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Maleducazione, diffusa e tollerata

di Paolo Corticelli - 30/06/2010

Fonte: Il Fatto Quotidiano


L’indagine è un po’ datata, risale al 1999, realizzata dal quotidiano Il Messaggero ma gli esiti sembrano proprio non modificarsi, nel tempo: genitori e figli, nell’arco della giornata, dialogano per circa otto minuti, erano venticinque nel periodo fra le due guerre e ancora venti negli anni Sessanta. “Di cosa parlano – si legge nell’inchiesta – genitori e figli in questi otto minuti e, soprattutto, di cosa non parlano? Dai 15 anni fino ai 18 scuola e soldi sono gli argomenti principali, per il 42% del campione. Seguono le discussioni sulle frequentazioni di amichette e amichetti (29%) e le negoziazioni sul tempo libero (15%). Tutti questi temi, per ammissione comune di genitori e figli, sono molto spesso fonte di contrasti”. È un linguaggio impoverito, quello adoperato da genitori e figli, in queste situazioni; non è solo l’area semantica e lessicale a soffrire bensì i soggetti, gli attori, coinvolti: “Ci siamo parlati ma non ci siamo detti nulla”, appunto. Perché è fondamentale una riflessione su una serie di dati che dovrebbero allarmare?

Per il semplice motivo che ben si comprende come l’aspetto educativo genitoriale sia del tutto trascurato da almeno tre-quattro lustri. Così genitori, o pseudo tali, delegano in toto alla scuola una sorta di “mandato a educare”. Stoltezza e malcostume genetico si fondono in una alchimia pericolosa. In altri termini: da almeno 15 anni vi sono genitori che non sono capaci di assumersi l’onere educativo con responsabilità, abnegazione, cura verso i propri figli. E soprattutto perché sono maleducati proprio loro, mamme e papà. Parlare oggi di buona educazione può sembrare fuori luogo. Per il semplice motivo che nessuno ne parla. Per il motivo ancora più sgradevole che ai bambini non si insegna a salutare con rispetto, a non dare del tu agli adulti, a non urlare come ossessi se si è per strada o in un locale pubblico (osservate, talvolta, in un bar: le mamme sedute a spettegolare, i figli che ne fanno di ogni sorta correndo e schiamazzando).

C’è un insegnante che richiama e punisce troppo il bullo di giornata? Niente paura. Arriva papà, con la sua ignoranza ben certificata, a cercare di intimidire. Il primo approccio non è quello di chiarire il motivo della nota disciplinare o di un richiamo da parte del docente, ma da subito si contesta una percepita severità mettendo in dubbio l’autorevolezza dell’insegnante spingendosi anche a minacciare interventi del legale. Sì,perché è di moda oggi affermare “ne parlerò con il mio legale”, oppure “la mia fidanzata è avvocato”, con quell’atteggiamento aggressivo-difensivo accreditato dal paventato intervento dell’esponente forense (ma da che cosa deve difendersi un genitore?). Poi arrivano le frasi celebri che solitamente i docenti e i capi di istituto ascoltano ogni giorno: “Lei dica quello che vuole, io credo comunque a mio figlio!”; e ancora: “Non ho tempo per venire a colloquio, io lavoro!”; “La nota è stata data perché la maestra è stressata, me lo dice mio figlio!”. Oppure: “Non è successo quello che lei dice, le cose non sono andate così”.

Non si capisce come sia possibile tanta certezza visto che in classe ci sono alunni e insegnanti e non i genitori. Comunque è diffusa la tendenza a giustificare, sempre e comunque, il proprio figlio. E così l’autorevolezza dell’istituzione scolastica e la credibilità dei docenti vengono messi in discussione. Non vi è rispetto. Si perde il senso dell’assunzione di responsabilità.

Non si educa, non si aiuta a crescere. E si diffonde quel fenomeno denominato “pedofobia”: già nell’ottavo rapporto Eurispes-Telefono azzurro – l’istituto di studi politici, economici e sociali – si segnalava il fatto che i genitori temono la reazione dei figli, per cui sono permissivi e sempre più vulnerabili nei loro confronti. Nel decimo rapporto, diffuso quest’anno, si denuncia “una tendenza ormai diffusa fra i giovani a fare cattivo uso della propria vita”. I figli non hanno regole né un’idea del loro futuro. E la situazione si aggrava, soprattutto se si dedica al dialogo meno di un’ora alla settimana o si delega la scuola a essere il genitore mancante.