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La censura sull'ayatollah

di Mario Braconi - 13/07/2010




L’ayatollah iracheno Muhammad Hussein Fadlallah, definito ufficialmente “terrorista” dal Governo USA nel 1995, si è spento lo scorso 4 luglio a settantacinque anni per un’emorragia interna. Il religioso sciita, assai popolare nel suo paese ed in tutto il Medio Oriente, viene comunemente considerato uno degli sponsor più blasonati (addirittura uno dei “padri spirituali”, per così dire) di Hezbollah, a dispetto del fatto che negli anni 90 i suoi rapporti con il movimento politico-militare fossero piuttosto tesi.

La sua “benedizione” all’attacco terroristico di Hezbollah alle caserme delle Forze di Pace del 23 ottobre 1983 (cinque tonnellate e mezzo di tritolo, trecento militari americani e francesi uccisi, una sessantina di feriti) non lo rende un personaggio simpatico - almeno in questa parte del globo, né particolarmente potabile per i funzionari delle cancellerie dei Paesi Occidentali (con qualche rilevante eccezione, come si vedrà oltre).

Racconta Robert Pollock, il giornalista del Wall Street Journal che lo intervistò nel marzo del 2009, che nei corridoi dei suoi uffici Fadlallah aveva appeso i ritratti di quelli che egli considerava “martiri” islamici: tra di essi, quello di Imad Mughniyah, peso massimo del terrorismo internazionale, assassinato dal Mossad (pare con la complicità di qualcuno dei “suoi” cui non era particolarmente simpatico) con una carica esplosiva nascosta nel poggiatesta dell’auto il 12 febbraio del 2008; quando Mughniyah, cui viene attribuito un lungo elenco di crimini terroristici ributtanti (tra cui l’ideazione dell’attacco del 23 ottobre 1983) morì, Fadlallah ne pianse la dipartita con le seguenti parole: “Oggi la resistenza ha perso uno dei suoi pilastri”.

Per completezza ed obiettività storica, sia pure nel sordido pantano del terrorismo e delle guerre di occupazione, occorrerà comunque aggiungere che lo stesso Fadlallah fu oggetto di un tentativo di assassinio organizzato dalla CIA con la complicità dei sauditi che, oltre a fallire l’obiettivo (anche se alcune delle sue guardie del corpo perirono nell’esplosione dell’autobomba, l’ayatollah si salvò), uccise 60 persone e ne ferì duecento; tutta gente che passava di là per caso o che era andata in moschea.

Da un punto di vista politico, la scomparsa di Fadlallah coinciderà con un rafforzamento della stretta iraniana in Libano; considerazioni morali a parte, bisogna riconoscere che l’opposizione di Fadlallah alla Repubblica Islamica avrebbe costituito un’ottima carta per porre un limite alla nefasta influenza iraniana nel Paese dei Cedri: una carta che, tanto per cambiare, né gli USA né gli altri Paesi occidentali interessati a quello che accade in quell’area, hanno saputo giocarsi nel modo giusto. Come nota Pollock, infatti, Fadlallah non ha mai accettato la dottrina inventata da Khomeini e nota come “velayat-e faqih” (in persiano, “tutela dell’esperto della Legge”) secondo cui un giurista musulmano ha il diritto di bloccare qualsiasi legge del Parlamento che non sia perfettamente conforme alla sua propria interpretazione della shari’a (legge islamica): di fatto, la premessa all’imposizione di una teocrazia. “Sempre meglio l’influenza di Fadlallah rispetto a quella degli agenti iraniani che ora si presenteranno come i suoi eredi”, conclude Pollock.

A quanto pare, lo scomparso ayatollah era dotato di un carisma non comune: sono infatti ben due le professioniste (un’ambasciatrice e una giornalista della CNN) che hanno perso (o rischiato di perdere) il loro lavoro a causa dei commenti riservati alla memoria del religioso islamico subito dopo la sua scomparsa. Frances Guy, ambasciatrice del Regno Unito in Libano, nel suo blog ha così tratteggiato la figura del religioso: “Quando gli si faceva visita, si poteva esser certi di godere di un autentico dialogo, di uno scambio rispettoso di opinioni, e quando si andava via, si aveva la sensazione di essere una persona migliore. [...] Il mondo ha bisogno di più persone come lui, desiderose di spingersi oltre gli steccati delle diverse fedi”.

Sembra quasi incredibile che una persona di consumata esperienza, quale necessariamente deve essere quella che siede sulla poltrona attualmente occupata dalla signora Guy, possa lasciarsi andare ufficialmente a commenti di tale imbarazzante ingenuità. “Ciò non vuol dire”, conclude Pollock, “che qualsiasi commento positivo su quell’uomo debba automaticamente diventare off-limits”. Si noti che a dirlo è un giornalista non immune al fascino di Fadlallah, visto che nel suo pezzo fa sapere ai suoi lettori di quel “luccichio disarmante” che ha visto balenare negli occhi dell’anziano Fadlallah. Ma il mondo va in modo diverso da come vorrebbe Pollock e, ovviamente, la signora Guy ha dovuto ritrattare in fretta e furia per salvare il posto.

Peggio è andata a Octavia Nasr, redattrice senior della CNN per il Medio Oriente, costretta a dare le dimissioni per aver postato sul suo account Twitter un commento nel quale manifestava il suo dolore per la scomparsa di Fadlallah, da lei salutato come “uno dei giganti di Hezbollah”. Tanto è bastato per farla cadere nella graticola sulla quale gli ultrà pro-Israele sono stati lieti di cacciarla, e dalla quale ha potuto liberarsi solo dopo aver lasciato la CNN.

Il caso della Nasr fa particolarmente riflettere: come nota acutamente Brian Whitaker, del Guardian, decano dei corrispondenti dal Medio Oriente, sono in parte anche i moderni giornali ad invitare i loro giornalisti a “sconfinare nei cosiddetti social media, per stabilire un rapporto più personale ed informale con i propri lettori”. Un’interessante innovazione, si dirà, anche se capace di trasformarsi in doccia fredda per tutti i lettori che vivono nell’illusione che il giornalista sia un essere privo di opinioni proprie sul materiale che “copre”. E certo mettersi alla prova su un social network basato sull’impossibilità di veicolare messaggi più lunghi di 140 caratteri è una bella sfida.