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Terze vie

di Luciano Fuschini - 01/07/2010

 




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Da molto tempo si sono compresi i guasti che i due volti che la Modernità ha assunto in àmbito sociale ed economico, quello capitalista e quello socialista, provocavano nel tessuto sociale. Il capitalismo imponendo le leggi ferree del Mercato e del Profitto che creano diseguaglianze abissali e impongono i ritmi frenetici di una concorrenza spietata. Il socialismo affermando un collettivismo accentratore e statalista, inevitabilmente autoritario e burocratico, nonché meno efficiente sul terreno produttivo, quello decisivo nella logica della Modernità.
Per ovviare agli inconvenienti di entrambi i sistemi, fin dall’Ottocento sono state ipotizzate terze vie, tali da correggere i difetti di capitalismo e socialismo. Può già essere intesa come una terza via la dottrina sociale della Chiesa, formulata nella famosa enciclica Rerum Novarum di Leone XIII verso la fine dell’Ottocento. L’enciclica, avversando il socialismo, condannava il principio dell’uguaglianza economica come “contro natura”: i diversi ruoli e le diverse competenze necessariamente si traducono in diverse retribuzioni. Inoltre la proprietà privata è un diritto che nessuno può e deve conculcare. D’altra parte, contro il capitalismo, l’enciclica pone non il profitto ma la “giusta mercede”, quella che consente al lavoratore di mantenere dignitosamente la propria famiglia, al centro del processo produttivo. Per ottenere questo risultato i lavoratori sono invitati a organizzarsi in leghe e società di mutuo soccorso e lo Stato è tenuto  a garantire i loro diritti, evitando comunque gli scioperi, espressione di una lotta di classe che deve essere ripudiata in nome del bene comune e della carità cristiana. In definitiva, la proprietà è un diritto ma deve essere usata per la collettività: uso sociale di un bene individuale. Col senno di poi, possiamo dire che la dottrina sociale della Chiesa ha favorito la nascita di un associazionismo popolare cattolico, soprattutto nelle campagne, ma non ha minimamente intaccato le logiche del mercato e del profitto.
Una terza via pretese di essere anche il fascismo. Oggi, dopo gli studi di Renzo De Felice e della sua scuola, appare del tutto inadeguata l’interpretazione della storiografia dogmatica marxista, secondo cui il fascismo non fu altro che la reazione violenta della borghesia per bloccare con la forza l’ascesa dei proletari e del socialismo.Il fascismo fu un fenomeno complesso al cui interno operavano anche fermenti innovatori che trovarono espressione nel programma del ’19, nel nazionalismo fiumano, nelle nazionalizzazioni degli anni Trenta, nella politica di assistenza sociale, infine nei propositi, pur velleitari e tardivi, di Salò. La terza via doveva realizzarsi nel corporativismo, il grande progetto cui si dedicò uno degli esponenti più inquieti e più interessanti del regime, il romano Bottai. Ogni ramo della produzione ebbe la propria corporazione, in cui erano rappresentati i proprietari, i lavoratori organizzati nel sindacato fascista, e lo Stato con i suoi funzionari. Ogni conflitto di interesse fra datori di lavoro e dipendenti doveva essere composto all’interno della corporazione, in un clima di collaborazione e non di lotta di classe, nello spirito della difesa dei supremi interessi della Nazione: un ideale che fu apprezzato dai cristiano-sociali e dalla “sinistra” fascista. Qualora un accordo non si fosse trovato, l’esito del conflitto non poteva essere lo sciopero ma l’arbitrato dello Stato tramite i suoi funzionari, cui spettava l’ultima parola. Lo spirito di tutto il sistema era quello della subordinazione dell’interesse individuale e di categoria all’interesse dell’intera collettività. Resta il fatto che il sistema corporativo garantì più i proprietari che i salariati e, comunque, abortì sul nascere nonostante gli sforzi di Bottai per renderlo il cardine del regime.
A ben vedere anche la socialdemocrazia, nonostante volesse essere la via democratica e pacifica al socialismo e non qualcosa di diverso dal socialismo stesso, è stata, nelle sue realizzazioni storiche, l’abbozzo di una  terza via. Ha accettato le regole del mercato, la ricerca del profitto come molla dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione. Tuttavia, conciliandosi anche con le correnti democratiche di impronta laica come quelle di derivazione mazziniana, ha promosso una programmazione statale che inquadrasse l’iniziativa privata in un piano, orientando gli investimenti; ha nazionalizzato in alcuni settori; ha creato una rete di servizi sociali e di assistenza ai bisognosi, in un clima di apertura ai sindacati e al cooperativismo e nella logica keynesiana degli alti salari per stimolare i consumi e di conseguenza la produzione. Si può dire che la stagione della socialdemocrazia in Europa ha dato ai lavoratori dipendenti garanzie e tenore di vita quali mai avevano avuto. Ma col senno di poi possiamo anche affermare che il sistema ha prodotto inflazione e un fiscalismo eccessivo, i grandi inconvenienti delle soluzioni keynesiane. Del resto nemmeno la socialdemocrazia, pur con la sua maggiore giustizia distributiva, ha permesso di uscire dalle logiche del mercato capitalista.
La ricerca di una terza via ha prodotto anche strane contorsioni mentali, come quella di Enrico Berlinguer negli anni Settanta, quando parlò di eurocomunismo come terza via fra la socialdemocrazia incapace di uscire dal capitalismo e il comunismo autoritario e burocratico di tipo sovietico. Era un balbettìo confuso che infatti si spense senza lasciare traccia, fra i lazzi di un craxiano come Martelli che parlò di “neurocomunismo”.
In conclusione, le affannose ricerche di una terza via sono tutte fallite. Non esiste terza via perché tutte queste presunte soluzioni si collocano pur sempre nel quadro della Modernità. Si potrà uscire dal mercato capitalista e dal socialismo industrialista, statalista e burocratico, solo adottando la prospettiva dell’antimodernità. Non una terza via ma una fuoruscita netta e senza equivoci dalle strettoie di un sistema che ha esaurito tutte le sue possibilità.