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Celebriamo il centocinquantenario: ma a 360 gradi

di Franco Cardini - 06/07/2010


Strano centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, che nasce tra contestazioni d’ogni tipo. Mettiamoci anche il nostro bravo cattozampino. Ma non nel senso che v’aspettate voi, le solite querimonie sui beni sottratti alla chiesa, sulle chiese profanate dai mazziniani, sulle monache violentate o sulle galline rubate dai garibaldini. Oddio, magari prima o poi su questa rubrica ci scapperà anche qualcosa del genere: e magari anche qualcosina di piu sostanziale e sostanzioso, ad esempio sulle eroiche gesta di qualche “moderato toscano” e sul suo contributo al tradimento dei patti tra il re di Sardegna e l’imperatore dei Francesi, che condusse alla soluzione centralista anziché a una – possibile, realistica, equa e magari a posteriori perfino auspicabile, visti i risultati… - federale dell’unità d’Italia.

Tuttavia, paulo maiora canamus. L’Italia è in Europa e nel Mediterraneo. Ma ormai, in pieno XXI secolo, ignorare il resto del mondo è un lusso che non possiamo più permetterci. Una solida, lunga esperienza ci ha insegnato che, piaccia o no, noialtri europei e “occidentali” non siamo più al centro del mondo e della storia. Abbiamo a lungo tentato d’ignorare questa verità: ma essa non ha ignorato noi. Abbiamo per lungo tempo pensato che la parola “globalizzazione” fosse la solita balla inventata dai sociologi, e che comunque non ci riguardasse: ed essa ci è caduta addosso come un macigno.

Dico queste cose perché vorrei dedicarle a un mio concittadino pratese (fiorentino di nascita, sono pratese di residenza) il quale, in margine alla questione dei cinesi che affollano le rive del Bisenzio, mi domandava giorni fa: “Ma insomma, che cosa vogliono? Ci andiamo noi, a romper le scatole a casa loro?”. Se fossi stato un politico o un imprenditore, avrei potuto rispondergli che ci andiamo eccome, con i nostri capitali, le nostre imprese, le nostre proposte di collaborazione che sono – almeno nelle intenzioni – vantaggiose per entrambi. Certo, di solito gli italiani non sono in Cina causa dei disordini e dei problemi che oggi i cinesi procurano qui da noi.

Ma, siccome mi occupo di storia, quindi del passato (e di come esso pesa e incide sul presente), vorrei ricordare all’amico pratese e a voi tutti che non è sempre stato cosi. A “romper le scatole” (e non solo quelle) in Cina, noialtri italiani ci siamo andati eccome: magari trainati da qualche partner occidentale piu importante di noi. Obietterete che queste cose a scuola (salvo rare e fortunate eccezioni) non ce le ha mai insegnate nessuno. E’ vero. Difatti, sarebbe ora di cambiare i modi d’insegnare la storia a scuola: ma non come desidera la buona signora Gelmini, ch’è rimasta a De Amicis e a De Sanctis e pretenderebbe ancora che ai nostri ragazzi raccontassimo che l’Italia l’ha fatta la bella Gigogin e col zumparapappappera.

Ne sapete nulla, della “rivolta dei Boxers”? Dovreste, perché anni fa gli americani ne fecero anche un polpettone in technicolor che si giovava del sia pur gia maturo ma ancor smagliante fascino di Ava Gardner, e dove noialtri occidentali, tutti insieme appassionatamente dagli yankees statunitensi ai “crucchi” prussiani – passando per i nostri bersaglieri, tutti fanfara e piume al vento -, davamo concordi una bella lezione a quei barbari aggressori dei cinesi. Con un particolare: che l’episodio si svolgeva a Pechino, nella “Città proibita” imperiale: e che quei barbari aggressori in fondo stavano a casa loro, e che noialtri aggrediti ci difendevamo, sì, ma asserragliati in casa altrui.

Ne parliamo proprio adesso, in quanto ricorre proprio quest’anno il centodecimo anniversario della “rivolta dei Boxers”, culminata in un episodio – quello narrato appunto nel film – del giugno 1900: ma le radici di tutta la faccenda datano da molto prima, da almeno gli Anni Quaranta dell’Ottocento, ed hanno il loro momento simbolicamente più significativo in qualcosa accaduto esattamente 150 fa, e indirettamente non estraneo all’unità d’Italia. Il trattato di Pechino del 1860, pietra miliare nella storia non solo della Cina, ma anche delle relazioni internazionali e nel processo di globalizzazione, è l’evento di cui vorrei invitar a celebrare il Centocinquantesimo.

Per adeguatamente parlarne, il mio amico pratese dovrebbe cominciare col chiedere a uno dei suoi vicini di casa cinesi se egli sappia che cosa fu la “guerra dell’oppio”: incassato il suo perplesso diniego (i cinesi, per nostra fortuna, di storia ne sanno forse ancora meno di noi…), egli potrebbe chieder al riguardo lumi a un normale strumento di elementare consultazione, quale ad esempio l’economico Atlante storico Garzanti – la “Garzantina di storia”, come si dice a scuola -, dove a p. 385 leggerebbe che “fino alla metà del XIX secolo il commercio estero, controllato dallo Stato (cioè dal governo imperiale cinese della dinastia Manciù, 1644-1911), passa attraverso i mercanti di Hong Kong. La Guerra dell’Oppio, scoppiata nel tentativo d’ impedire l’illegale commercio dell’oppio praticato dalla Gran Bretagna, dimostra la superiorità delle armi europee”. Ma non finì lì. E soprattutto, messa come la mette la “Garzantina”, è un po’ troppo comoda. Vediamo d’intenderci un po’ meglio.

Come tutti dovrebbero sapere, fin dai tempi di Marco Polo gli europei avevano desiderato di entrare in rapporti commerciali, politici e missionari con l’immenso impero cinese, del quale pochissimo si sapeva: tale desiderio fu addirittura una delle cause, indirette ma non troppo, della scoperta del “Nuovo Mondo” al di là dell’Atlantico. Ma solo ai primi del Cinquecento i portoghesi, cui si deve la circumnavigazione dell’Africa e quindi l’apertura delle rotte navali dell’ Oceano Pacifico, giunsero nel porto cinese di Canton stabilendovi la prima testa di ponte commerciale. L’impero, allora dominato dalla dinastia Ming che da circa un secolo e mezzo aveva stabilito nel paese un rigoroso regime di difesa dalle influenze straniere, reagì imponendo ai nuovi arrivati da un paese ignoto, dalla pelle sgradevolmente pallida e dal troppo lungo naso, di limitarsi alla base di Canton, cui nel 1557 venne aggiunta quella di Macao. Dietro ai mercanti, frattanto, erano arrivati i missionari: e ancor oggi i cinesi considerano il gesuita maceratese padre Matteo Ricci (1552-1610), di cui quest’anno si celebra solennemente il quarto centenario della scomparsa, uno dei loro “padri della patria”. Astronomo, matematico e geografo, padre Matteo inaugurò nel 1581 un’illuminata missione cattolica in Cina, all’interno della quale si elaborò una complessa riforma liturgica destinata a promuovere la conversione dei cinesi nel rispetto e nella valorizzazione dei riti e delle tradizioni locali, soprattutto confuciane e taoiste.

La Compagnia di Gesù seppe conquistarsi fiducia presso il governo e la popolazione cinesi; non altrettanto accadde all’interno della Chiesa cattolica, dove l’esperienza “acculturatrice” gesuitica, che era stata tentata anche in India con i “riti malabarici”, fu accusata di sincretismo, incompresa e ostacolata. E, in Cina, non altrettanto accadde nei confronti dei mercanti occidentali, che ben presto si resero responsabili di molteplici atti di violenza e di arroganza mentre l’impero passava attraverso un periodo di tumulti culminato nel 1644 con la cancellazione della dinastia Ming e di quella Manciù, la quale mantenne tuttavia un atteggiamento favorevole ai gesuiti in riconoscimento delle loro capacità tecniche e scientifiche. Ma tra 1736 e 1796 una rigorosa reazione confuciana induceva il sovrano Ch’ien-lung a vietare le missioni cristiane in tutto il paese, Nel frattempo, però, scoppiava in Europa la passione per tutto quel ch’era chinoiserie, dalle porcellane al tè alla filosofia confuciana e taoista: i philosophes francesi – ma anche personaggi come Federico II di Prussia - si posero alla testa di questo movimento orientalistico-esotistico, che faceva della Cina il modello della saggezza, della moderazione e del buon gusto proposto all’Occidente.

La Cina era quindi un mondo chiuso, impenetrabile, che tuttavia spargeva ormai il suo fascino in tutto il mondo. E non solo il fascino: anche le merci. Il tè, le sete, le porcellane cinesi invadevano l’Occidente. Nel 1600 era stata fondata la Compagnia britannica delle Indie, nel 1602 quella olandese, nel 1664 – con un certo ritardo – quella francese. Olandesi, portoghesi, inglesi e francesi si misuravano e si facevano economicamente – e ogni tanto anche militarmente – a brandelli per dominare lo sfruttamento delle ricchezze dell’Asia sudorientale. Ma, a differenza dell’India moghul e dei principati del sudest asiatico, la Cina resisteva: stava arroccata nel suo mondo imperiale, produceva ed esportava ma non importava. Nei suoi confronti, la bilancia commerciale dell’Occidente era tragicamente passiva.

Una situazione che, a metà Ottocento, venne giudicata intollerabile e quasi “scandalosa” negli austeri ambienti economici, commerciali e finanziari della City di londra, dalla quale ormai si dominava l’India dalla quale passava il commercio asiatico. V’era un’unica merce appetibile dai cinesi e che avrebbe potuto essere sportata vantaggiosamente nel Celeste Impero: l’oppio, il consumo del quale era oggetto in Cina di un vero e proprio desiderio diffuso ma rigidamente proibito dalle leggi imperiali dal momento che ben se ne conoscevano gli effetti distruttivi a livello così individuale come sociale.

Attraverso l’emporio di Hong Kong, i commercianti britannici cominciarono a introdurre clandestinamente massicce quantità di oppio sui mercati interni cinesi. Dinanzi alla reazione del governo imperiale, Sua Maestà Britannica – sempre così vigile sugli interessi e i “diritti” dei suoi sudditi – dichiarò guerra alla Cina per proteggere la “libertà” dei suoi commercianti. Ecco la “Guerra dell’Oppio”, tra 1840 e 1842, che secondo la Garzanti “dimostrò la superiorità delle armi europee”. Dimostrò solo quello?

Con la pace di Nanchino del 1842, la città di Hong Kong venne ceduta agli inglesi, insieme con alcune concessioni commerciali in altri porti: nei protocolli diplomatica di quell’evento, l’oppio non è mai menzionato. Dal 1844, si aprì una fase di “uniqui trattati” a cascata, riguardanti altre concessioni extraterritoriali su cui si buttarono altre potenze europee: gli interessi economici cinesi furono calpestati, i produttori tessili locali ridotti alla disperazione, il consumo dell’oppio dilagava distruggendo leteralmente il tessuto familiare specie nelle città, la gente era alla disperazione. Ma era proprio quel che gli occcidentali volevano. Tra 1856 e 1858, con la scusa dell’uccisione di un missionario francese nel Guanxi e della cattura di una giunca (una “lorcha”) battente bandiera britannica, la guerra riprese (c’erano, perbacco, due “buone cause”…).

Le truppe inglesi e francesi alleate sbaragliarono l’esercito imperiale imponendo un insostenibile trattato di pace, detto del Tientsin. L’inevitabile violazione, da parte cinese, di alcune delle sue clausole-capestro che praticamente distruggevano l’autonomia economica e commerciale della Cina a vantaggio delle due potenze liberali condusse all’occupazione di Pechino, con l’episodio centrale dell’assalto e della rapina delle immense, straordinarie ricchezze racchiuse in quell’insieme di padiglioni di residenza imperiale conosciuto come Yuanming yuan, “il Giardino della Perfetta Chiarità”, cioè il “Palazzo d’Estate” dei sovrani. Buona parte di quegli straordinari, preziosissimi oggetti finirono al castello di Fontainebleau, inviata in “omaggio” all’imperatore Napoleone III e all’imperatrice Eugenia dal generale Cousin-Montauban che comandava il corpo di spedizione francese. Chi vuol saperne di più, può trovar ciò che vuole nel bel libro La soie et le canon (Paris, Gallimard, 2010).

In Italia, intanto, il conte di Cavour aveva inghiottito o finto d’inghiottire – dopo le sua dimissioni all’indomani dell’armistizio di Villafranca, nel luglio del ’59 – il fallimento del progetto franco piemontese su cui ci si era accordati nel ’58 a Plombères, e che prevedeva per la penisola italica un assetto organizzato in tre regni sotto egemonia francese: era tornato al potere, aveva incassato l’assenso britannico a favore di una soluzione unitaria del problema italiano e si era deciso ad appoggiare al rivolta siciliana avviata a Palermo il 4 aprile del ’60. Il 17 marzo del ’61, a Torino, il parlamento unanime avrebbe votato quella che, tecnicamente, era l’annessione al regno di Piemonte di tutti gli stati della penisola e la sua trasformazione in regno d’Italia. Si era quindi molto distratti, da noi, per pensare a quel che i “protettori del nostro Risorgimento”, i francesi e gli inglesi, stavano combinando nella lontana Cina.

Ma le coscienze vigili non mancavano nemmeno allora. Chi voleva sapere e capire, poteva farlo: e giudicava. A sue spese, magari. Dall’Inghilterra l’esule Victor Hugo, là rifugiato per sfuggire alla dittatura di “Napoleone il Piccolo”, così si esprimeva scrivendo da Hauteville House il 25 novembre del 1861 al capitano Butler: “Voi chiedete, signore, il mio parere sulla spedizione in Cina. La ritenete onorevole e bella, e siete così benevolo da attribuire qualche valore al mio parere…Poiché volete conoscerlo, ecco qua…C’era una volta, in qualche angolo del mondo, una meraviglia del mondo: essa si chiamava Palazzo d’Estate…Tale meraviglia è scomparsa. Un giorno, due banditi sono entrati nel Palazzo d’Estate. L’uno ha depredato, l’altro ha incendiato. La devastazione del Palazzo d’Estate è stata perpetrata insieme dai due vincitori…Uno di loro si è riempito le tasche, l’altro i forzieri; ciò fatto, sono tornati in Europa sottobraccio, ridendo. Ecco la storia dei due banditi. E noialtri, gli europei, siamo quelli civili; e, per noi, i cinesi sono dei barbari. Ecco quel che la civiltà ha commesso nei confronti della barbarie. Davanti alla storia, uno di quei banditi si chiamerà Francia, l’altro Inghilterra…Io spero che verrà un giorno in cui la Francia, liberata e ripulita, restituirà il bottino alla Cina che ha spogliato. In attesa di ciò, constato che ci sono stati un furto e due ladri”.

Il voto di Victor Hugo non e stato ancora esaudito, e probabilmente non lo sarà mai. Frattanto, altri Palazzi d’Estate sono stati assaliti e svuotati in tutto il mondo, in cambio dell’esportazione, magari, della “libertà o della “democrazia”.

Dopo il trattato di Pechino del 1860, si crearono in Cina le sedi di tutte le ambasciate europee e ripresero le ricche concessioni commerciali nonché i permessi alla fondazione di missioni cristiane le quali furono da allora spesso, senza loro colpa, vittime inermi e innocenti della rabbia delle popolazioni che i governi e gli operatori commerciali e finanziari occidentali stavano sfruttando e spogliando. Nel 1894-95 era nata nelle province nordorientali dell’impero la società segreta detta “Pugno del Diritto”: i Boxers, appunto, che nel giugno del 1900 – godendo anche di qualche connivenza nella famiglia imperiale – assalirono le missioni cristiane occidentali e il quartiere delle legazioni straniere a Pechino. Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Francia, Germania, Italia, Russia, Austria-Ungheria e Giappone inviarono immediatamente le loro truppe a liberare i diplomatici e le loro famiglie asserragliati nel quartiere e imposero all’impero cinese nel 1901 dure sanzioni punitive, obbligandolo ad accettare la “politica della porta aperta”: cioè libero mercato d’importazione e libertà completa di penetrazione economica. Ciò distrusse del tutto l’equilibrio socioeconomico cinese determinando la fine dell’impero e la rivoluzione del 1911 durante al quale i “Giovani Cinesi” di Sun Yat-sen (modellati sul movimento dei Giovani Turchi) imposero la repubblica e la modernizzazione-occidentalizzazione della Cina. Con gli esiti che, dalle guerre civili successive al comunismo ad oggi, sono o dovrebbero esser noti e chiari a tutti.

Ecco la risposta che Le dovevo, amico pratese. Siamo mai andati noi, in Cina, a romper le scatole? Ci siamo andati eccome. Se non lo avessimo fatto, loro adesso non sarebbero qui.