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Una palude infettata

di Luca Bonaccorsi - 15/07/2010



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Mentre l’acquitrino dolce arretra, il mare avvelenato dall’industria petrolifera entra sempre più nelle baie. Sulla spiaggia transennata, uomini in tuta bianca e mascherina antiveleni raccolgono il catrame

Chissà se almeno oggi, nel giorno della speranza, qualcuno sorriderà a Grand Isle, Louisiana. Il paese, come chiamano qui questo gruppo di case aggrappate all’unica lunga strada percorsa senza sosta da enormi pick up trucks, è stato tra i primi ad essere invaso dal petrolio. Grand isle è una lunga striscia di sabbia bianca tra il golfo e la laguna interna, mecca di gamberetti e pellicani.
 
Anche per questo quando il petrolio è arrivato ha fatto subito notizia: la spiaggia bianca inzaccherata di bitume era drammaticamente fotogenica. Oggi sembra un paese che ha subito un attacco nucleare. Transennata la costa, uomini in tuta bianca e mascherina antiveleni lavorano sul bagnasciuga, ormai lontano dagli occhi indiscreti della stampa. Camion militari si muovono su e giù per l’unica, inevitabile strada. L’anno scorso, in questi giorni, Grand Isle si sarebbe presentata in tutta la sua contraddittoria bellezza. Per arrivarci da New Orleans si guida per chilometri e chilometri attraverso la Louisiana marsh, la palude, bellissima, di acqua fresca, di erbe verdi, di vita che ribolle. Si passa accanto ai canali delle casette di pescatori alla Forrest Gump, piccoli imprenditori indipendenti, piuttosto poveri, che ogni giorno durante l’estate escono a cercare ostriche e gamberi. Hanno la barchetta ormeggiata davanti alle case pezzenti di legno. Col divano vecchio sul prato. La roulotte abbandonata, ormai luogo di gioco per bimbi e cani. La palude è di una bellezza ipnotica e serena.
 
Il paese invece è la summa di tutte le contraddizioni d’America. Da una striscia di spiaggia bianca nell’habitat più fecondo del pianeta ti aspetteresti una consolidata cultura ambientalista. Questa invece è la louisiana repubblicana, liberista, cafona e petroliera. Un terzo degli abitanti lavora alle piattaforme o alle raffinerie disseminate nell’area. Grand Isle non è chic, non lo è mai stata. È luogo di operai, al massimo qualche seconda casa borghese sulla spiaggia. Al mare ci arrivi superando una duna farinosa. E li capisci dove sei, e perché i ricchi non ci vengono qua. La linea dell’orizzonte è costituita da un numero indefinito di piattaforme petrolifere. Sono tutte li, in fila a occupare il mare più trivellato del pianeta. I numeri dell’attività petrolifera nel Golfo fanno paura: sono oltre 5mila i pozzi attivi che succhiano greggio dal fondo di questo mare groviera. 27mila quelli fermi, esauriti, in riparazione o smontaggio. Il corollario dell’intensissima attività estrattiva è questo entroterra disseminato di raffinerie, depositi, tubazioni, impianti.
 
E poi c’è la pesca. A Grand Isle due terzi della popolazione vive di pesca. Non sorprende quindi che la reazione della gente qui sia confusa, rabbiosa, persino schizofrenica. Ce l’hanno con la Bp perché gli ha devastato la spiaggia (e la stagione turistica) e, assai più grave, gli ha distrutto la stagione di pesca. Il divieto a pescare è dei primi di maggio. Tra maggio e settembre i pescatori cercano di tirare su quei 20-30mila dollari che gli permetteranno di campare un altro anno. Saltare una stagione vuol dire fallire e dover migrare. Bp però è anche un grande datore di lavoro. Anzi oggi è l’unico. Ha assunto tutti i disoccupati, locali e non. Ha occupato tutti gli hotel con le maestranze. Affittato tutti i pescherecci, che ora vagano come ubriachi nel Golfo trascinando inutili filtri raccogli petrolio. Insomma Bp la odiano, ma non possono farne a meno. Odiano il petrolio che li avvelena ma non vogliono la moratoria sulle perforazioni in una specie di sindrome di Stoccolma elevata a potenza.


Su una cosa hanno le idee chiare. Odiano Obama, il democratico, l’ambientalista che farfuglia sulla fine dell’era del petrolio. Non importa quante migliaia di barche, militari, soccorsi arrivino. Il presidente è l’incarnazione della burocrazia inefficiente di Washington. Va forte invece il governatore Jindall che, compresa l’entità “politica” della partita, spara quotidianamente sul governo federale e invoca la costruzione di una fantomatica “barriera” di rocce e sabbia per proteggere il delta del Mississipi. La retorica del muro funziona anche qui. Quando c’è un pericolo costruisci un muro contro il nemico. Vale a New Orleans come a Lampedusa, per Jindall come per Maroni. Neanche per un attimo qui a Grand Isle, paese di pescatori devastato dal petrolio, hanno pensato che il nemico non viene dal mare. Neanche per un attimo hanno pensato che il nemico è qui tra loro.
 
In queste casette bizarre fatte di materiali scadenti con l’aria condizionata a -10 gradi. In questi camioncini enormi a 8 cilindri per percorrere la stessa striscia d’asfalto, giorno dopo giorno. Anche per comprare il giornale (l’unico, il Times Picajun) cento metri più in là. In questi enormi deretani pieni di gamberi fritti, carne fritta, pane fritto, patate fritte. Questo è il paese che consuma più energia pro-capite nel mondo. È grazie agli americani che non si raggiungerà mai un accordo per combattere i cambiamenti climatici. Non cambieranno idea. «We need oil» dice sgranando gli occhi anche Janine, cameriera superstar chiacchierona del Sandfish Diner. È a fine turno, si scusa: «No, non serviamo frutta noi». Raccoglie la mancia e trascina sorriso e sederone sul suo camioncino.
 
Anche se il nuovo tappo funzionasse qui a Grand Isle, paese di pescatori e operai del petrolio, non cambierà molto. I soccorsi stanno ripulendo la spiaggia con il passino. Se arriverà ancora petrolio la ripuliranno ancora. E continueranno a costruire boe e barriere illudendosi di poter fermare la sozzura che porta il mare (m non smetteranno di sporcarlo). Continueranno a devastare la palude dolce, che arretra a ogni stagione mentre il mare malato, sporco e sterile entra nelle baie interne. Continueranno a cercarlo fuori il loro nemico. E continueranno a sbagliare.