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Il business afgano

di Emanuela Pessina - 30/06/2010



L’autorità statunitense U.S. Geological Survey ha confermato di recente che il sottosuolo afghano custodisce materie prime per un valore complessivo di 1000 miliardi di dollari. Tra queste ricchezze sono presenti soprattutto rame, litio, ferro, oro, cobalto e terre rare: elementi talmente preziosi per la società contemporanea da trasformare l’Afghanistan in una vera e propria lampada di Aladino per ogni Paese industriale del mondo. Ma le sorprese non sono finite: gli ultimi sviluppi mostrano che in Afghanistan la quantità di petrolio è 18 volte superiore a quanto stimato nel 2001.

Secondo i geologi, l’Afghanistan ha le tutte le carte in regola per diventare “l’Arabia Saudita del litio”: un ruolo no da poco, se si considera che il litio è il materiale utilizzato per le batterie ricaricabili di cellulari, portatili e auto elettriche. Tra le terre rare nascoste nel Paese mediorientale, inoltre, ci sarebbe il gallio, elemento necessario alla produzione delle celle solari negli impianti fotovoltaici. In sostanza, nonostante la sua attuale povertà, l’Afghanistan sembra essere destinato a diventare uno dei più importanti giacimenti del futuro, poiché la quantità di materie prime è tanto elevata da poterlo rendere una delle nazioni esportatrici più potenti.

I depositi sono stati scoperti grazie al materiale cartografico raccolto dagli esperti minerari dell’ex-Unione Sovietica durante l’occupazione dell’Afghanistan degli anni ’80. Dopo il ritiro delle truppe russe, i geologi indigeni hanno conservato il materiale in via del tutto personale e l’hanno depositato negli archivi statali solo nel 2001, dopo la caduta del regime talebano. Secondo le notizie ufficiali, i dati sul sottosuolo afghano sarebbero stati trovati soltanto nel 2004 dagli studiosi nordamericani e divulgati, poi, nel 2007. L’interesse pubblico, tuttavia, sembra essersi rivolto alle ricchezze dell’Afghanistan solo oggi, dopo che il quotidiano statunitense New York Times ha scritto un articolo al riguardo.

Il presidente afghano Hamid Karsai, da parte sua, considera la scoperta una buona notizia: un suo portavoce l’ha definita addirittura “la migliore notizia degli ultimi anni per l’Afghanistan”. Gli esperti, tuttavia, dubitano che lo sfruttamento di queste risorse possa avvenire in maniera liscia, corretta e indolore. La posta in gioco è alta e le esperienze passate e presenti insegnano a diffidare di ogni buon proposito in certe situazioni: è una storia vecchia come il mondo che, purtroppo, non sembra interrompere mai il suo ciclo diabolico.

Per estrarre le materie prime servono investimenti enormi: l’Afghanistan è politicamente instabile e non ha infrastrutture statali qualificate per le operazioni. Inoltre, il rischio corruzione è alto: nel 2009 il Ministro per le risorse minerarie afghano si è dovuto dimettere proprio a causa di una tangente di 30 milioni di dollari ricevuta da un’azienda cinese per l’esclusiva dell’estrazione del rame, privilegio tuttora in vigore.

L’amministrazione statunitense ha già predisposto una commissione di esperti internazionali in attività minerarie per la consulenza del Governo afghano in materia. Che l’intromissione si sviluppi positivamente, purtroppo, è discutibile: gli Stati Uniti, così come i Paesi del mondo tutti, hanno i loro interessi economici da difendere. Inoltre, le esperienze in Congo e Nigeria mostrano come dalle grandi ricchezze del sottosuolo e dall’intervento degli europei non si siano sviluppati che conflitti etnici e grossolana corruzione. Risultato immancabile è l’inasprimento delle disuguaglianze fra i pochi ricchissimi e la massa di poverissimi, tipico quadro delle società africane che - purtroppo - da parecchio tempo non fa più notizia.

Da non dimenticare, in tutto questo, la caratteristica principale per cui è conosciuto l’Afghanistan, e cioè la cosiddetta Enduring Freedom (OEF), la “missione di pace” con cui Nato e Usa vogliono liberare la nazione (e il mondo) dai malefici talebani. La notizia delle ricchezze del sottosuolo afghano ha offerto ai numerosi critici dell’OEF un’ulteriore chance per ribadire le loro accuse di sporco doppio gioco nei confronti delle forze armate che occupano Kabul: le truppe Nato sarebbero in Afghanistan per difendere le materie prime e i loro interessi economici, più che la democrazia e il popolo semplice.

Per i più maliziosi, tuttavia, le prospettive di ricchezza dell’Afghanistan sono servite semplicemente da specchietto per le allodole mediatico. La settimana scorsa, infatti, l’allora comandante generale delle truppe Nato in Afghanistan, Stanley McChrystal, aveva accennato a un’interruzione dell’offensiva nella provincia di Helmand (Sud-Est dell’Afghanistan) e a un rinvio - a chissà quando - dell’avanzata nella provincia di Kandahar (Sud). Affermazioni che, come scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, suonano come una “dichiarazione di bancarotta”: la notizia ricchezze dell’Afghanistan avrebbe cercato di nascondere prepotentemente l’insicurezza umana di un momento, un’esitazione che gli Stati Uniti non si possono permettere.

Se queste voci siano solo malignità, è tutto da dimostrare. Di certezze, invece, ve sono almeno due: in Afghanistan stazionano attualmente 100mila soldati Nato, di cui 3150 italiani e 4300 tedeschi, e l’onnipotente generale McChrystal è stato “licenziato”. E, mentre i grandi sono impegnati a Toronto per cambiare le regole di gioco dell’economia e i piccoli si commuovono per i mondiali in Sudafrica, in altri angoli di mondo la quotidianità sembra continuare il suo corso, paradossalmente offuscata dai media stessi.