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La macchia è ovunque

di Luca Bonaccorsi - 14/07/2010

 
Il viaggio inizia con un paradosso: sarà Bp a pagare l’elicottero che ci permette di testimoniare in prima persona il disastro ambientale della Deepwater Horizon, e gli interventi, finora senza successo, per arginare la fuoriuscita di petrolio dal pozzo sottomarino. Ci aspettano all’aereoporto di Houma, un’ora circa di macchina a ovest di New Orleans. Lungo una tipica strada Usa: grandi incroci clonati si susseguono con Walmart, MacDonald, benzinaio e shopping center. Tutti uguali. Come facciano i locali a non perdersi è un mistero. 

L’aeroporto privato della Bp è una serie di scatole di latta sparse su una piattaforma verde. Fuori caldo torrido. Dentro la scatola-ufficio-accoglienza gelo di aria condizionata con gli steroidi, come si usa qui. Il gelo è anche nelle maniere dell’addetta Bp. Non deve essere facile lavorare per l’azienda più vituperata del mondo. Oltre a noi di Terra una troupe televisiva locale, tre fotografi e un ufficiale della Guardia costiera. Mentre aspettiamo l’imbarco proviamo a fare amicizia con qualche operaio della Bp in pausa sigaretta. In tanti qui aspettano un “passaggio” verso le piattaforme o le raffinerie della zona. Hanno voglia di parlare dell’incidente quanto i corleonesi di Totò Riina nella piazza del paese davanti a tutti. Si vola con un Sikorsky 92 giallo, un signor elicottero. Costruito negli Usa per uso civile e militare, sedili stile aereo di linea, cinture, cuffie radio per le chiacchiere a bordo. Molto usato per il traffico verso le piattaforme petrolifere. L’anno scorso ne è caduto uno diretto a una piattaforma nel Newfoundland; trasportava personale tecnico. Di 18 se n’è salvato uno solo. Ma era brutto tempo, oggi sole e cielo azzurro. Un navigato fotografo statunitense dice che ci offrono l’elicottero per farci sentire colpevoli quando scriveremo del disastro.
 
A circa 200 chilometri l’ora voliamo verso Grand Isle. Il paese è adagiato lungo una striscia bellissima di spiaggia bianca. È stato il primo luogo a subire l’invasione nera, uno dei più colpiti ad oggi. La spiaggia ora è chiusa al pubblico. Oltrepassare la rete arancione di plastica ci costerebbe fino a 5 anni in galera. Volare da Houma a Grand Isle rende bene l’idea di cosa sia questa parte di Louisiana: una grande, ininterrotta palude. È come se il Lazio intero fosse composto da isolotti verdi, acqua bassa, canali. Come se si potesse andare da Roma a Latina e poi verso Rieti in gommone tra canneti e laghetti. Qui la chiamano marsh, noi lo traduciamo palude, acquitrino. Un posto abbastanza desolato e inospitale per gli esseri umani ma un santuario assoluto per la vita animale e vegetale. Passano di qua il 70 per cento delle rotte di oche, anatre e uccelli migratori. Viene da qui il 50 per cento di gamberi e granchi statunitensi. Su questa unica grande tavolozza verde e blu si vede bene il disegno dell’uomo: canali per portare le attrezzature dell’industria petrolifera, raffinerie, impianti industriali, enormi serbatoi piatti e bianchi.
 
 
Da Grand Isle voliamo in direzione sudovest circa mezzora per arrivare sul luogo dell’affondamento della piattaforma Deepwater Horizon. A metà strada si sorvola l’estuario del Mississipi. Quarto fiume al mondo, quasi 4mila chilometri attraverso 31 Stati, il suo incontro con il Golfo è romantico come il casello dell’A1 al rientro dalle ferie. Gli occhi cercano avidamente le macchie di petrolio, ma qui è impossibile vederle. Il fiume di fango marrone incontra l’acqua blu salata del golfo formando infinite striature che si irradiano nell’Atlantico. Le linee arancioni e bianche delle barriere assorbenti raccontano che il petrolio è arrivato anche qua, anche se distinguerlo in questa tela di blu e marrone è troppo difficile. Sorvolando il mare l’acqua presenta spesso striature oleose. Molte anche le macchie scure sotto la superficie. Alcuni dicono che siano macchie di petrolio, frammentato dagli agenti chimici che galleggiano sotto la superficie. Non è assurdo, ma stiamo volando sotto le poche nuvole in una giornata assolata. Al ritorno, volando più in alto, le macchie assomigliano di più alle ombre delle nuvole.
 
Quando arrivi sul luogo del disastro il petrolio si vede e si riconosce facilmente. È rosso-marrone, un vivo color ruggine. Si presenta in lunghe striature intorno alla scena del delitto. Il cadavere della piattaforma giace là sotto a circa 450 metri di profondità. Il corpo della terra invece sanguina ancora, centinaia di migliaia di litri al giorno. Da 83 giorni. Tutto intorno i soccorsi, navi di ogni colore e forma, traffico da ore di punta. In mezzo all’oceano. Facilmente identificabili le due nuove piattaforme che stanno scavando i pozzi laterali, che dovrebbero aiutare a prosciugare il giacimento maledetto che sta avvelenando il mare. Vicino ad esse le navi che succhiano petrolio e gas dal foro sottomarino per arginare i danni, la Discovery enterprise, la Clear leader e la Helix producer. La nave Q4000 brucia il metano che raccoglie dal pozzo. Una fiamma che si alza al cielo per decine di metri e che produce una scia di calore che fa sobbalzare l’elicottero quando l’attraversiamo. Dall’alto lo specchio d’acqua è un mix tra la scena di un incidente stradale con la carcassa dell’auto in fiamme, un tavolo operatorio con i soccorsi disposti intorno e una scena di guerra. Le pale d’elicottero, il fuoco, il fiume. Il rimando è troppo facile: Apocalypse now. I giornali continuano a pubblicare mappe in cui si vedono chiazze infinite di petrolio. Non è più così. In queste settimane la Bp ha spruzzato più di un milione di litri di agenti chimici che frazionano il petrolio, lo “sciolgono”. Mentre noi decollavamo da Houma due grandi aerei rientravano dalla loro quotidiana missione di diffusione di solventi sulle aree inquinate. C’è grande polemica sull’uso di questi agenti chimici. Di fatto diluiscono il petrolio, lo rendono meno visibile.
 
La sensazione che hai dall’alto è che le chiazze di petrolio siano sparite ma il mare si sia trasformato tutto in una melassa unta. Basta che un motoscafo qualsiasi solchi il mare lì vicino per vedere il blu originale nella scia, e capire che tutta l’area è coperta da una pellicola di olio e agenti chimici mischiati. E allora capisci: è inutile cercare “la macchia” se ci sei in mezzo ed è grande come il Tirreno centrale.