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Quanta libertà e responsabilità restano all’uomo davanti alla necessità delle leggi naturali?

di Francesco Lamendola - 15/07/2010

 

 

Quanta parte di libertà e responsabilità rimane all’uomo davanti alla rigorosa necessità delle leggi naturali?

Questa è la domanda intorno alla quale si è affaticato l’intero pensiero filosofico di Émile Boutroux (Montrogue, 1845 - Parigi, 1921), come, del resto, quello di Charles Renouvier; domanda scomoda, specialmente in tempi di positivismo trionfante, quando sembrava che la scienza avesse trovato la parola definitiva per ogni questione dell’esistenza, filosofia compresa.

Mentre la corrente maggioritaria del pensiero europeo si abbandonava alla facile ebbrezza di uno scientismo buono per tutte le stagioni, Boutroux, con notevole coraggio concettuale, sottopose a critica implacabile e radicale le stesse fondamenta dell’epistemologia positivistica, gettando le basi di una visione completamente alternativa ad essa: il contingentismo.

E la prima cittadella del sapere positivista ad essere presa d’assalto, frontalmente, da Boutroux, fu il principio di causalità: è proprio vero che ogni fenomeno può essere spiegato con una certa causa ben precisa e determinata? Non è forse vero, al contrario, che ciascun fenomeno, in quanto evento nuovo e irripetibile, porta con sé una carica di novità e degli elementi specifici, che lo rendono diverso da ogni altro sinora verificatosi, e rende impossibile, pertanto, la pretesa di spiegarlo sulla base di quanto già noto?

Il contingentismo, quindi, è stato un grande, coerente e ambizioso tentativo di rispondere alla sfida del determinismo; di negare, cioè, che l’inesorabile necessità delle leggi naturali tolga ogni spazio alla dimensione della libertà umana e, di conseguenza, vanifichi completamente il principio della responsabilità individuale. Boutroux accetta la sfida dello scientismo positivista per rivendicare l’insopprimibile esigenza della dimensione spirituale e metafisica.

In uno dei suoi lavori fondamentali, «L’idea di legge naturale  nella scienza e nella filosofia contemporanea», corso tenuto alla Sorbona dal 1893 al 1894, Boutroux amplia la critica al determinismo e al deduttivismo per investire una problematica molto più ampia del sapere e dei problemi umani. Per lui, concetti e norme formali non possono essere applicati ai fenomeni della natura; e, a maggior ragione, non si dovrebbe nemmeno parlare di “leggi naturali”, perché il concetto di legge non  trova riscontro nel dato fenomenico, ma nasce da una esigenza - soprattutto psicologica - dell’individuo: quella, cioè, di ridurre il mutevole all’immutabile ed il diverso, all’identico.

In altre parole, è una esigenza di ordine quella che spinge l’uomo a formulare delle leggi; ma il mondo dei fenomeni naturali non conosce leggi e non sa che farsene delle esigenze umane di razionalizzare il disordine e di applicare una vernice di necessità a ciò che è soltanto e puramente contingente.

La classica obiezione dei positivisti, e cioè che le “leggi naturali”, dopo tutto, sembrano FUNZIONARE, viene respinta da Boutroux con l’argomento che nei fenomeni naturali - fisici, chimici, biologici, eccetera - si può riscontrare, effettivamente, una certa regolarità e costanza di comportamento: ma da qui a parlare di leggi, e quindi di necessità e di determinismo, ce ne corre assai.

Per usare le sue parole (da: «Dell’idea di legge naturale» titolo originale: «De l’Idée de loi naturelle dans la science et la philosophie contemporaines», Alcan, 1895; traduzione italiana di Aldo testa, Milano, Signorelli, 1856, pp. 150-57):

 

«… Noi ci domandiamo, i conclusione, qual parte rimanga alla libertà  ed alla responsabilità umana di fronte a queste leggi che rappresentano per noi la natura delle cose.  Il problema è più urgente oggi che non nello scorso secolo.  Quando il campo delle scienze propriamente dette era poco esteso, poteva essere ammessa la libertà, fuori di questo campo. Ma la scienza accresce di giorno in giorno la propria estensione e la propria precisione; sta per sottomettere a sé quelle manifestazioni che sembrerebbero più ribelli ad essa. Non potrebbe dunque darsi che tutto, in diritto, le appartenga e che in conseguenza tutto sia determinato e necessitato? Tuttavia, dato che, malgrado il progresso della scienza, il sentimento della libertà si mantiene vivo nell’anima umana è giusto cercare se vi sia contraddizione tra questi due fati e se il secondo debba essere considerato un’illusione frutto dell’ignoranza.

Vi sono delle solide ragioni perché il determinismo ci appaia oggi più limitato che non agi antichi. Essi vedevano, senza dubbio, al di sopra di loro un destino che li schiacciava; ma, secondo il detto di Pascal, anche quando soccombe l’uomo è più nobile di ciò che lo uccide, perché sa di morire. La filosofia antica nelle sue manifestazioni classiche, si fonda su un dualismo che impedisce al determinismo di essere assoluto. L’essere è costituito di due parti: la verità, dominio dell’eterno e del necessario, e il fenomeno, materia instabile, incapace di fissarsi definitivamente in una determinata forma. Questa dualità dell’essere assicura la possibilità dei contrari che è condizione della libertà.[…]

Le matematiche comunicano alla scienza la necessità; l’esperienza, la conformità ai fatti. Questa è la radice del determinismo moderno. Crediamo che tutto sia determinato necessariamente, perché crediamo che tutto sia, in sostanza, matematico. Questa opinione è ciò che stimola più o meno manifestamente, l’indagine scientifica. Si tratta di sapere se questo è un principio veramente costitutivo o semplicemente un principio regolatore ed una idea direttrice. La scienza prova o si limita soltanto a supporre che l’essenza delle cose sia esclusivamente matematica?

Il determinismo moderno poggia sulle due affermazioni seguenti: 1) le matematiche sono perfettamente intelligibili e sono l’espressione di un determinismo assoluto; 2) le matematiche si applicano esattamente alla realtà, almeno in diritto e nel fondo delle cose.

Esaminiamo prima di tutto la prima tesi. Essa consiste nel supporre che le matematiche siano un semplice sviluppo particolare della logica. Ora la logica, almeno la logica reale, che comprende la teoria del concetto, del giudizio e del ragionamento, suppone i dati come irriducibili al rapporto analitico, che è il solo tipo della perfetta intelligibilità. Il concetto, il giudizio e il sillogismo hanno dato origine in ogni tempo a dispute. In ciò che concerne il loro valore si può ovviare l’accusa di sterile tautologia solo ricorrendo a considerazioni che oltrepassano la pura logica. Tale è la nozione dell’implicito e dell’esplicito che risolve come può la difficoltà solo facendo ricorso all’oscura distinzione metafisica di potenza ed atto.

Se la logica contiene degli elementi irriducibili al pensiero puro, le matematiche ne contengono un numero superiore. Malgrado tutti i loro sforzi, i matematici non hanno potuto ridurre questi elementi alla semplice logica.  […]

L’analisi filosofica dei principi e dei metodi matematici rivela buon numero di determinazioni contingenti e di artifici accettati soprattutto perché hanno successo.

Così la necessità matematica stessa non è più per noi incondizionata, come poteva essere per gli antichi, che consideravano le matematiche interamente A PRIORI. In compenso questa necessità ha perduto il carattere estetico che aveva per i pitagorici e i platonici.  Per noi è una necessità cieca e brutale che procede rigidamente senza scopo e senza freno. Così concepita, questa necessità si ritrova veramente nelle cose?  La fusione perfetta tra matematiche e esperienza, oggetto della scienza moderna, può forse essere realizzata effettivamente? Potrà esserlo in avvenire? […]

La scienza, concepita come insieme di tutte le scienze, non è che una astrazione. Abbiamo soltanto delle scienze, di cui ciascuna, oltre ad aver relazione con le altre, ha una sua fisionomia e un’evidenza suoi propri. Via via che dallo studio dei movimenti dei corpi celesti (che è la realtà più esteriore che noi conosciamo) ci innalziamo allo studio della vita e del pensiero, i postulati richiesti sono sempre più numerosi e più impenetrabili. […]

Più si vuol cogliere l’essere nella sua realtà concreta, più bisogna contentarsi di fare osservazioni e induzioni, differendo l’uso del’analisi matematica. Così la forma matematica conferisce alle scienze un carattere di astrazione: l’essere concreto e vivente le sfugge.

Concludendo, vi sono dunque due specie di leggi: le une che si possono avvicinare di più al legame matematico ed implicano una forte elaborazione ed epurazione dei concetti; le altre che si avvicinano di più alla osservazione e all’induzione pura e semplice. Le prime esprimono una necessità rigorosa, se non assoluta, ma restano astratte e impotenti a conoscere il particolare ed il modo di realizzarsi effettivamente dei fenomeni. Le seconde riguardano  il particolare e le relazioni  che hanno tra di loro le totalità complesse e organizzate; esse raggiungono una determinazione maggiore delle prime; ma, poiché non hanno altro fondamento che l’esperienza e connettono tra loro dei fenomeni interamente eterogenei, non possono stabilire rapporti necessari. Una previsione possibile non implica la necessità, poiché anche atti liberi possono comportarla. Quindi necessità e determinazione sono cose distinte; la nostra scienza non giunge a fonderle in una unità.

Riassumendo, da un lato le matematiche sono necessarie solo in quanto ammettono dei postulati la cui necessità è indimostrabile, onde la loro necessità risulta in conclusione, solo ipotetica. D’altra parte l’applicazione e le matematiche alla realtà è, e sembra non poter essere altro, solo approssimativa. Che cos’è, in queste condizioni, la dottrina del determinismo? Una generalizzazione e un passaggio al limite.

Alcune scienze concrete si avvicinano al rigore matematico; si suppone che tutte siano destinate a raggiungere un’uguale perfezione. La distanza che ci separa dallo scopo può diminuire sempre più; Si suppone che possa divenire nulla. Ma tale generalizzazione è solo teorica. Infatti la distanza fra le matematiche e la realtà non può essere colmata. E se anche sembra diminuire, il numero degli intermediari che bisognerebbe intercalare per operare la congiunzione appare sempre più senza limite. Storicamente, l’idea di ridurre la realtà alla matematica si deve all’ignoranza  di questa incommensurabilità del reale e della matematica; questa volta l’ignoranza ha avuto buoni effetti perché non vi sarebbe stato uno slancio con tanto ardore verso un scopo che si fosse conosciuto inaccessibile. Il postulato cartesiano, mentre ha dimostrato la propria fecondità, ha trasformato in ideale trascendente ciò che per Cartesio era un principio e un punto di partenza.

Se ora confrontiamo con la forma attuale della scienza la testimonianza della conoscenza in favore della libertà, troveremo che si può accogliere questa testimonianza molto più che n on, per esempio, stando al dualismo cartesiano.[…]

Ma la scienza non conferma affatto la realtà di questo dualismo. Essa ci mostra al contrario una gerarchia di scienze, una gerarchia di leggi che noi possiamo avvicinare tra loro, ma non fondere in una sola scienza di cose esterne e in una legge unica. Inoltre essa ci mostra, con l’eterogeneità relativa delle leggi, la loro azione reciproca. […]

Lo spirito non muove la materia, né immediatamente, né mediatamente. Ma non esiste affatto materia bruta; e ciò che fa l’essere della materia comunica con ciò che fa l’essere dello spirito. Quelle che noi chiamiamo le leggi della natura non sono che l’insieme dei metodi che abbiamo trovato per adattare le cose alla nostra intelligenza e piegarle a compiere la nostra volontà. In origine, l’uomo vedeva dappertutto soltanto ilo capriccio e l’arbitrio soprannaturali. Quindi la libertà che egli si attribuiva non aveva presa su cosa alcuna. La scienza moderna gli mostrò ovunque la legge fisica, ed egli ritenne allora di vedere la propria libertà dissolversi nel determinismo universale. Ma una giusta concezione delle leggi naturali gli rende il possesso di se medesimo e nello stesso tempo gli assicura che la sua libertà può essere efficiente sino a consentirgli di dirigere i fenomeni. Delle cose esteriori e interiori solo le seconde dipendono da noi, diceva Epitteto, e aveva ragione per l’età in cui parlava. Le leggi meccaniche della natura, rivelate dalla scienza moderna, sono, in realtà, la catena che connette l’esterno all’interno. Lungi dal costituire una necessità, esse ci affrancano e ci permettono di aggiungere una scienza attiva alla contemplazione in cui gli antichi rimanevano rinchiusi.»

 

Dunque il pensiero epistemologico di Émile Boutroux - esemplare per chiarezza e linearità, in un panorama filosofico complessivo che si segnala per l’astrusità e la nebulosità concettuale - non rigetta il dualismo cartesiano in quanto tale, ma lo oltrepassa, in nome di un volontarismo che non si lascia soffocare tra l’incudine della “res extensa” e il martello della “res cogitans”; non rifiuta il progresso scientifico né irride alle sue ambizioni di trasformarsi in sapere assoluto, ma mostra l’infondatezza di queste ultime e riporta la scienza entro l’ambito che le è proprio: quello dello studio dei fenomeni, che non possono essere ridotti nei rigidi schemi della logica. Non tutto è matematica, perché non tutto è necessario, pur essendo ogni cosa determinata.

In questa distinzione fra determinazione e necessità ci sembra consistere il nocciolo più fecondo della speculazione del Boutroux. Le leggi matematiche sono necessarie, ma astratte; mentre il mondo della natura è il regno del concreto. Le leggi della natura sono più determinate di quelle matematiche, perché più vicine al concreto; ma, appunto perciò, sono meno rigorose e, quindi, meno necessarie. Le une e le altre, peraltro, nascono da una esigenza ordinatrice della mente umana e non risiedono nelle cose stesse.

Non vogliamo qui sollevare l’eterno problema circa l’esistenza, o meno, degli enti matematici al di fuori della realtà empirica, problema sul quale ci siamo già soffermati numerose altre volte. Notiamo infatti che il Boutroux non solleva questo problema, perché non si domanda se gli enti della matematica esistano in sé e per sé, ma soltanto, e più concretamente, se esistano delle leggi della matematica – e, più in generale, della logica - che corrispondano esattamente a dei fenomeni fisici; il che è completamente diverso. La risposta negativa a tale interrogativo, cui perviene attraverso un ragionamento semplice ma rigoroso, chiude i conti con le smodate pretese dello scientismo di avere l’ultima parola in ogni aspetto della conoscenza.

Un altro importante merito di Boutroux è stato quello di aver smontato la classificazione delle scienze elaborata da Comte e di aver mostrato come sia improprio parlare di “scienza” al singolare, dal momento che ogni diversa disciplina scientifica (matematica, fisica, chimica, biologia, psicologia, sociologia) si applica a fenomeni di ordine profondamente diverso gli uni dagli altri e si serve, necessariamente, di metodi d’indagine molto differenti.

I mondi di cui si occupano le singole scienze (al plurale), cioè quello fisico, quello chimico, quello organico e così via,  sono contraddistinti da una carattere nuovo, imprevedibile, CONTINGENTE rispetto al precedente: da qui il termine “contingentismo” per designare la filosofia di Boutroux e, più in generale, ogni filosofia che si opponga al determinismo in quanto non riconosca, nei fenomeni della natura, alcun ordine invariabile e necessario.

Boutroux spinge ancora più avanti il suo ragionamento e afferma che tra i diversi ordini di fenomeni naturali non vi è continuità; per cui, ad esempio, le leggi fisiche e chimiche sono inadeguate a rendere pienamente conto dei fenomeni biologici. Ebbene, proprio da tali discontinuità emerge un principio di libertà insito nella natura stessa, che si sottrae al rigido determinismo del principio di causalità.

Al tempo stesso, se è vero che i fenomeni organici esulano dal determinismo delle leggi fisiche e chimiche, è altrettanto vero che anche la coscienza umana si emancipa dalle leggi biologiche e ciò configura il pensiero di Boutroux come una filosofia della libertà e come una forma di vitalismo che, sia pure alla lontana, è apparentato con altre manifestazioni della rivolta antipositivistica degli ultimi anni del XIX secolo e dei primi del XX, in particolare con il pensiero di Henry Bergson, di J. J. Von Uexküll e, alla lontana, anche di Friedrich Nietzsche.

Infine, abbiamo accennato al collegamento esistente fra il pensiero di Boutroux e quello di Charles Renouvier, benché questi appartenga alla generazione precedente (1815-1903). Anche Renouvier, infatti, pur muovendo da una ben diversa prospettiva, in quanto continuatore del criticismo e avverso alla metafisica (oltre che in polemica con la religione cattolica), condivide l’esigenza di opporsi al determinismo in nome di una concezione aperta e pluralista del reale, in cui la libertà umana si realizza pienamente.

Ecco perché crediamo che la lettura, o la rilettura, di Boutroux abbia ancora diverse cose da dire a noi, cittadini di un secolo dominato dallo scientismo nella sua versione più esasperata: quella che Raimon Panikkar ha chiamato “tecnocentrica”.