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La dignità della morte, l'umiliazione della vita

di Massimiliano Viviani - 15/07/2010

 






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La cancellazione da parte della modernità della dimensione trascendente e religiosa dell'uomo gli ha concesso una libertà di azione e di pensiero senza precedenti nella storia, ma nel contempo lo ha condannato a vivere in un'unica realtà, quella materiale, finita la quale, è finita la vita. A differenza dell'uomo del passato che non sapeva che era la terra a girare intorno al sole -ma di cui probabilmente non gliene importava più di tanto- ma sapeva, colto o analfabeta che fosse, dare una risposta certa alle domande fondamentali dell'uomo (Dio, anima e mondo) l'uomo moderno a tali domande non sa più rispondere.
Ridottasi a poco più che una "scienza sociale" come tante altre, la religione non è più in grado di svolgere la funzione di fornire una risposta a tali domande e soprattutto a quella più importante in assoluto, ossia quale sia il destino umano dopo la morte. La scienza, rimasta l'unica forma di conoscenza valida nella modernità, ha preso il suo posto. Ma poichè la scienza per sua natura, al contrario delle religioni tradizionali, non è assoluta ed eterna ma parziale e relativa, le sue risposte non potranno che essere parziali e provvisorie. Quindi poco soddisfacenti.
Di fatto, la risposta della scienza al mistero della morte non potrà che essere la più semplice possibile: prolungare oltre ogni limite la vita. Poichè la scienza non riconosce altre realtà oltre a quella materiale, non le resta che rimandare il più lontano possibile il momento della morte, che nel frattempo da momento di trapasso, è diventato momento di cessazione: con la morte l'uomo moderno non va da nessuna parte ma cessa semplicemente di esistere. Finisce la commedia. Cala il sipario.
A questo punto ci viene incontro la cronaca. Nel maggio scorso infatti il celebre genetista Craig Venter annunciava di avere progettato e assemblato cellule capaci di autoreplicarsi, realizzando di fatto in laboratorio la prima cellula artificiale e compiendo il primo passo concreto verso la creazione della vita artificiale. Pochissimo tempo dopo il nostrano Prof. Veronesi rivelava ai media il funzionamento di una macchina che individua l'esistenza di cellule tumorali nel corpo del paziente nel momento della loro formazione, se non addirittura prima, con una probabilità prossima al 100%. Le due scoperte speculari e complementari affermano da un lato che la vita non contiene in sè alcun mistero trascendente perchè un qualsiasi computer è in grado di riprodurla (in realtà queste sono balle: cosa differenzia un uomo vivo da uno morto un istante fa? Biologicamente niente. In realtà io mi permetto di sostenere sulla linea degli antichi che il Mistero si nasconde dietro ogni punto del creato: gli elementi assemblati dal computer hanno già dentro di sè quella trascendenza che poi si ripropone in modo diverso nel corpo umano come lo conosciamo noi...), dall'altro invita implicitamente ogni persona ad attuare la medicalizzazione perpetua affinchè la vita duri sempre più a lungo. Del resto non sono gli stessi scienziati -Veronesi in testa- che ci assicurano che un giorno non troppo lontano vivremo fino a 120 anni? Che poi di fatto vorrà dire, nè più nè meno, prolungare la nostra schiavitù e andare in pensione quarant'anni dopo?

L'uomo oramai si vede affogare sempre più in una ricerca del piacere che gli fa perdere dignità. La fierezza, il coraggio, la tensione verso qualcosa di più alto stanno scomparendo del tutto. La paura della morte porta l'uomo moderno ad attaccarsi morbosamente a ogni anno vissuto in più, a ogni mese, ogni giorno, ogni minuto. Ogni istante in cui la vita si prolunga è una boccata di ossigeno. Non c'è più un momento in cui l'uomo può dire a se stesso e a chi lo circonda "Posso morire in pace", "Ho compiuto il mio dovere". Non esiste un completamento della vita: la vita non si chiude mai, è un percorso illimitato, lineare, sempre proiettato in avanti, sicchè in qualsiasi momento si ha l'impressione di potere sempre aggiungere un qualcosa di più, con il rimpianto di avere sempre qualcosa di meno.
Non è che l'uomo preindustriale andasse sempre incontro alla morte in modo sereno e coraggioso, ma diciamo che ciò gli era più facile: la cultura dominante facilitava un approccio più saggio e disincantato. E addirittura, ancora prima, in molte società antiche, la morte preferibile era la morte cruenta: in battaglia, in un duello ingaggiato per la successione o durante un sacrificio rituale preparato appositamente, prìncipi o sacerdoti, arrivati ad una certa età, si facevano immolare alla ricerca di una morte eroica, cosciente, lucida. Se invece avessero atteso la morte naturale, era come se fossero andati incontro a una sorta di putrefazione. Certo si trattava pur sempre di eccezioni valorose e non della norma per l'uomo comune, il quale però aveva un modello di riferimento dato loro dai più forti, dai più coraggiosi e consapevoli.
Ora noi certamente non pretendiamo di rispolverare improponibili modelli arcaici che sono semplicemente impensabili per l'uomo moderno. Tuttavia quanto detto serve per capire la direzione verso cui stiamo andando e per porvi eventualmente un freno, onde recuperare un po' di quella dignità che abbiamo perduto. Perchè di fatto, oggi il modello si è invertito: con il vertiginoso sviluppo tecnologico cui siamo giunti, la morte viene rimossa e ignorata, sicchè l'ideale di vita è diventata la medicalizzazione perpetua e quello di morte il prolungamento della vita -cioè della medicalizzazione stessa- ad oltranza, in mezzo a flebo e macchinari dell'ultima generazione.
Ma perdendo di vista il termine finale della vita umana- perchè la morte, che ci piaccia o no, è in fin dei conti il destino di ognuno di noi- si perde di vista anche il vero valore e senso dell'esistenza. Che non è dato dai piaceri e dai divertimenti, ma proprio dal rapporto con la morte stessa. E' la morte che misura la vita: la sua elaborazione, la sua accettazione o il suo rifiuto, nel dolore come nel piacere, in pace come in guerra, alla fine sono tra le poche cose che lasciano il segno nella vita dell'uomo. E non è certo un caso che la civiltà che per definizione abolisce la morte sia una civiltà oramai incapace di creare alcunchè: pensiero, arte, letteratura...nemmeno i bambini. E una civiltà incapace di creare è una civiltà morta.