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Il ruolo della NATO in Afghanistan è soltanto una finzione

di Sergio Romano - 06/07/2010

 

 

 

 Il generale Stanley McChrystal era comandante supremo delle truppe Usa e Nato. Perché Obama lo ha rimosso senza consultare l’Alleanza atlantica? Era già successo che la Casa Bianca annunciasse una strategia (peraltro discutibile) sull’Afghanistan sostituendosi alla Nato, ma ora si continua sulla strada sbagliata. Se l’Urss nel 1968 avesse silurato il comandante in capo delle truppe del Patto di Varsavia impegnate a soffocare nel sangue la «primavera di Praga», non ci sarebbe stato da meravigliarsi più di tanto. La cosa desta stupore, invece, se a farlo è la Casa Bianca del 2010. La seconda domanda riguarda anche il nostro Paese: nessun Paese della Nato è intervenuto in una questione che riguarda non gli Stati Uniti, ma l’Alleanza. Perché nessun governo ha espresso disapprovazione per non essere stato preventivamente consultato, con ciò accettando ancora una volta la realtà che dura da mezzo secolo, e cioè la penosa subordinazione dell’Europa rispetto alla superpotenza d’oltre oceano?

Laura Lodigiani, Sandro Delmastro Delle Vedove

Cari lettori, avete ragione. Non esiste in Afghanistan, nella realtà, una forza della Nato. Esiste una forza americana a cui sono aggregati, con compiti diversi, contingenti provenienti dai suoi membri. Può accadere ogni tanto che il comandante di un contingente adotti una linea diversa da quella del comando americano (è successo nel caso della Gran Bretagna), ma la strategia viene decisa a Washington e gli alleati possono tutt’al più, come a Varsavia negli scorsi giorni, fissare la data della loro partenza. Per molti aspetti l’Isaf ricorda la Grande Armée quando Napoleone, nel 1812, decise l’invasione della Russia. Era composta da uno straordinario campionario di corpi militari provenienti dagli alleati e dai satelliti dell’Impero (quelli del Regno d’Italia, organizzati in due divisioni e due brigate di cavalleria, erano 25 mila, quelli del Regno di Napoli 10 mila), ma il comando era fermamente nelle mani di Napoleone e dei suoi marescialli. Aggiungo che gli americani non accetterebbero di combattere in condizioni diverse e risponderebbero alle vostre obiezioni con due argomenti. Sosterrebbero anzitutto che l’esperienza della guerra del Kosovo (quando i bersagli dei bombardamenti aerei venivano decisi a Bruxelles nel corso delle riunioni quotidiane di un comitato dell’Alleanza), fu, a loro avviso, disastrosa. E ricorderebbero che il prezzo dell’intervento, in numeri di uomini, denaro e perdite umane, è pagato in massima parte dagli Stati Uniti. Queste considerazioni non giustificano il silenzio e l’accondiscendenza degli europei. I nostri governi sanno che le prospettive del conflitto sono, a dire poco, incerte e che l’Afghanistan potrebbe essere per l’America un nuovo Vietnam. Ma preferiscono tacere per almeno due ragioni. In primo luogo perché la presenza in Afghanistan è diventata l’equivalente di una «prova d’amore», il fattore che misura, per Washington, l’indice di lealtà dell’alleato. In secondo luogo, perché chi avanza obiezioni e dà consigli deve responsabilmente accettarne e pagarne le conseguenze. I governi europei preferiscono limitare per quanto possibile il numero delle perdite, aspettare che l’America cambi politica e tacere. È difficile in queste circostanze prenderli sul serio.