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Il punto G

di Gianni Petrosillo - 30/06/2010




Si chiamano eventi “G”, disponibili in varie versioni a 2, a 4, a 6, a 7, a 8, a 14 e anche a 20 membri, veri riti orgiastici di un potere in maschera amante dei preliminari politici che però non conducono mai al sommo piacere collettivo.
E’ tale il punto “G” dei rapporti internazionali tra grandi Potenze (non da ultimo la “doppietta G8-G20” del Canada), la suprema zona erogena dove soddisfano la loro frenesia libidinoso-scenografica presidenti, ministri e giunoniche delegazioni nazionali, tutti in apparenza preoccupati di riparare all’astinenza economica che sta colpendo le popolazioni mondiali, ma in verità conquistati soltanto dal loro narcisismo protratto di freudiana memoria.
Un profluvio di effusioni, sorrisi, pacche sulle spalle e photo opportunity tra leaders che disquisiscono sul sesso degli angeli. Baccanali stanchi e ripetitivi dove i padroni del pianeta ostentano virilità ed eccitazione per infondere fiducia al mondo, un mondo però sempre più dubbioso circa le reali capacità di performance e di resistenza dei propri capi. Non c’è stimolazione che tenga, l’inturgidimento è fiacco e l’ansia da prestazione inibisce le soluzioni efficaci. O forse, è inevitabile che sia così perché il corteggiamento ridondante e pavonesco, tipico di questi vertici, mira a dissimulare una prudenza di fondo tra partners che non si fidano l’uno dell’altro. In conclusione, dopo baci e abbracci si è giunti ad una rapida separazione senza tormenti e ad un altrettanto veloce ripiego su un più appagante onanismo nazionalistico che, in tempi di scombussolamenti sistemico-ormonali e conflitti geopolitici, assicura godimenti solitari ma meno incerti nei tempi e nei modi. Insomma, si ami chi può…senza rischio di flop. Per intanto, la kermesse dell’Ontario è costata circa un miliardo di dollari. Ma non sarà troppo per un amplesso globale destinato a finire senza erezioni decisionali…
A parte gli scherzi erotico-politici c’è da confermare che in questa fase le vetrine dei diversi summit internazionali, dove capi di Stato e di governo ridanciani, accompagnati da feluche imbalsamate, si sforzano di apparire in sintonia tra loro per assecondare e tranquillizzare una opinione pubblica in preda al panico, non portano più da nessuna parte. Questo perché l’origine della debacle globale non è puramente economica (e non sarà risolta con alchimie sui bilanci pubblici o con regolazioni sulla domanda globale, onde costringere le economie più stabili a far crescere i consumi interni, laddove alcune di queste hanno finora pensato solo a tenere in ordine i conti) ma è legata al terremoto dei rapporti di forza tra potenze in un’epoca di crescente conflitto multipolare. Come ha scritto La  Grassa nel suo ultimo saggio pubblicato su questo blog (Appunti sulla crisi) è lo scontro in profondità tra falde tettoniche (cioè tra potenze) che libera energia incontrollabile. Quest’ultima sale in superficie sconvolgendo tutta l’ “orografia” terrestre e provocando effetti devastanti sulle vite di tutti noi. Ma ciò che sta accadendo attiene all’indebolimento del centro regolatore statunitense, divenuto tale in una precedente epoca storica, il quale adesso si trova a dover competere con altri epicentri gravitazionali in rimonta di forza attrattiva. L’unica cosa sicura è che questa fase di stagnazione potrebbe protrarsi a lungo, con momenti di ripresa e di nuova discesa, fino al manifestarsi effettivo di quello scontro geopolitico tra aree e paesi che oggi viene celato dietro il paravento delle questioni di mercato. Del resto, pur se da un approccio antitetico a quello qui presentato, si tratta della stessa opinione espressa da Paul Krugman. Proprio come La Grassa, Krugman ritiene “…né la Lunga Depressione del XIX secolo, né la Grande Depressione furono epoche di declino ininterrotto. Al contrario: in entrambi i casi vi furono periodi in cui l’economia crebbe. Tali miglioramenti, in ogni, caso, non furono mai sufficienti a rendere nullo il danno arrecato dalla depressione iniziale, e furono seguite a ruota da ricadute. [Quest’ultima fase] assomiglierà maggiormente alla Lunga Depressione che alla molto più terribile Grande Depressione”.
Come si può notare questa valutazione è vicina a quella di La Grassa che nel saggio già citato sostiene: “La previsione da farsi sembra essere quindi quella di un periodo abbastanza lungo (ma, almeno grosso modo, direi non più di una generazione) di relativa stagnazione, il che non significa assenza di momenti di crescita o di nuove crisi di tipologia economica; solo che queste andranno inserite nel contesto del mutamento dei rapporti di forza nella lotta (piena di accordi, di finte cooperazioni, di sorrisi davanti e manovre spiacevoli alle spalle, ecc.) tra le potenze, di cui una resterà ancora abbastanza a lungo la più forte pur se ci si allontanerà progressivamente, ma a ondate, dall’unipolarismodei 10-12 anni successivi alla dissoluzione dell’Urss”.
Tuttavia, in Krugman manca la dimensione fondamentale, quella del “contesto dei rapporti di forza tra potenze” e questa "mancanza" fa irrimediabilmente scadere la sua analisi nel cul de sac delle dispute economicistiche di tutti i tempi  tra politiche espansive e rigorismo fiscale. Il Professore statunitense predilige le  prime ma il secondo va per la maggiore. Krugman parla di dogmatismo riferendosi all’altra scuola di pensiero senza rendersi conto che il suo orientamento contiene dogmi speculari a quelli avversi, ugualmente inservibili a leggere la situazione presente. Una guerra tra sette economicistiche molto lontane dalla realtà.