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Le fabbriche di Gaza restano paralizzate nonostante la promessa di Israele di ridurre il blocco

di Donald Macintyre - 06/07/2010


 



 

La Tropika fredda che Salama al-Kishawi serve orgogliosamente ai suoi ospiti  nel suo ufficio sa davvero di arancia, cosa inusuale per un succo confezionato – ed è particolarmente rinfrescante in una giornata di mezza estate a Gaza, quando ci sono 35 gradi.  Ma il prodotto di punta della Gaza Juice Factory ha un’importanza che va ben oltre il suo sapore.

Nella fabbrica lavorano 65 operai ed è una delle poche industrie operative nonostante l’assedio di Gaza imposto da Israele dopo che Hamas ha preso il pieno controllo del territorio ormai tre anni fa, questo mese.

Per quanto tempo continuerà ad essere attiva potrebbe dipendere in gran parte da come funzionerà, in pratica, l’accordo che allenterà il blocco israeliano annunciato domenica scorsa. Il futuro della Tropika è diventato la prova del nove per l’economia reale di Gaza.

In termini diplomatici, l’accordo negoziato tra Israele e l’inviato internazionale Tony Blair è stato un punto di svolta. Israele si sta ancora rifiutando – a parte eccezioni supervisionate a livello internazionale – di consentire l’accesso di qualsiasi cosa, compreso il cemento che è assolutamente necessario per la ricostruzione delle case distrutte dai bombardamenti, in quanto ritiene che Hamas possa utilizzarlo per scopi militari.

Ma l’annuncio ha significato un vero cambiamento della politica: almeno in teoria tutti gli altri beni potranno entrare per la prima volta dopo tre anni.

Ma circa una settimana dopo l’annuncio, le persone a Gaza, sebbene siano contente della prospettiva di un aumento dei beni di consumo da Israele, stanno chiedendo che il fulcro della promessa dell’accordo, cioè consentire l’espansione dell’ “attività economica”, venga anch’essa onorata.

"Se è permesso l’ingresso dei beni di consumo ma, allo stesso tempo, non possono entrare materiali e mezzi di produzione, la cosa avrà effetti negativi”, afferma Amr Hamad, direttore della Federazione palestinese delle industrie di Gaza.

La Gaza Juice Factory, situata alla periferia est di Shajaia, in bella vista davanti al confine israeliano, è un’immagine perfetta del problema. I suoi giardini ben curati e l’andirivieni dei carrelli elevatori che caricano sui camion le bottiglie appena imballate per consegnarle ai supermarket locali testimoniano che questa – cosa insolita per Gaza - è una preoccupazione attuale.

I suoi sono segni lasciati dai carri armati israeliani che sfondarono la recinzione perimetrale di metallo verde durante l’offensiva militare del 2008/2009 e i resti di quello che il capo della società Ayed Abu Ramadan pensa sia stato un missile Apache, è stato appeso al muro di ingresso come memento di tutto quello che la fabbrica ha passato.

La sua storia si intreccia in modo complicato con quella della politica turbolenta e macchiata di sangue del territorio nel corso degli ultimi 15 anni e oltre.

Una targa imponente ricorda ai visitatori che la fabbrica è stata aperta da Yasser Arafat due giorni prima del suo rientro trionfale a Gaza dall’esilio di Tunisi, nel luglio 1994. La fabbrica fu un successo, esportando in Egitto, Stati Uniti, Europa e nello stesso Israele per oltre un decennio.

Tuttavia, nel 2006 le esportazioni arrivarono a un punto morto. Hamas aveva vinto le elezioni, la maggior parte dei valichi era stata chiusa. Da allora i famosi agrumeti di Gaza sono stati quasi tutti distrutti dall’esercito israeliano durante le sue frequenti incursioni a partire dallo scoppio della seconda Intifada nel 2000.

"Qui a Gaza abbiamo sempre avuto le migliori arance del mondo”, afferma Kishawi. “Ora la maggior parte non esiste più”.

Oggi le bottiglie di Tropika da sei shekel [circa 1 euro, ndt.] esposte sugli scaffali dei negozi di Gaza sono un testamento della notevole adattabilità dell’azienda. I suoi dirigenti hanno diversificato la produzione con Tropika, succhi di fragola e pomodoro, insieme a ketchup, marmellate e una vasta scelta di frutta candita.

Da che esportava il 100 per cento dei prodotti, la società ora soddisfa il 100 per cento del mercato nazionale. E nonostante preferisse di gran lunga acquistare le materie prime a un prezzo molto più esiguo da Israele, è stata obbligata dall’embargo a introdurre bottiglie, imballaggi, additivi coloranti e aromatizzanti dall’Egitto attraverso i tunnel, pagando quelli che Ramadan chiama con delicatezza i“ pedaggi sotterranei”, chiesti da coloro i quali gestiscono questi traffici nei tunnel per sostenere i loro costi – comprese le imposte al governo de facto di Hamas.

Il primo problema era rappresentato dalla scarsità di frutta. “Lo scorso anno avevamo bisogno di 9mila tonnellate di agrumi per far fronte alla domanda”, afferma Kishawi, “ma sono riuscito a procurarne solo mille tonnellate”.

Le arance provenienti da Israele costavano la metà rispetto ai prezzi di Gaza ma le autorità israeliane consentivano solo l’ingresso delle arance da mangiare.

A sottolineare l’economia di Gaza in stile “Alice nel paese delle meraviglie”, era anche possibile importare dall’Egitto, attraverso i tunnel, lo stesso identico concentrato che si esportava in Egitto. “Nel giugno 2007 vendevo il concentrato a 1.350 dollari a tonnellata ma ora far entrare la stessa quantità mi costa 4mila dollari”, spiega Kishawi. “Dov’è la concorrenza in questo?”

Come se non fosse abbastanza, diciotto mesi dopo la fabbrica subì danni devastanti a causa degli assalti israeliani via terra e aria durante l’offensiva del 2008/20099, che colpì centinaia di siti industriali. Il danno ha spinto Amr Hamad della Federazione delle industrie a sottolineare che: “Quello che [Israele] non è riuscito a raggiungere con il blocco, lo ha ottenuto con i suoi bulldozer”.

Il tubo principale dell’evaporatore centrale della fabbrica di succhi, che aveva subito dei danni a causa di un missile, fu riparato rapidamente, ma l’enorme freezer, della capacità di 2mila tonnellate, insieme al suo contenuto, andò distrutto. Poi, verso la fine dello scorso anno, l’azienda si trovò davanti a un altro ostacolo. Pensava di aver concluso un affare con i fornitori israeliani per il rifornimento di cinquecento tonnellate di pompelmi, assolutamente necessari in quel momento.

"Ma poi, quando capirono che la merce stava finendo in una fabbrica di succhi anziché nei supermercati, bloccarono l’ingresso dei pompelmi”, afferma Kishawi.

Due settimane fa, sulla scia delle proteste internazionali che sono seguite alla crisi delle flottiglie pro-palestinesi, si è arrivati al primo atto dell’attenuazione dell’embargo e, in modo perverso, con essa, a una nuova minaccia per la Tropika. La società era felice di sapere che il blocco era stato allentato – anticipando che finalmente avrebbe potuto importare da Israele materie prime a un costo molto più basso.

Invece, la società scoprì che si trovava a dover affrontare un nuovo concorrente. Per la prima volta in tre anni, Israele aveva permesso l’ingresso di un succo di frutta confezionato -  al prezzo concorrenziale di cinque shekel a bottiglia. Infine, ironia della sorte, la società (sebbene i suoi soci non siano sicuri di quanto questo possa durare) - che effettivamente è proprietà dell’Autorità Palestinese a Ramallah e ha un consiglio di amministrazione nominato dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas - ora dipende da un’ancora di salvezza da parte del governo de facto di Hamas.

L’azienda ha già ridotto preventivamente il prezzo della Tropika, da sei a cinque shekel a bottiglia e non dovrebbe avere problemi a fare concorrenza al prodotto israeliano se potesse importare a un prezzo molto più contenuto le materie prime disponibili in Israele. “Se abbiamo un mercato veramente aperto, possiamo competere con chiunque, Israele compreso”.

Tuttavia, sottolineando l’attuale squilibrio, il principale acquirente dell’azienda, Haitham Kanna, afferma: “Israele può produrre una bottiglia di succo per circa 25 centesimi – che è lo stesso costo che noi dobbiamo sostenere per una bottiglia”.

Per dirla con le parole del suo capo, Ramadan: “É come legare le mani a qualcuno e dirgli di salire sul ring. Dopo tutto quello che abbiamo passato – blocco, guerra e carenze di vario genere -  sarebbe pazzesco se adesso perdessimo l’azienda”.

Tuttavia, per adesso, la Gaza Juice Factory è ancora in funzione. Più comune è il destino della Aziz Jeans Factory, all’estrema periferia di Jabalya, dove adesso regna il silenzio, quattro anni dopo essere stata attiva con il chiasso di cento impiegati che cucivano jeans alla moda per i giovani, per il riconoscente partner commerciale israeliano della famiglia Aziz.

Non riuscendo né a importare il tessuto né – cosa anche più importante – a esportare jeans finiti, la fabbrica, come molte altre centinaia, si fermò inaspettatamente quasi subito dopo l’inizio del blocco.

La sua forza lavoro, altamente qualificata, si disperse – “ molta”, secondo Aziz Aziz, sul libro paga di Hamas. L’ultima volta che l’Independet era stato qui, Aziz aveva creato un certo reddito assemblando spine elettriche – ma la concorrenza delle spine già fatte, contrabbandate attraverso i tunnel, l’aveva reso un compito senza speranza.

Aziz dice che se il grande valico di Karmi, un terminale di carico – attraverso il quale lui e suo fratello erano soliti importare denim ed esportare indumenti finiti – fosse riaperto, lui rimetterebbe in funzione le sue macchine da cucire e sarebbe pronto a riavviare la fabbrica in una settimana.

Aziz non è amico di Hamas e vorrebbe un cambio di governo a Gaza. Ma aggiunge che mantenendo il blocco – compreso quello sulle importazioni – nel corso degli ultimi tre anni, “Israele deve sapere che questo non equivale ad assediare Hamas; è un assedio al popolo di Gaza”.

Questa idea ora ha il consenso del quartetto internazionale. Israele sta ancora resistendo, per motivi di sicurezza, alla riapertura di Karni contando, invece, su un’espansione della capacità, molto più limitata, del valico di Kerem Shalom.

La maggior parte degli esperti è convinta che Karni dovrà essere riaperto qualora si riuscisse a  ristabilire la capacità industriale produttiva che c’era in precedenza a Gaza, o almeno una parvenza di essa.

Nonostante ciò, la promessa espansione di Kerem Shalom dovrebbe essere un modesto avvio se ciò dovesse accadere – sempre a condizione che Israele sia anche pronto a consentire una ripresa delle esportazioni.

Lo stesso Israele sta affrontando pressioni contrastanti; ieri è stato il quarto anniversario dell’incarcerazione del sergente Gilad Shalit, rapito, al quale vengono negate anche le visite della Croce Rossa – da un lato – e la prospettiva di ulteriori flottiglie pro-palestinesi, dall’altro.

Ma senza una scossa per l’economia di Gaza, in ginocchio, Israele rischia di dare l’idea di usare Gaza come mercato prigioniero per i suoi beni di consumo non facendo nulla, o quasi, per ridare lavoro alle persone.

Sari Bashi, direttrice di Gisha, agenzia israeliana per i diritti umani, afferma che questa settimana è stata leggermente incoraggiata dall’esplicito accenno all’“attività economica”, fatto nella dichiarazione settimanale del governo, ma avverte che potrebbe non accadere “ a meno che Karni non fosse riaperto e le esportazione fossero permesse”.

E aggiunge: “Israele deve abbandonare la politica della guerra economica e accettare il suo fallimento”.

Come il blocco sta cambiando la vita a Gaza

Secondo i coordinatori palestinesi il numero di camion che ogni giorno da Israele portano merci nella Striscia di Gaza non è ancora aumentato, cosa che invece è avvenuta per la gamma dei beni trasportati – compresi libri e giocattoli per bambini, che erano da tempo vietati.

Giovedì, nel supermarket di Hazem Hasuma nel quartiere di Rimal, situato nella zona ovest di Gaza City, i rasoi egiziani, contrabbandati attraverso i tunnel, sono stati rimpiazzati in toto dai rasoi Gillette Fusion, importati legalmente da Israele. Ma la gamma completa di merci contrabbandate ha reso cinici alcuni abitanti di Gaza verso le nuove importazioni. “Non è cambiato nulla in realtà”, afferma Hasuna, 38 anni. “Alle persone non sono mancati il ketchup e la maionese [due dei prodotti nuovamente permessi]. L’unico vero cambiamento avverrà se inizieranno a far entrare il cemento per ricostruire e ciò di cui le fabbriche necessitano per dare lavoro alle persone”.

A una dei suoi clienti, Rasha Farhat, 33 anni, i suoi parenti sauditi e che sono venuti a trovarla dopo l’apertura del valico di Rafah questo mese, hanno chiesto di cosa avesse bisogno. “Gli ho risposto ‘Di niente’”. Aggiunge che, grazie ai tunnel, “non abbiamo mai avuto tanti prodotti quanti ne abbiamo adesso”.

Fino a un certo punto. Sebbene siano ancora attivi, i tunnel hanno visto un calo notevole dell’attività nel corso delle ultime due settimane, dato che i grossisti sono in attesa di stimare la nuova lista nera dei beni che mettono a repentaglio la sicurezza, che Israele ha promesso di sostituire nel corso della prossima settimana nella sua lista, molto restrittiva, di “merci consentite”, come parte del nuovo regime “liberalistico” delle importazioni.

Riconoscendo che gli abitanti di Gaza si sono abituati ai “ prodotti dei tunnel” nel corso degli ultimi tre anni, un eminente economista di Gaza, che ha preferito mantenere l’anonimato, afferma: “Naturalmente Israele è capace di dire una cosa e poi di agire diversamente. Dovremo aspettare per vedere quali siano le conseguenze della nuova politica”. Ma confessando che aveva appena fatto il pieno di diesel israeliano, preferendolo a quello egiziano, aggiunge: “I palestinesi hanno ricevuto merci israeliane per quaranta anni. E considerano i prodotti provenienti da Israele di qualità nettamente superiore rispetto agli equivalenti egiziani”.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)
 
The Independent