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Il mito della guerra buona: l’America nella Seconda Guerra Mondiale

di Jacques R. Pauwels - 12/07/2010

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Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio, Dresda, bella e antica capitale della Sassonia, fu attaccata ben tre volte, due dalla Raf e una dall’Usaf (United States Army Air Force), nel quadro di un’operazione che coinvolse più di mille caccia bombardieri. Le conseguenze furono catastrofiche, la città interamente rasa al suolo e fino a 40 mila fu il numero dei morti.
Dresda non era una città strategica dal punto di vista militare o industriale e di certo non rappresentava un obiettivo bellico per le forze anglo-americane. Per di più, dall’inizio del 1945, i comandi alleati sapevano perfettamente che anche il più feroce raid aereo non avrebbe “terrorizzato” così tanto i tedeschi da farli arrendere”.
Fu un massacro senza senso e la tragica premessa del terribile annientamento di Hiroshima e Nagasaki, a Giappone ormai sconfitto.
Per giustificare il tragico bombardamento è stato suggerito spesso, in particolare dallo storico britannico Frederick Taylor, che il bombardamento della capitale sassone fosse stato deciso “legittimamente”, non in quanto centro militare ma perché importante snodo ferroviario. Caratteristica questa di gran parte delle principali città tedesche durante la guerra, dotate di un certo tessuto industriale. Alla luce dei fatti, però, quella “legittimazione” difficilmente ha giocato un ruolo decisivo nei calcoli della pianificazione dell’attacco. Prima di tutto perché l’unica installazione militare davvero importante, un campo d’aviazione della Luftwaffe situato pochi chilometri a nord della città, non fu attaccato; secondo, l’importante snodo ferroviario non fu indicato come target dalla squadriglia di caccia-esploratori inglese “Pathfinder” che guidarono i piani di attacco e, terzo, alle formazioni fu ordinato di sganciare le loro bombe sul centro città, situato più a nord rispetto alla stazione dei treni. L’altra motivazione ipotizzata da Taylor è il “sostegno strategico” all’avanzata dell’Armata Rossa. I sovietici stessi, a quanto si dice, avrebbero chiesto agli alleati occidentali durante la Conferenza di Jalta (durata dal 4 al 15 febbraio) di indebolire le resistenze naziste sul fronte orientale con dei raid. Comunque sia non è emersa nessuna prova che confermi questa teoria. Anzi: durante i colloqui di Jalta sulla possibilità d’incursioni aeree anglo-americane su target della Germania orientale i sovietici avevano espresso preoccupazione riguardo le loro linee di attacco che avrebbero potuto essere distrutte da possibili raid aerei alleati, così chiesero espressamente che la Raf e l’Usaaf non operassero troppo presto nell’est della Germania (la paura dei sovietici di essere colpiti da quello che noi ora chiamiamo “fuoco amico” non era poi così campata in aria, lo dimostra il fatto che durante il tragico bombardamento un numero considerevole di aerei bombardò erroneamente Praga, città piuttosto lontana da Dresda e dietro le linee dell’Armata Rossa).
Il generale sovietico Antonov espresse un interesse generico su “attacchi aerei che avrebbero impedito i movimenti del nemico,” cosa che difficilmente potrebbe essere interpretata come una richiesta di punire Dresda – che, tra parentesi, Antonov non cita nemmeno – o una qualsiasi altra città tedesca a cui riservare il trattamento riservato alla città della Sassonia tra il 13 e il 14 febbraio. Né a Jalta, né in nessun’altra occasione i sovietici chiesero agli alleati occidentali un supporto aereo che presumesse una qualche forma di distruzione di Dresda. E in ogni caso sarebbe comunque estremamente difficile pensare che gli alleati abbiano risposto con così grande immediatezza ad una possibile richiesta sovietica scatenando la potente flotta di bombardieri che colpì Dresda.
Erano infatti ormai mutate le relazioni delle forze inter-alleate all’inizio del 1945. A partire dalla metà, fino alla fine di gennaio, gli americani continuavano ad essere coinvolti nelle convulse fasi finali della battaglia nelle Ardenne, dove un inaspettato contrattacco tedesco li aveva messi in grande difficoltà. Americani, inglesi e canadesi non avevano ancora superato il Reno, non riuscendo nemmeno a raggiungerne la sponda occidentale, restando distanti da Berlino più di 500 chilometri.
Contemporaneamente, sul fronte orientale, l’Armata Rossa aveva lanciato una grande offensiva il 12 Gennaio e avanzava rapidamente, fermandosi a circa 100 chilometri da Berlino. La probabilità che i sovietici non solo conquistassero Berlino ma che penetrassero anche nella parte occidentale della Germania preoccupava non poco i leader politici e militari anglo-americani. È realistico credere che, seguendo la linea di questo pensiero, Washington e Londra fossero così ansiose di impedire ai sovietici di conseguire un tale successo? Anche se Stalin avesse chiesto agli anglo-americani appoggio aereo e Churchill e Roosvelt avessero autorizzato un qualche tipo di assistenza, difficilmente il risultato dell’attacco avrebbe potuto essere il bombardamento massiccio e senza precedenti che si è rivelato essere quello di Dresda. Inoltre, attaccare in quel modo significava sganciare centinaia di enormi bombe 2.000 chilometri dietro le linee nemiche, avvicinandosi alle posizioni dell’Armata Rossa così tanto da correre il rischio di bombardare, per errore, proprio i sovietici oppure di essere abbattuti dalla loro contraerea.
I leader anglo-americani erano indubbiamente dell’opinione che l’Armata Rossa stesse avanzando troppo velocemente.
Furono Roosevelt e Churchill alla fine di gennaio a chiedere l’incontro di Jalta con Stalin poi tenutosi nella prima metà di febbraio: volevano fosse l’occasione per stipulare degli accordi sul futuro della Germania e sull’Europa del dopoguerra prima della fine della ostilità. In mancanza di accordi di questo tipo, le realtà militari in campo avrebbero determinato chi avrebbe detenuto il controllo delle regioni occupate e quelle in mano ai sovietici sembravano molte, tanto che l’Unione Sovietica avrebbe determinato unilateralmente le future scelte politiche, sociali ed economiche. Occupando l’Italia nel 1943, Washington e Londra avevano creato un fatidico precedente, negando all’Unione Sovietica ogni tipo di collaborazione nella ricostruzione del paese e fecero la stessa cosa anche per la Francia e il Belgio nel 1944. Stalin, non fece dunque altro che seguire l’esempio degli alleati quando liberò i paesi dell’Europa dell’est. Ovviamente non volle alcun tipo di aiuto e perciò non aveva bisogno neanche di un incontro. Accettò ma insistette per incontrarsi in territorio sovietico, a Jalta, località turistica della Crimea. Durante la conferenza, Stalin si dimostrò accomodante accettando la formula proposta dagli inglesi e dagli americani, molto vantaggiosa per loro, che comprendeva una divisione della Germania in Zone di Occupazione, che coprivano approssimativamente un terzo del territorio, e quella che sarebbe stata chiamata “Germania Est” assegnata ai sovietici. Roosevelt e Churchill probabilmente non avevano nemmeno previsto questo felice risultato della conferenza, da cui sarebbero tornati “con uno spirito esultante.”
Nelle settimane che precedettero la conferenza, i due capi di governo atlantici avevano dunque bisogno di “qualcosa” per rendere chiaro a Stalin la potenza militare alleata era davvero cruciale a dispetto dei recenti arretramenti sulle Ardenne in Belgio: non volevano essere sottostimati. Jacques R. Pawels, nota, su “globalresearch” come “l’Armata Rossa fosse composta da enormi quantità di fanti, eccellenti carri armati e da formidabile artiglieria” e come invece gli alleati occidentali “possedessero un asso che i sovietici non potevano giocare”. La supremazia aerea.
Quest’arma ha reso possibile agli americani e agli inglesi di lanciare bombe devastanti su target molto lontani dalle proprie linee. Se Stalin si fosse reso conto prima di questo fatto, si sarebbe dimostrato ancora così accomodante con gli alleati di Jalta?
Era stato Churchill a decidere il totale annientamento della città tedesca, facendolo sotto il naso dei sovietici, proprio per “mandare un chiaro messaggio al Cremino”. La Raf e l’Usaaf devastarono la città tedesca con la missione chiamata “Operazione Thunderclap”. Già durante l’estate del 1944, infatti, quando la rapida avanzata in Normandia faceva supporre una vittoria entro la fine dell’anno e già si pensava alla ricostruzione, un’operazione in stile Thunderclap era stata appunto prevista come intimidazione verso i sovietici. Nell’agosto 1944 un memorandum della Raf delineava come “La totale devastazione di una grande città (tedesca)... avrebbe convinto gli alleati russi... dell’effettivo potere aereo delle forze anglo-americane”.
Così a gennaio del 1945, mentre si stava preparando per andare a Yalta, Churchill rispolverò all’improvviso il suo grande interesse per questo progetto, insistendo perché fosse subito attuato e ordinando direttamente al comandante dei bombardieri della RAF Arthur Harris, di “ripulire a fondo” una città della Germania dell’est. Il 25 gennaio il primo ministro inglese indicò il luogo in cui avrebbe voluto che i tedeschi fossero letteralmente “bombardati”, cioè da qualche parte “nei loro ritiri (nella parte occidentale) a partire da Breslavia (in inglese Wroclaw, in tedesco Breslau)”.
In termini di insediamenti urbani, significava indicare esplicitamente Dresda. Che Churchill stesso fosse dietro alla decisione di bombardare una città della Germania dell’est è stato rilevato anche dall’autobiografia di Arthur Harris, in cui ha scritto che “l’attacco a Dresda è stato spesso considerato come una necessità militare da gente più importante di me”.
Come ha scritto Alexander McKee, storico militare inglese, “Churchill ha voluto dare una lezione nella notte dei cieli di Dresda” a beneficio dei sovietici. Comunque quando anche l’Usaaf fu coinvolta nel bombardamento, è evidente che Churchill stava agendo con l’approvazione e l’appoggio di Roosevelt. Gli alleati del premier inglese tra le gerarchie politiche e militari negli Stati Uniti, incluso il generale Marshall, condivisero il suo punto di vista, anche loro attratti dall’idea, come scrive McKee, di “intimidire i comunisti (sovietici) terrorizzando i nazisti”.
La partecipazione americana ai raid contro Dresda non era peraltro necessaria, dato che la Raf era indubbiamente capace di cavarsela da sola, ma l’effetto eclatante, quale risultato di un ridondante aiuto americano, era perfettamente funzionale per dimostrare ai sovietici il letale potere aereo che possedevano gli anglo-americani. E d’altra parte così Churchill poteva “condividere” con Roosevelt la responsabilità per ciò che sapeva sarebbe stato un terribile massacro, un vero e proprio, vergognoso e tragico, crimine di guerra.
Un’operazione in stile Thunderclap avrebbe comunque danneggiato le residue installazioni militari, le vie di comunicazione colpendo duramente la già vacillante difesa tedesca. Per usare la terminologia della scuola sociologica americana della “Analisi Funzionale”, colpire i tedeschi più duramente possibile fu la “Funzione manifesta” dell’operazione, mentre intimorire i sovietici fu la funzione molto più importante. La massiccia distruzione che ha sconvolto Dresda era stata pianificata – in altre parole era funzionale – non al fine di impressionare e devastare il nemico tedesco ma al fine di dimostrare agli alleati sovietici che gli anglo-americani possedevano un’arma contro cui non c’era partita, non importa quanto potente e di successo fosse l’Armata Rossa, e contro cui non esisteva alcuna difesa adeguata.
Molti generali e alti ufficiali sia americani che inglesi erano indubbiamente a conoscenza della funzione latente della distruzione di Dresda e approvava questo tipo di impresa. Queste informazioni arrivarono ai comandanti locali della Raf e dell’Usaaf così come al “Master bomber” (equipaggio del bombardiere della squadriglia Pathfinder incaricato di determinare i target e a portare l’illuminazione dove servisse); dopo la guerra due master bomber dichiararono di ricordare che gli fosse stato chiaramente detto che quell’attacco era programmato per “impressionare i sovietici colpiti in pieno dal potere del nostro comando di bombardieri”, ma i sovietici, che finora avevano dato il maggior contributo alla guerra contro i nazisti e che avevano non solo sofferto le maggiori perdite ma si erano anche aggiudicati i maggiori successi, come per esempio a Stalingrado, si guadagnarono anche le simpatie di gran parte dei ranghi più bassi degli eserciti alleati, squadriglie incluse. Quindi l’intimidazione dei sovietici sarebbe stata vista di malocchio da questa parte delle truppe, invece – l’annientamento di una città tedesca dall’aria – era qualcosa che certamente avrebbero portato a termine. Era quindi necessario camuffare l’obbiettivo dell’operazione con un ordine che apparisse razionale. In altre parole, poiché la funzione latente del raid era “indicibile” c’era bisogno di una funzione manifesta convenzionale e quindi “dicibile”.
Per questo motivo i comandanti stanziati nelle regioni e i master bomber furono istruiti per formulare obbiettivi diversi per il bene delle truppe, con la speranza che fossero credibili. La maggior parte dei comandanti pose l’enfasi sui target militari, su ipotetiche fabbriche di munizioni e sull’annientare armamenti e strutture; Dresda fu destinata al ruolo di “città fortificata” in cui si trovava qualche tipo di “quartier generale dell’esercito tedesco”. Spesso ci furono anche vaghi riferimenti a “importanti installazioni industriali” e a “depositi ferroviari”. Per spiegare alle squadre perché il target fosse il centro città e non i sobborghi industriali, qualche comandante parlò dell’esistenza di un “quartiere generale della Gestapo” e di “enormi industrie di gas velenoso.”
I membri degli equipaggi hanno sempre accettato questi comandi, ma nel caso di Dresda molti di loro si sentirono a disagio. Con il dovuto rispetto per i loro superiori, alcuni misero in discussione i bersagli del raid ed ebbero la sensazione che in questo bombardamento ci fosse qualcosa di insolito e di sospetto. Per esempio l’operatore radio di un B-17 dichiarò in una comunicazione confidenziale che questa “fu l’unica volta in cui (lui e gli altri) sentirono che la missione era insolita”. Il senso di ansia espresso dalle truppe nacque anche dal fatto che in molti casi, durante i briefing con i comandanti, non ci furono i consueti auguri e gli incontri si svolsero in un glaciale silenzio.
Direttamente o indirettamente, intenzionalmente o no, le istruzioni e i briefing con le squadre rivelarono il vero scopo dell’attacco. Per esempio, una direttiva della RAF rivolta a truppe e squadriglie, inviata proprio il giorno dell’attacco, il 13 febbraio 1945, riportava inequivocabilmente che le intenzioni erano quelle di “mostrare ai russi, quando avrebbero raggiunto la città, che cosa era in grado di fare il comando bombardieri”.
La grave distruzione di Dresda causò grande disagio tra i civili, sia inglesi che americani, che condividevano con i soldati la simpatia per gli stessi alleati sovietici. Le autorità provarono a esorcizzare quella sensazione di generale disagio spiegando che l’operazione aveva rappresentato uno sforzo bellico che avrebbe facilitato l’avanzata dell’Armata Rossa.
In una conferenza stampa tenuta dalla Raf, a Parigi, il 16 febbraio 1945, fu detto ai giornalisti che la distruzione di questo “Centro strategico per le vie di comunicazione” situato nei pressi del “fronte russo” era stato ispirato dal desiderio di rendere possibile ai russi di “continuare la loro battaglia con successo”. Un attacco a Dresda con l’intenzione di intimorire i sovietici spiega non solo l’enormità dell’operazione ma anche la scelta dell’obiettivo.
Agli ideatori di Thunderclap Berlino sembrava la città perfetta. A partire dal 1945, però, la capitale tedesca fu bombardata ripetutamente. Ci si poteva aspettare che un ennesimo raid, non importa quanto devastante, avrebbe avuto lo stesso effetto sui sovietici mentre loro si apprestavano a combattere per la città? La distruzione completa in 24 ore sarebbe apparsa molto più spettacolare se la città in questione fosse stata abbastanza grande, compatta ma soprattutto “vergine” (non ancora bombardata). Dresda, scampata fino a quel momento, ebbe la sfortuna di rientrare perfettamente in quei criteri, in più il comando anglo-americano si aspettava che i sovietici raggiungessero la città entro pochi giorni, così da vedere con i loro occhi cosa la Raf e l’Usaaf erano state in grado di fare.
In realtà i sovietici entrarono in città molto dopo il previsto, l’8 maggio 1945, però gli effetti della distruzione ebbero da subito l’effetto sperato. Le linee sovietiche erano situate solo a poche centinaia di chilometri da Dresda, così che gli uomini e le donne dell’Armata Rossa avrebbero potuto comunque ammirare lo splendore dell’inferno di Dresda dal loro orizzonte notturno. Si dice che la tempesta di fuoco fosse visibile da 300 chilometri di distanza.
Se si vede l’intimidazione dei sovietici come funzione latente rispetto a quella reale di distruggere Dresda, allora si spiegano anche i tempi dell’operazione. L’attacco era previsto inizialmente, come sostengono alcuni storici, il 4 febbraio del 1945, ma fu rinviato al 13, 14 febbraio causa maltempo. La conferenza di Jalta era iniziata proprio il 4 febbraio. Se Dresda fosse stata distrutta nello stesso giorno, quell’esempio avrebbe quantomeno impensierito Stalin. Il leader sovietico, che volava alto per i suoi recenti successi, sarebbe stato bruscamente riportato con i piedi per terra dalle forze aeree alleate, perdendo credibilità come interlocutore e diventando più accomodante. Questa spiegazione si riflette chiaramente in un commento del generale americano David M. Schlatter, rilasciato una settimana dal rientro da Jalta: “Credo che le nostre forze aeree siano il nostro asso nella manica nel sederci al tavolo delle trattative, e questa operazione (il progetto del bombardamento di Dresda o di Berlino) sarà di grandissimo aiuto al loro sforzo bellico o forse di una presa di coscienza del loro sforzo bellico”.
Il progetto di bombardare Dresda fu dunque rimandato. In fondo questo tipo di dimostrazione di potenza militare avrebbe avuto degli effetti psicologici positivi (per gli alleati occidentali) anche dopo la fine della conferenza. Si pensava che prima o dopo i sovietici sarebbero entrati a Dresda e che avrebbero visto subito quale orribile distruzione erano in grado di causare le forze aeree alleate in una sola notte.
E, infatti, quando verso la fine delle ostilità, le truppe americane ebbero la possibilità di entrare a Dresda prima dei sovietici, Churchill glielo impedì: anche nel momento in cui il primo ministro inglese era molto ansioso di occupare più territorio possibile anche grazie agli alleati americani, continuò ad insistere perché fossero i russi ad occupare Dresda, per essere sicuro di beneficiare degli effetti del bombardamento.
Dresda fu distrutta per impressionare l’esercito sovietico, come dimostrazione dell’enorme potere di fuoco delle forze aeree anglo-americane, di come potessero portare morte e distruzione anche a molte centinaia di chilometri dalle loro basi. Il messaggio era chiaro: questa potenza di fuoco potrebbe arrivare fino in Russia.
Dresda: un atroce crimine di guerra. Amplificato poi dal calore orribile degli inferni successivi made in Usa, a Hiroshima e Nagasaki.   

tratto da Globalresearch