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L’umanità cruda e poetica di "Canale Mussolini". Intervista ad Antonio Pennacchi

di Antonio Pennacchi - Fiorenza Licitra - 06/07/2010

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In “Canale Mussolini” lei tratteggia un’umanità cruda e poetica, autentica e spartana. Crede che quel tipo di uomini e di donne sia estinto?
E’ un’umanità vera, ma tutto il mondo è Roma, anche se non è quello dei salotti, di Montecitorio, o della televisione, ma quello in cui la gente lavora, sta insieme. La poetica c’era in tutti i miei compagni di fabbrica e c’è ancora quando ci ritroviamo. E’ nella gente che si dà da fare, chi invece non fa nulla, sa pensare solo al suo ombelico e lì non trovi nulla.
Quindi pur essendo mutato un contesto storico e le conseguenti condizioni di vita più difficili gli uomini sono tali e quali a ieri?
Le condizioni erano sicuramente più difficili, ma il difficile è relativo, non è assoluto. Si deve sempre pensare che il cammino dell’uomo va avanti e in meglio. Io continuo ad essere un vetero-marxista e credo quindi nelle umane sorti progressive. Non contano le condizioni materiali assolute in cui un uomo vive, ma la relatività di queste.
Il nostro modo di sentire il reale non cambia  con le condizioni storiche. Oggi si soffre e si gioisce, si lotta e si dispera, ci si innamora dei sogni e  si sogna con le stesse modalità emotive di tremila anni fa. Siamo sempre gli stessi, il nostro rapporto con la vita è lo stesso.
Il suo può essere considerato anche il romanzo “della dialettica degli eventi”?
Certo, lo è. La dialettica degli eventi è un motivo fondamentale. Era presente nel mio primo libro Mammut, poi in Fasciocomunista, infine e soprattutto in questo che è un libro che non si ripeterà più, per il quale ho atteso a lungo, prima di scriverlo.
Il passato che lei racconta non è astratto, ma talmente vissuto e cavalcato da farsi prospettiva sul futuro
Sì, è un romanzo storico, non è una mia invenzione. Basti pensare a Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, a Guerra e pace di Tolstoj, a Guimarães Rosa con Grande Sertão, e poi, certo, ci sono anche gli americani come Twain, London e lo Steinbeck non solo di Furore, ma quello de La corriera stravagante, de La valle dell’Eden e Al Dio sconosciuto. Me ne sono accorto alla fine, c’è anche Via col vento. La storia la scrivono i vincitori, ma  l’epos spetta ai vinti: è chi perde che mette la poesia. Basti prendere l’Iliade o l’Odissea, si sta sempre con Ettore, con il perdente – io stavo con Diomede –  però lei capisce che si sta dalla parte del torto.
Cosa vuole, quella per i vinti è una passione!
Allora vede che siete fasci! Il rito dell’epos è la nostalgia, quindi lei, o meglio la gente normale, quando vede Via col vento non pensa che quelli erano schiavisti, stanno semplicemente dalla parte di Rossella O’Hara. I miei sono eroi che perdono, il loro Achille muore.
Non è però la storia della mia famiglia, ma è attraverso la mia che  ho scritto quella delle tremila famiglie venute in Agro Pontino. Hanno perso perché erano tutti fascisti, tutti vinti che fecero la Resistenza agli americani. Di questa storia non si è più parlato per settant’anni e pensi che neanche i fascisti sapevano che Mussolini, oltre Littoria e l’Agro Pontino, aveva fatto bonifiche ovunque e che le città di fondazione erano 150; l’ho raccontato con il mio libro Fascio e martello. Viaggio nelle città del Duce. Queste storie venivano oscurate perché c’era il bollo del fascio; sia chiaro, non sono fascista, resto un marxista, anche se un po’ spaesato rispetto all’oggi. L’unica cosa che posso fare è studiare il passato per tentare di capire il presente, però non sarei in grado di formulare una ricetta per uscire dalla crisi italiana, in fondo però siamo fortunati a vivere nell’Occidente sviluppato.
E’ una fortuna? E quando allora scrive che non c’è una grande differenza tra portare imperi sulle canne dei fucili e portarci la democrazia, non è forse una critica al nostro Occidente?
No, non è una critica, è una constatazione di come funziona sia la razionalità umana che la storia. Io mi limito a raccontare gli eventi, non devo dare un giudizio, lo fa già troppa gente. D’altronde il bene e il male stanno in tutti, tutti siamo potenzialmente eroi e potenzialmente assassini, vigliacchi, vili. Davo giudizi quando ero un guerriero, quando ero schierato, adesso non è più tempo.
E lì c’era “la furia” tramandata dai suoi antenati?
Certo! Oggi però sono vecchio e saggio, e profondamente nonviolento. Al Creatore è venuto male questo cosmo: è dominato dal segno del male, dalla vita che si ciba d’altra vita. La nonviolenza è l’unico modo per salvare Dio, perché non è Dio che salva noi. Oggi tra l’essere ucciso e uccidere non avrei difficoltà a scegliere.
Anche subendo un’ingiustizia?
Sì. Non voglio il peso dell’omicidio nell’aldilà. La nostra vita, intesa come anima e come spirito, non finisce qui; è un fatto scientifico, lo dice Einstein che noi conosciamo solo quattro dimensioni, ma che ce ne sono tante altre. Io non credo più nel Dio cattolico,  credo invece nel Deus sive Natura di Spinoza. Sono profondamente convinto dell’assoluta uguaglianza di ogni essere umano, dell’assoluta identità psichica; agiamo diversamente perché diverse sono le condizioni storiche. Se alla fine della storia c’è salvezza, questa non potrà essere individuale, ma collettiva; si ritornerà nell’Uno. La Civitate Dei di Sant’Agostino potremmo costruirla noi uscendo dal ciclo della violenza, salvando Dio che si sveglierà salvato. Questo però comporta l’assoluta pietas per tutti, pure per i cattivi. Nella prossima vita voglio rinascere monaco.
Monaco guerriero?
Monaco e basta, monaco e tacere. Ho già dato, non ho reati di sangue per pura casualità, ai tempi ero convinto che fosse giusto fare la lotta armata. Quando lei sente parlare del passato come l’età dell’oro, diffidi sempre perché questa si accerta solo nel futuro. Questo libro era in cantiere da tanti anni, soffrivo di sensi di colpa per non scriverlo; l’ho fatto solo adesso perché ho raggiunto un livello di saggezza e di pace che mi consentono la pietas virgiliana, cioè la pietas per tutti, pure per Hitler.
Lei scrive che dopo l’8 settembre del ‘43 l’Italia è divenuta quella dell’ognuno per sé e Dio per tutti. E’ rimasta così?
E’ peggio, ma è Galli della Loggia che scrive La morte della patria. L’armistizio dell’8 settembre ha dato il via al fuggi fuggi di tutti, primi i responsabili. Questo ha prodotto la totale sfiducia negli italiani rispetto ai concetti di patria e di Stato; resta solo il concetto d’individuo. Sono convinto che gli interessi dell’individuo vadano subordinati a quelli della collettività ed è lo stesso principio di Gentile, che è molto più marxista di quanto si pensi. Fuori dallo Stato non c’è libertà vera, c’è arbitrio. Ha torto Kant nel dire che la realtà è un’emanazione dell’io, è il contrario: tu sei un prodotto del reale, mica si spunta come funghi! Quante generazioni ci sono volute per arrivare a te? La trascendenza è nelle cose.