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L’uomo, come l’animale, deve scegliere se comunicare realmente o esporsi ai predatori

di Francesco Lamendola - 05/07/2010




Comunicare in modo efficace è importante per gli animali, così come lo è per l’uomo; il problema è che, quanto più la comunicazione si fa chiara ed esplicita, tanto più aumenta il rischio di esporsi alla minaccia esterna, ovvero di finire intercettati dai predatori.
Un uccello che lancia il suo richiamo tra le chiome degli alberi, si espone al pericolo di farsi individuare da un rapace in agguato; la rana che emerge dall’acqua e cerca di attirare l’attenzione della femmina, corre il rischio di tradire la propria presenza a chi non dovrebbe e, pertanto, di finire in bocca alla biscia appostata tra i ciuffi d’erba.
Nell’ambito delle relazioni umane si verificano spesso situazioni equivalenti, anche se l’analogia con gli animali in senso stretto (“mors tua, vita mea” ) vale solo in casi particolari, ed esempio in un contesto di guerra o nel corso di uno scontro tra bande criminali: ogni segnale di richiamo lanciato verso i propri amici può tramutarsi in un pericolo mortale; e ciò tanto più facilmente, quanto più forte e chiaro è stato il messaggio emesso.
Gli etologi, che oggi sono quasi tutti di tendenza evoluzionista neodarwiniana, amano sottolineare queste analogie; e la stessa cosa vale per i sociologi, tutti presi dalla frenesia di imitare gli etologi per guadagnarsi il biglietto d’ingresso nel salotto buono della “cultura scientifica”, prendendo le debite distanze dalla svalutatissima “cultura umanistica”; tant’è che perfino la pedagogia si è liberata della sua imbarazzante parentela con la filosofia e ha indossato, non senza civetteria, i panni delle sedicenti “scienze dell’educazione”.
Dal punto di vista etologico, il fatto che gli animali predatori possano intercettare la comunicazione tra individui di una specie di cui si nutrono, diventando - per così dire - i destinatari illegittimi di essa, è un fatto di notevole interesse, perché ciò, alla lunga, può influenzare l’evoluzione della comunicazione medesima.
L’etologo John Alcok ha descritto un caso classico, quello di una specie di rana, «Phylasaemus pustolosus», nel suo libro «Etologia. Un approccio evolutivo» (Bologna, Zanichelli, 1992, 2001; traduzione italiana di Carlo Monaci e Jane Nyham):

«Alcuni predatori se ne stanno in ascolto, tentando di individuare i segnali acustici emessi dalle loro prede. Un esempio ora famoso è offerto dalla rana “Phylasaemus pustolosus” e dal suo nemico, il pipistrello “Trachops cirrhosus”. Le rane maschio emettono un richiamo di attrazione sessuale che si fa ben sentire durante la notte. Talvolta essi hanno successo nell’impresa che si prefiggono, ma esiste sempre il rovescio della medaglia, che in questo caso assume la forma di un pipistrello, il quale localizza la rana maschio seguendo i potenti richiami che essa invia per tutt’altri scopi, dopo di che la cattura e la divora. Per quale motivo allora la rana emette i suoi richiami se ciò può portarla a morte? Le rane maschio vivono un dilemma di cui i pipistrelli approfittano. Se non emettono richiami, non si accoppiano e non lasciano una discendenza; se, invece inviano i loro suoni amorosi, possono avere l’opportunità do accoppiarsi, ma al tempo stesso rischiano di essere individuate e mangiate. Ilo punto cruciale di tutto ciò consiste nel ridurre i costi. Le rane lo fanno in uno svariato numero di modi, come è stato dimostrato da Michael Ryan, Merlin Tuttle e dai loro collaboratori. Per prima cosa esse smettono di emettere i loro richiami nel caso in cui individuino un pipistrello che vola o un modello di cartone di un grande pipistrello che plana sopra le loro teste, inviato dagli sperimentatori. […]
La rana “Phylasaemus pustolosus” talvolta mette in forse la sua attività d’attrazione come risposta al rischio di predazione, addirittura anche nel caso i cui non abbia individuato un pipistrello in arrivo. Il richiamo della rana è costituito di due parti,un lamento iniziale e uno o più schiocchi finali. Quando un maschio emetto il lamento da solo utilizza solo la componente del lamento, sebbene in ripetuti esprimenti di “playback” [adoperando richiami registrati] si sia avuta la dimostrazione che le femmine quasi sempre vanno più facilmente verso altoparlanti che emettono un richiamo completo (con la componente del lamento e quella dello schiocco) ignorando invece quelli che si limitano ad emettere la componente del lamento. Esperimenti di “playback” dello stesso tipo hanno tuttavia mostrato che i pipistrelli “Trachops cirrhosus” tendono a ispezionare, fino a ad atterrare su di essi, gli altoparlanti che emettono il richiamo completo, con una frequenza quasi doppia rispetto a quelli che emettono solo la prima componente di esso.
Gli studiosi delle rane hanno inoltre dimostrato che esse sono più sicure in un grande coro piuttosto che in uno piccolo, principalmente perché un pipistrello ha molte più opportunità  di scelta quando si trova di fronte a un gruppo grande. Quindi i ricercatori conclusero che, quando una rana maschio è isolata, e perciò molto facilmente vulnerabile, essa modifica il suo canto per fare in modo che il predatore abbia maggiori difficoltà a individuarla; ciò compromette, almeno in parte, la sua attrattiva sessuale, ma le aumenta le probabilità di poter vedere lo spuntar del sole. La predazione da parte dei pipistrelli ha probabilmente influenzato l’evoluzione delle tattiche di comunicazione delle rane “Phylasaemus pustolosus”  maschio.»

Ora, mentre la posta in gioco, nel mondo della comunicazione animale, è, da un lato, la possibilità di accoppiarsi e quindi di riprodursi, dall’altro lato, la possibilità di essere predati e quindi di trovare la morte, nel caso della comunicazione umana le cose stanno solo apparentemente in maniera meno drammatica.
È vero che, in linea di massima (guerra fra eserciti e guerra di mafia a parte), non vi è il rischio di perdere la vita; però, anche nel caso della comunicazione umana i rischi ad essa legati sono notevoli, sul piano delle ferite dell’anima se non su quello delle ferite fisiche.
In un mondo in cui tutti, o quasi tutti, tendono ad indossare una maschera, a camuffarsi, a spacciarsi per ciò che non sono, colui o colei che voglia adottare una strategia di comunicazione aperta ed esplicita va incontro ad un grosso rischio, perché si espone, si mette a nudo e, in un certo senso, si offre indifeso all’altro; a quel punto, solo il fatto che l’altro possieda un elevato senso morale potrà salvarlo da spiacevoli conseguenze.
Esistono numerosi individui, infatti, i quali, oltre a non volersi mai esporre e, quindi, ad adottare modalità di comunicazione inautentiche e camuffate, spiano costantemente coloro che li circondano per cogliere il promo segno di imprudenza, il primo passo falso - ammesso che la sincerità verso il prossimo si debba considerare come un passo falso - per vibrare il colpo decisivo, magari dopo aver tratto ogni vantaggio possibile dalla situazione.
Esistono, cioè, degli individui abietti, per i quali è motivo di vanto non accogliere come un tesoro d’inestimabile valore la confidenza e la fiducia di un altro essere umano, ma affrettarsi ad usare quella confidenza e quella fiducia come un’arma per colpire moralmente il prossimo, per ricattarlo, per umiliarlo e per averlo alla propria mercé.
In un società armoniosa, orientata al reale benessere dei suoi membri e non a farsi schiava del mito del Prodotto Interno Lordo, la percentuale di questi individui abietti è relativamente modesta; ma in una società esasperatamente competitiva, dove tutti sono potenzialmente in conflitto con tutti gli altri, il loro numero è ragguardevole.
In ogni essere umano si annida una parte oscura, che gode di poter esercitare una qualche forma di potere sul prossimo; normalmente essa è tenuta a bada non dal timore di una sanzione esterna, ma dal proprio senso etico. Se, però, il messaggio continuamente veicolato dai mezzi di comunicazione di massa va nella direzione opposta; se, cioè, presenta come perfettamente normale, o addirittura esalta, il cinico approfittarsi della lealtà altrui, allora questa parte oscura viene lasciata libera di emergere e di scatenarsi senza alcun riguardo.
Anche nel mondo umano vi sono i predatori in agguato: sono quelle persone vili e meschine che si nascondono tra i giunchi in riva al fiume, come fa il coccodrillo quando le gazzelle scendono all’abbeverata, e scattano con ferocia allorché si presenta loro la possibilità di colpire stando al coperto, di colpire senza nulla rischiare.
Perfino su Internet esiste una miriade di simili personaggi, tutti uguali nel loro squallore: esseri minuscoli e pigri, che non fanno nulla né mai si mettono in gioco, ma spiano la corrente per vedere se qualche potenziale preda si trova a passare nei paraggi; dopo di che, l’aggrediscono, spesso senza nemmeno il coraggio di firmarsi con il nome e il cognome, ma nascondendosi dietro pseudonimi, per farsi belli della propria viltà e della propria malafede.
Si tratta di autentici parassiti, i quali non solo non producono nulla di utile, ma che mirano costantemente a sporcare e intorbidare l’acqua a cui altri potrebbero dissetarsi, per il solo piacere di farlo; se pure le loro motivazioni non sono ancora più miserevoli, e cioè di carattere venale: perché Internet, in questi tempi di Pensiero Unico trionfante, offre ancora degli spiragli di controcultura e di controinformazione e ciò dà parecchio fastidio a quanti sono disposti a pagare, pur di cancellare questi ultimi spazi di libera critica.
Peraltro, l’attitudine predatoria di molti individui nei confronti dei propri simili emerge in moltissimi campi della vita sociale, a cominciare da quella affettiva. Per comprendere il valore dell’amicizia, ad esempio, o quello dell’affetto che può legare due persone con il vincolo sacro della reciproca fiducia ed apertura, bisogna avere vinto in se stessi il fascino satanico che esercita la possibilità di aggredire e di ferire moralmente un proprio simile, il quale si sia mostrato fiduciosamente nella sua vera essenza, spogliandosi di maschere e travestimenti.
Ora, il fatto di comunicare nella maniera più chiara e diretta possibile con i propri simili, non è un lusso che ci si possa concedere quando si è in vena; è una pratica che dovrebbe esplicitarsi quotidianamente, ispirandosi ad una filosofia di trasparenza verso se stessi, prima ancora che verso gli altri. Chi non ha imparato a leggere nella propria anima, non potrà mai comunicare in modo efficace e profondo con i propri simili; e, se viene a mancare questo fattore, l’intera società rischia di scivolare e impantanarsi nelle paludi miasmatiche dell’inautenticità, generatrici di incomprensioni, sofferenze e amare delusioni.
In altri termini, una vita autentica non può considerare la comunicazione leale e trasparente come un obiettivo desiderabile, ma secondario, bensì come un fondamento essenziale del proprio equilibrio e della propria vivibilità; invivibile, infatti, è un contesto sociale ove dominano la menzogna, il nascondimento e l’ambiguità voluta.
Al tempo stesso, il fatto che chi pratica tale trasparenza nella comunicazione sia costantemente esposto agli agguati dei predatori-parassiti, segna una distanza decisiva tra il mondo umano e il mondo animale: perché in quest’ultimo si tratta di una dinamica necessaria alla sopravivenza delle specie (non degli individui); in quello, viceversa, si tratta di un elemento che nobilita l’esistenza e la rende più degna di essere vissuta.
Inoltre, se nel mondo animale colui che rivela incautamente la propria presenza finisce nella bocca del predatore e muore, nel mondo umano chi pratica la chiarezza e l’assoluta onestà della comunicazione, non nascondendosi dietro strategie di camuffamento, traccia la strada agli altri e dà un esempio prezioso da imitare; e, anche se si espone alla cattiveria di individui spregevoli, esce moralmente vincitore dalla prova, per quanto possa risultare sconfitto dal punto di vista meramente pratico ed esteriore.
Le virtù della lealtà, della linearità, della coerenza, della assoluta sincerità nella comunicazione, non sono virtù eroiche, anche se oggi tendono a diventare talmente rare, che se ne perdono quasi le tracce; o, se si possono considerare eroiche, appartengono a quel genere di eroismo umile e quotidiano che, per secoli e millenni, ha aiutato gli esseri umani a convivere senza distruggersi, nel rispetto di sé, dell’altro e della terra che tutti ci ospita.
Era l’eroismo dei nostri padri e dei nostri nonni, animati da un forte senso del dovere e da una sperimentata attitudine a discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Forse non avevano studiato più in là della terza elementare; però queste cose le sapevano, eccome.