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Dove si trova il «Giardino nelle stelle» visto da una bambina in stato di morte clinica?

di Francesco Lamendola - 08/07/2010


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Può, una bambina di nemmeno tre anni, andare in paradiso e ritornare sulla Terra, conservando per sempre il vivido ricordo della straordinaria esperienza fatta?
Quella bambina si trovava in stato di morte clinica: per circa un quarto d’ora le sue funzioni vitali erano cessate e il suo corpicino giaceva abbandonato tra le braccia dei genitori, impegnati in disperati quanto inutili tentativi di rianimarla.
Dobbiamo aggiungere che il padre della piccola era un medico e, quindi, era perfettamente in grado di comprendere quando un paziente aveva cessato di vivere; anche se il suo coinvolgimento emotivo, in questo caso, era certamente molto più forte che quelli che affrontava da un punto di vista meramente professionale.
Quella bambina, dunque, disse poi alla madre di essere stata in Paradiso; o meglio, disse di essersi trovata in un «giardino fra le stelle», allietato dalle acque mormoranti di quattro ruscelli di diverso colore e dalle fronde verdeggianti dalle quali pendevano mele, rossi melograni e bei grappoli d’uva matura.
Non solo: in quel giardino ella aveva incontrato alcuni parenti defunti, che l’avevano accolta festosamente; e poi si era trovata al cospetto di Dio stesso, dal quale aveva ottenuto il permesso di ritornare fra i vivi, perché aveva sentito la voce di suo padre che la stava chiamando, con il cuore trafitto dall’angoscia. E  subito si era risvegliata.
Fin qui, si potrebbe pensare che la sua visione fosse stata suggestionata, o provocata, dai racconti dei genitori o di qualche altro adulto; ma l’ipotesi incontra una difficoltà estremamente seria, perché la famiglia della bambina non era praticante e nessuno le aveva parlato del Paradiso o di Dio, né l’aveva mai portata ad assistere ad una cerimonia religiosa.
Quanto a Dio, tutto quello che aveva saputo dire la bambina - possiamo chiamarla per nome: Durdana Khan, allora (1968) residente in Pakistan e poi emigrata a Londra - , era stato che il suo colore era azzurro. Suo padre, più tardi, fece l’ipotesi che l’azzurro avesse a che fare con il colore del cielo; ma a noi sembra che, semmai, ciò potrebbe essere in relazione con l’iconografia tradizionale di Krishna, il dio dalla pelle azzurra, che, nel subcontinente indiano, è forse la più frequente raffigurazione tra quelle a soggetto religioso. Ma la famiglia di Durdana non era religiosa, come abbiamo visto; e, semmai, l’islamismo e non l’induismo, avrebbe potuto esercitare una qualche suggestione sul suo mondo fantastico.
L’elemento più impressionante del racconto relativo al «giardino fra le stelle», comunque, è la presenza, tra le figure amichevoli che le erano venute incontro, della madre del nonno, che lei non aveva mai conosciuto e neppure visto in fotografia. Perché, qualche tempo dopo, trovandosi in casa di un prozio e vedendo la fotografia di una donna (l’unica esistente, insieme a un’altra che si trovava nello stesso luogo), la bambina l’aveva immediatamente riconosciuta come l’anziana signora che l’aveva presa sulle proprie ginocchia per coccolarla. Ed era la prima volta che Durdana si recava in quella casa, oltretutto situata in una città ben lontana da quella ove abitava lei con la sua famiglia.
Come aveva fatto, la bambina, a riconoscere di primo acchito la fotografia di una persona che non aveva mai visto e della quale non le era stata mai mostrata alcuna immagine, per il semplice fatto che non ne esistevano altre?
Tutto questo è già abbastanza strano; ma c’è ancora dell’altro.
Una volta stabilitasi in Europa, Durdana, ragazza di quattordici anni, incomincia a dipingere degli acquarelli in cui ritrae il fantastico giardino della sua visione, se di una visione si era trattato, e ne parla anche nel corso di un programma televisivo. Ebbene: una signora londinese di origine ebrea, che durante la seconda guerra mondiale si era trovata rinchiusa in un campo di concentramento e aveva vissuto anch’ella una esperienza di morte clinica, dopo essersi messa in contatto con lei, afferma di riconoscere perfettamente il giardino paradisiaco con i suoi quattro fiumi di diverso colore e con la sua ricca vegetazione di alberi da frutto.
Che non si tratti di fantasie o di semplice suggestione, lo dimostra il fatto che la signora ebrea non soltanto riconosce il punto esatto rappresentato in uno dei dipinti di Durdana, ma sa anche descrivere alcuni particolari che non vi compaiono, dei quali la giovane asiatica ha tuttavia conservato la memoria.
Perciò, due persone diverse per età, per cultura, per provenienza geografica, in due momenti ben distinti nel tempo - una nel 1968, l’altra circa venticinque anni prima - sembrano aver fatto la stessa identica esperienza, trovandosi nel medesimo luogo ultraterreno e riportandone un ricordo che, a distanza di tanto tempo, coincide ancora perfettamente in ogni particolare, come potrebbe accadere di un luogo fisico conosciuto nel corso di un viaggio.
Certo, gli inguaribili scettici potrebbero cominciare a parlare di “falsi ricordi”, di illusorie esperienze di “déjà vu” e via dicendo; ma resta un piccolo particolare da spiegare: che entrambe le esperienze non sono state fatte in condizioni normali, ma quando entrambi i soggetti si trovavano in uno stato di morte clinica.
Il fatto è riportato nel volume curato da Simon Adams, Alex Arthur e altri, «Fatti strani, storie incredibili» (titolo originale: «facts and Fallacies», Selezione dal Reader’s Digest 1988; traduzione italiana 1992, pp. 372-73):

«Da diversi mesi, la piccola Durdana Khan, di 2 anni e mezzo, era parzialmente paralizzata, affetta da cecità intermittente e sempre sofferente. Una mattina dell’autunno del 1968, mentre giaceva nel suo lettino nel giardino di casa, in una località ai piedi dell’Himalaya, la piccola parve rinunciare alla lotta per la vita.
La madre mandò immediatamente a chiamare il marito, che era medico. La bambina non dava più segni di vita. La donna riportò Durdana in casa e il padre fece un estremo tentativo per rianimarla, sussurrando: “Torna, piccola mia, torna”.
Come ultimo espediente, la madre versò qualche goccia di un farmaco stimolante della respirazione tra le labbra di Durdana, ma il liquido gocciolò lungo la guancia.
All’improvviso, tra la meraviglia dei genitori, la bambina riaprì gli occhi e disse che quella medicina era amara. Dopo 15 minuti di morte clinica, era tornata in vita.

UN VIAGGIO NELL’IGNOTO
Il giorno dopo, la signora Khan chiese alla figlia che cosa fosse accaduto durante quel quarto d’ora e a poco a poco apprese che Durdana si era trovata in un giardino tra le stelle, dove crescevano mele, uva e melograni. C’erano quattro ruscelli nel giardino, rispettivamente bianco, marrone, azzurro e verde. C’erano anche delle altre persone: “Il nonno, sua madre e un’altra signora che ti somigliava. Il nonno ha detto che era contento di vedermi, e sua madre mi ha preso sulle ginocchia. […] Poi ho sentito papà che mi chiamava: “Torna, piccola mia, torna”.
Il nonno aveva detto a Durdana che occorreva chiedere a Dio il permesso di far ritorno dal padre. Così si recarono da Dio, che le chiese se lo desiderava: “ - Devo tornare”, ho detto, - c’è papà che mi chiama -. - D’accordo - ha risposto Dio, - vai pure-. E io sono venuta giù, sempre più giù, dalle stelle.”.
Dio, disse Durdana, era “azzurro”. Ma, nonostante altre domande, la piccola non aggiunse nuovi particolari alla sua storia.
Poco tempo dopo la sua strana esperienza, Durdana fu sottoposta a intervento chirurgico a Karachi, nel Pakistan. Mentre era in convalescenza, assieme alla madre si recò in visita a uno zio di suo padre. Gironzolando per la stanza, Durdana all’improvviso indicò una fotografia su un tavolo.
“Ecco la mamma del nonno” disse. “L’ho conosciuta tra le stelle”. Durdana non aveva mai visto la bisnonna né una sua fotografia prima di allora. Restavano solo due foto di lei, ed entrambe si trovavano in casa del prozio a Karachi, che la bambina aveva conosciuto per la prima volta proprio in quell’occasione.
In seguito la famiglia di Durdana si trasferì a Londra e agli inizi degli anni Ottanta la ragazza apparve alla televisione inglese con alcuni disegni in cui aveva rappresentato il “giardino tra le stelle”.
Il giorno seguente, una paziente del dottor Khan, Rachel Goldsmith, gli telefonò a proposito di quel programma televisivo. Aveva avuto anche lei un’esperienza di morte in un campo di concentramento in Germania. Anche lei si erra ritrovata in un giardino con quattro ruscelli, nei pressi del punto illustrato in un disegno di Durdana. Quando ebbe modo di conoscere la ragazza per parlare della loro esperienza, la signora Goldsmith descrisse anche alcuni particolari che Durdana ricordava, ma non aveva incluso nel disegno.

UNA VISIONE DELL’INFINITO
Che cosa pensare della storia di Durdana? La ragazza stessa ammette che mele e melograni sono frutti menzionati nel Corano, come pure i quattro ruscelli del paradiso. Ma Durdana non era stata allevata nella fede islamica, né era mai entrata in una moschea.
Il dottor Khan suggerisce che forse Dio era apparso azzurro e senza una forma precisa  perché sulla terra ci avviciniamo all’infinità di Dio attraverso l’azzurro sconfinato del cielo. “Su Marte il cielo è rosso” aggiunse la ragazza, e forse, per un marziano, Dio è di quel colore.”
Il riconoscimento della foto della bisnonna, da parte di Durdana, e del giardino, da parte della signora Goldsmith, induce a pensare che qualcosa di più dell’immaginazione fosse in atto durante quel quarto d’ora in cui, sotto tutti i punti di vista, Durdana era morta.»

La storia di Durdana è interessante perché, a differenza di tanti altri racconti di esperienze di pre-morte, come quelli raccolti dal dottor Rayymond A. Moody, non è puramente soggettiva (cfr. il nostro articolo «Che cosa hai fatto nella tua vita che ti sembri sufficiente?», sul sito di Edicolaweb), ma presenta dei dati di fatto oggettivamente riscontrabili.
Infatti, se taluni aspetti della descrizione del «giardino fra le stelle» possono, effettivamente, ricordare elementi della tradizione ebraica, cristiana ed islamica, che la bambina potrebbe avere appreso in maniera casuale, restandone impressionata (si vedano, ad esempio, i quattro fiumi che scaturiscono dal Paradiso terrestre nel Libro della «Genesi»), altri aspetti, invece, non sono riconducibili a dei fatti puramente culturali; tali sono il riconoscimento della bisnonna e le concordanze fra il giardino da lei visto e quello che, cinque lustri prima, era apparso a Rachel Goldsmith, quando ella pure si trovava in stato di morte clinica. Il secondo, poi, è ancora più sconcertante del primo.
Infatti, se il riconoscimento della bisnonna di Durdana si può spiegare, forse - ma sforzando alquanto le cose - con un fenomeno di tipo telepatico (il padre della bambina potrebbe aver pensato intensamente alla propria nonna per invocarne l’aiuto, comunicandone l’immagine mentale alla figlioletta), la perfetta concordanza tra il ricordo della signora Goldsmith e quello di Durdana non trova spiegazioni, a meno che si voglia ricorrere, ancora una volta, alla telepatia.
Ma perché mai una signora di Londra avrebbe dovuto inviare un proprio lontano ricordo ad una bambina asiatica di due anni e mezzo, che viveva a migliaia di chilometri di distanza e di cui ignorava perfino l’esistenza?
Certo, si potrebbe rispondere che le esperienze psichiche non si disperdono appena siano state consumate, ma permangono sotto forma di larve astrali o, anche, sotto forma di memorie akhasiche; sicché, in teoria, chiunque potrebbe venire a contatto con i ricordi, con i pensieri o con le emozioni di un’altra persona, in maniera assolutamente casuale e imprevedibile. Ma sarebbe, chiaramente, un voler tirare le cose per i capelli, al solo scopo di negare il mistero e di fornire una spiegazione razionale ad ogni costo.
Non esiste peggior sordo di chi non vuol sentire, così come  non esiste peggior cieco di chi non vuol vedere.
Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere che casi come quello di Durdana sfuggono ad una spiegazione razionale soddisfacente e pongono molti più interrogativi di quante non siano le risposte ragionevoli che siamo in grado di dare.
Non si tratta di problemi, perché i problemi hanno sempre una soluzione, che, prima o poi, appare in tutta la sua evidenza; ma piuttosto, come direbbe il filosofo Gabriel Marcel, di misteri: e il mistero è un interrogativo destinato a  rimane per sempre tale.
Dovremmo, semmai, domandarci - magari con un minimo di umiltà - che cosa stia cercando di dirci quell’interrogativo senza risposta, che sfida vittoriosamente la nostra orgogliosa facoltà razionale e calcolante.