, poi, in quella specie di seconda infanzia che è la crisi dell’adolescenza. Si raccoglie quel che si è seminato a lungo, nel bene come nel male.
Un buon esempio di ciò che si intende per barriera mentale è dato dalle vicende storiche che videro i navigatori portoghesi avanzare lentamente lungo le coste occidentali dell’Africa, alla ricerca della via per le spezie, ma bloccati a lungo, quasi inspiegabilmente, dalla fama sinistra di un luogo che, in realtà, non era particolarmente pericoloso né particolarmente difficile da oltrepassare: Capo Bojador.
Molto più che le Colonne d’Ercole - le quali, anzi, non costituirono mai, nemmeno nell’antichità, un vero limite psicologico, tanto è vero che le Canarie o forse le Azzorre erano note ai Greci e ai Romani, col nome di Isole Fortunate -, fu il Capo Bojador a tenere inchiodati i navigatori europei, con la fama minacciosa che lo avvolgeva, fino al 1400 inoltrato, anche a causa dell’esito disgraziato di alcuni tentativi di spingersi oltre, come quello dei fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, alla fine del XIII secolo.
Così ha ricordato quella vicenda lo storico americano Daniel J. Boorstin in «Storia delle conquiste umane» (titolo originale: «The Discoverers», Random House, 1983; traduzione italiana Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985, vol. 1, pp. 149-50):

 «Al contrario di Colombo, che avrebbe mirato direttamente alle Indie, Enrico il Navigatore – confermando il proprio oroscopo- aveva una meta meno circostanziata, più indefinita e più moderna. Così riferiva pieno di ammirazione il cronista Gomez Eanez de Zurara: “Il nobile spirito di questo Infante lo spingeva sempre a intraprendere e a condurre a termine grandissime imprese… egli desiderava anche conoscere  le terre che si trovavano al di là delle isole Canarie  e di quel Capo chiamato Bojador perché, fino a quel tempo, né scritti, né  memoria d’uomo avevano saputi dare qualche notizia  certa sulla natura delle terre oltre quel Capo… gli sembrava che se lui o qualche altro sovrano non si fossero impegnati  per acquisire quelle conoscenze, nessun marinaio o mercante avrebbe mai osato farlo, perché è chiaro che nessuno di essi si sarebbe mai dato la pena di far rotta verso un luogo in cui non ci fosse una fondata e certa speranza di profitto”.
Non ci sono prove che l’Infante si fosse posto il preciso scopo di aprire una rotta che arrivasse alle Indie girando attorno all’Africa. Quello che attrasse Enrico fu l’ignoto, che a ovest e sud-ovest dominava nel Mar delle Tenebre, e a sud lungo l’inesplorata costa africana. […]
Se guardiamo una moderna carta dell’Africa, per trovare il Capo Bojador (ossia “Capo Sporgente”) sulla costa occidentale appena a sud delle Canarie, dovremo cercare a lungo e con l’aiuto di una lente.  Circa 1.500 chilometri a nord della parte dell’Africa che più sporge sull’Atlantico, si nota una piccola gobba della linea costiera, una “sporgenza” così leggera che nelle carte dell’intero continente quasi non si nota. La barriera di sabbia lungo la costa è così bassa che si rivela solo quando ormai vi si è molto vicini, e a questo punto si incontrano anche infide scogliere e fortissime correnti. Capo Bojador non era peggio di tanti altri ostacoli che gli abili marinai portoghesi avevamo affrontato e superato cin successo, ma in questo caso essi erano convinti che rappresentasse il loro “non plus ultra” (Non osare proseguire oltre!).
Se si pensa ai pericolosissimi promontori (da Capo di Buona Speranza al Capo Horn) che gli europei dovevano doppiare nel giro di un secolo, ci si rende conto che Capo Bojador era tutt’altra cosa. La barriera era mentale, tipico esempio degli ostacoli psicologici che si pongono all’esploratore. così Zurara ci racconta”perché fino a quel momento le navi non avessero osato oltrepassare4 il Capo Bojador”:
“E per dire la verità, non era per codardia o per mancanza di buona volontà, ma per la novità della cosa e per le voci antiche e insistenti che correvano su questo Capo e che erano state alimentate dai marinai di Spagna di generazione in generazione… Perché certamente non si può pensare che tra tanti uomini nobili che compirono gesta così grandi ed elevate per la gloria della loro fama, non ce ne sia stato uno che abbia osato  questa impresa. Ma essendo persuasi del pericolo, e non vedendo alcuna speranza di trarne onore o profitto, essi rinunciarono al tentativo. perché, dicevano  marinai, chiaro è che oltre questo capo non esiste razza di uomini né luogo abitato… E il mare è così basso che a una lega da terra è profondo solo un braccio, mentre le correnti sono così terribili che, una volta passato il Capo, nessuna nave sarà in grado di fare ritorno… questi nostri marinai… [furono] dissuasi non solo dalla paura, ma dalla minaccia di questa, e tale inganno fu causa di spese molto ingenti.”
Nella sua dimora di Sagres, Enrico sapeva che la barriera fisica sarebbe rimasta invalicabile se prima non fosse stata superata quella della paura.
Mai avrebbe potuto addentrarsi nell’ignoto, a meno di non convincere i propri uomini a oltrepassare Capo Bojador. Tra il 1424 e il 1434 l’Infante fece partire quindici spedizioni con lo scopo di doppiare l’innocuo ma minaccioso Capo. Tutte tornarono indietro, giustificando in qualche modo la mancata missione mai compiuta da altri prima. Intorno al leggendario Capo il mare ribolliva sotto le cascate di sabbie rosse che precipitavano dalle rocce a strapiombo, mentre i banchi di sardine che nuotavano nei bassi fondali intorbidivano le acque fra i gorghi. Sulla costa deserta non si vedevano segni di vita. Non era questa lì immagine stessa della fine del mondo?
Nel 1433 Gil Eanes riferì all’Infante che il Capo era effettivamente impossibile da superare, ma Enrico non si arrese. I suoi piloti portoghesi erano dunque pavidi come quei marinai fiamminghi o del Mediterraneo che seguivano solo le rotte conosciute? Nel 1434 l’Infante gli fece ritentare la missione, rinnovandogli le promesse di ricompense per la nuova spedizione. Quando giunse in prossimità del Capo, questa volta Eanes virò a ovest, rischiando i pericoli ignoti dell’oceano al post di quelli noti del Capo; poi voltò a sud e scoprì che il Capo Bojador era già alle sue spalle.»

A partire da quel momento, le spedizioni si susseguirono velocemente, ed ebbe inizio la graduale, ma inarrestabile avanzata delle caravelle portoghesi lungo la costa occidentale africana, che le avrebbe condotte, prima della fine del secolo, a trovare e oltrepassare il Capo di Buona Speranza e il Capo Agulhas, estremità meridionale del continente e ultimo ostacolo sulla via le Indie, loro meta finale.
Quanti di noi sono rimasti bloccati, nella loro vita e nei loro stessi progressi spirituali, da una barriera mentale simile a quella che tenne inchiodati, per così tanti anni, dei pur valenti marinai al di qua del temutissimo Capo Bojador? Diceva un filosofo greco che noi non siamo ossessionati dalle cose, ma dall’idea ci siamo fatta di esse: e questo è il nocciolo del problema.
Se noi pensiamo che una cosa sia al di là della nostra portata, delle nostre possibilità, è praticamente certo che non riusciremo a raggiungerla, per quanti sforzi facciamo: perché il segreto del successo è credere in se stessi, credere fermamente.
Vi sono degli atleti, per esempio, i quali, pur preparandosi con molto scrupolo e pur disponendo di ottime capacità atletiche, arrivano sempre secondi: si direbbe che vogliano fare collezione di secondi posti, e intanto non riescono mai ad arrivare primi. La verità è che quelle persone non credono in se stesse, non credono di poter vincere.
Ma che cosa vuol dire credere in se stessi? Qualcuno disse che, se noi avessimo realmente fede, potremmo perfino ordinare alle montagne di spostarsi e di gettarsi nel mare, ed esse ci obbedirebbero. Il fatto è che, per avere realmente fede in se stessi, bisogna tenere sempre presente che cosa si è: non dei poveri esseri, limitati e imperfetti, gettati a caso nel grande caso della vita e del mondo; ma delle scintille dell’energia universale promanante dall’Essere e, quindi, capaci di attingere dall’Essere infinte riserve di forza e di consapevolezza.
Credere in se stessi, non vuol dire fondare ogni speranza sulla mente, ma, al contrario, liberarsi dalle mille voci confuse e discordi della mente, che ci distolgono dalla meta e ci fuorviano con pensieri incessanti ed ingannevoli. L’ideale, quando ci si prepara ad affrontare un compito particolarmente impegnativo, sarebbe di dimenticarsi del proprio io ed affidarsi, invece, come una docile foglia portata dalla corrente di un fiume, alla forza grandiosa e benevola di cui siamo una emanazione o un riflesso.
È quella forza, che ci porterà alla meta; è quella forza, che ci farà oltrepassare le difficoltà, sostenendoci sino alla fine.
In questo dobbiamo imparare a credere, non nella nostra mente razionale: la quale crede di sapere tante cose, ma - in realtà - è tremendamente ignorante riguardo all’essenziale.