Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Che cosa possiamo chiedere alla storia?

Che cosa possiamo chiedere alla storia?

di Luca M. Possati - 15/07/2010


A confronto con Paul Ricœur

 


 

Nel lungo cammino della riflessione filosofica sulla storia e, in particolare, su quella specifica attività che possiamo chiamare il ‘fare storia’ Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874) di Nietzsche può considerarsi a ragione un punto di non ritorno, uno spartiacque decisivo. Nella prospettiva di una trasformazione della storia in creazione artistica si esprime la rivolta dell’antistorico (unhistorisch, überhistorisch) contro l’eccesso di storia, contro la malattia storica, il filisteismo che provoca la nausea, quella ‘virtù ipertrofica’ che soffoca la forza plastica (plastische Kraft) della vita. La stessa forza è evocata fin dalle prime pagine della seconda Considerazione inattuale nel quadro della contrapposizione tra l’animale-bambino felice perché incapace di ricordare e l’uomo maturo segnato dalla coscienza del tempo, dal carico del passato che lo tiene legato come una catena e che perciò “lo schiaccia a terra e lo piega”.

Ma perché proprio un punto di non ritorno? In queste righe Nietzsche evoca un interrogativo con il quale tutti gli storici e i filosofi della storia a lui successivi non potranno non fare i conti: è in generale preferibile una ricostruzione fedele dei fatti, per quanto spiacevole o addirittura traumatica questa possa essere, o una finzione socialmente utile, ossia in grado, per quanto falsa e tendenziosa, di preservare e persino di rafforzare l’equilibrio sociale (o individuale) e l’identità collettiva (o personale)?

Al centro non c’è soltanto il classico problema dei rapporti tra la storia e la finzione letteraria. Uno dei principali obiettivi polemici della seconda Inattuale è la visione storico-teologica di Ranke: il valore dello studio della storia non sta – afferma Nietzsche – nella conoscenza di una verità imparziale e autonoma, ma nella sua utilità vitale. Non è vero che, come credeva Ranke, nelle singole realtà storiche – i popoli, gli Stati, ecc. – vi siano altrettante incarnazioni di una verità assoluta e unica, una trama universale che solo Dio conosce e vuole. Non è forse il ricordo un’assenza di vita? La rievocazione del passato fine a se stessa non conduce forse all’infelicità, a una sorta d’insonnia che si contraddice? La questione non è quella di cercare una presunta verità della storia, una certa coesione dei fatti, ma quella di capire che cosa possa far fruttificare l’azione, la vita, le potenzialità creative dell’atto.

In realtà il rovesciamento operato nella seconda Inattuale è solo uno dei molti effetti prodotti da un altro rovesciamento più profondo e radicale. La svolta sta tutta nel monito che riecheggia in Su verità e menzogna in senso extramorale (1873): «Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni […]» [1]. I tropi non costituiscono una sorta di ornamenti accessori di un discorso fondamentalmente letterale, non figurativo. I tropi sono al contrario inerenti al funzionamento più intimo e originale del linguaggio. In altri termini, non esiste un linguaggio non figurativo. L’illusione è parte costitutiva – se non la parte più essenziale – di ogni atto di dire. Inevitabile che la storia, intesa come storio-grafia, risulti letteralmente travolta da una tanto drastica ‘riduzione tropologica’. La funzione della storia come illusione sarà perciò soltanto quella di un mero espediente al servizio della conservazione della vita? E perché chiedere di più alla storia?

È una strada complessa, quella tracciata da Nietzsche, una strada che assume direzioni impreviste e che, nelle sue tante diramazioni, finisce per intersecarne altre lontane, anche fruttuosamente, come dimostra l’opera di Hayden White, Metahistory (1973), dove la storia è considerata in tutto e per tutto retorica e non scienza: la spiegazione storica è l’effetto di una strategia retorica priva di qualsiasi fondamento scientifico o critico, e dipendente soltanto da una scelta di carattere etico o estetico. A partire da questa tesi White compone una history of historical consciousness che attraversa con occhio narrativo e strutturale i testi di Michelet, Ranke, Tocqueville, Burkhardt, Hegel, Nietzsche, Marx, Croce [2]. Ed esempi più recenti di quest’impostazione sono i lavori di Frank Ankersmit sui rapporti tra discorso storico, narrazione e metafora nella scia di Roland Barthes [3].

Non è affatto un caso, allora, se la domanda di Nietzsche costituisce un punto di riferimento essenziale nella riflessione di Paul Ricœur nel complesso percorso tracciato ne La memoria, la storia, l’oblio (2000). Un percorso che, muovendo da una fenomenologia del ricordo e da un’epistemologia dell’operazione storiografica, giunge a un’ontologia della condizione storica segnata dal problema dell’oblio. Nell’architettura generale del testo la libera interpretazione dell’Inattuale – che costituisce il preludio all’indagine ontologica (terza parte) – viene quasi a formare una sorta di contrappunto melodico insieme all’evocazione, posta all’inizio della trattazione epistemologica (seconda parte), del mito platonico di Theuth. Alla base, infatti, sussiste sempre un solo e medesimo problema, ma “suonato” secondo registri ben diversi: «[…] della scrittura della storia, non ci dovremmo, forse, domandare se si tratti di un farmaco o di un veleno?» [4].

Con la storia, e la sua origine, Ricœur mette in questione al contempo lo statuto della memoria e della scrittura stessa. Tre poli, questi, che non si possono mai separare perché uno richiama l’altro, uno non può sussistere ed essere inteso nella sua funzionalità senza l’altro. Perché, in effetti, essi sono i tre aspetti di un enigma ancor più profondo, quello della rappresentazione del passato in quanto rappresentazione ‘presente’ di una cosa ‘assente’ e marchiata dal sigillo dell’antecedente. Nel Fedro il dio offre al re un pharmakon, una medicina che tuttavia, anziché un rimedio, si rivela un pericolo, un veleno per la sapienza e la memoria, una droga che perverte il rapporto col passato. Il re distingue infatti la vera memoria, la reminiscenza che punta dialetticamente alle idee, dal semplice richiamare alla mente, una sorta di memoria per difetto, un esercizio che si appoggia a segni esterni e sensibili, a stampelle materiali che consentono l’oblio, quindi la fine di un attivo impegno nel ricordare. I grammata dicono sempre e soltanto la stessa cosa: essi sono meccanici e ripetitivi e, per giunta, non possono difendere le tesi che esprimono. Nella sua materialità, la scrittura resta un oggetto inanimato e vuoto. D’altronde ogni testo, in quanto discorso scritto, «ha rotto i legami con il suo enunciatore; quella che un tempo chiamavo autonomia semantica del testo è qui presentata come una situazione di pericolo; il soccorso, di cui quest’autonomia lo priva, non può arrivare che dal lavoro interminabile di contestualizzazione e di ricontestualizzazione in cui consiste la lettura» [5]. Tutt’altra storia per il discorso orale, che proviene dalla memoria viva e autentica: è inscritto nell’anima e sa difendersi da solo.

Il confronto a distanza tra Platone e Nietzsche ha, nell’opera ricœuriana, un duplice effetto: sul piano argomentativo, quello di mettere in rilievo e di ordinare i termini del problema (memoria, scrittura, storia); sul piano drammatico, quello di acutizzare in qualche modo la ‘tragicità’ della situazione. Che senso ha per il nostro presente – il presente dell’azione in un contesto sociale e valoriale ben preciso, diverso da quello di altre epoche – il rapporto con il passato, sia esso declinato come anamnesi o come ricostruzione storio-grafica? E in che cosa quest’ultima, nella sua materialità di scrittura, può aiutare la prima e migliorarla, salvandola dal declino dei suoi usi in abusi? Sarebbe interessante chiedersi, inoltre, se e come la memoria personale dello storico ne influenzi la ricerca e la scrittura. Il dilemma si riduce sempre e soltanto alla domanda di Nietzsche: com’è possibile l’equilibrio di attuale e inattuale, di storico e antistorico?

Il commento all’Inattuale costituisce il preludio alla terza parte de La memoria, la storia, l’oblio in cui la risposta alla domanda sulle condizioni di possibilità del comprendere storico si articola su due versanti, uno critico (filosofia critica della storia) e uno ontologico (ontologia della condizione storica). Perno centrale della riflessione ricœuriana è il confronto con la trattazione della temporalità in Heidegger. Ed è infatti nel segno di Heidegger che l’indagine ontologica si conclude con una meditazione sull’oblio, quell’oblio ‘di riserva’ – scrive Ricœur – che rappresenta non un pericolo ma una risorsa. L’oblio non è solo una minaccia inquietante, l’emblema della vulnerabilità della nostra condizione storica, un attentato all’affidabilità della memoria, ma anche una memoria riconciliata con se stessa e con la storia. L’oblio nel suo senso autentico è infatti il perdono, nozione rischiosa – avverte Ricœur – perché introduce una dimensione di colpevolezza estranea all’indagine eidetica e trascendentale, ma che diventa al contempo «l’orizzonte escatologico dell’intera problematica della memoria, della storia e dell’oblio» [6]. Sarà forse il perdono, proprio in virtù di questa sua funzione conclusiva, la forza insieme antistorica e sovrastorica che andiamo cercando?

Al di là di queste considerazioni molto, e forse troppo, generali e ipotetiche, se adesso ci spostiamo all’interno di questo orizzonte escatologico del perdono, possiamo notare come il rapporto tra memoria, scrittura e storia sia pensato da Ricœur – in termini più particolari e tecnici – con gli strumenti di una teoria ermeneutica che tende ad allentare, a dispetto di qualsiasi forma di decostruzionismo, ogni possibile tensione tra linguaggio ed essere, tra testo e vita, come dimostra il lungo confronto tra il tempo reale e il narrativo in Tempo e racconto, dove «la posta in gioco […] è l’invenzione del tempo storico – scrive Domenico Jervolino – che è il tempo umano nel senso più proprio, invenzione nel senso duplice della parola “invenire”: come scoperta e come creazione» [7].

Ammesso, ma non concesso, che l’atto narrativo sia essenzialmente mimesis praxeos, cioè imitazione creativa di azioni o del dominio della comprensione pratica – un’imitazione che si dà attraverso un testo fatto per essere letto – si tratta anzitutto di capire come ciò avvenga: la trasposizione di un agire nel dire e nello scrivere e, viceversa, la trasposizione dello scrivere in un nuovo agire, in un agire creatore ispirato dal testo. Si tratta però di capire anche come avvenga questa doppia trasposizione, qualora l’agire in questione – le res gestae – non sia affatto il prodotto di un’immaginazione sciolta da qualsivoglia costrizione, ma un agire che al contempo si caratterizza come un esser-stato, cioè qualcosa di realmente accaduto nel passato e che non potrà più ripetersi come tale, e un non-essere-ancora-realizzato, ossia la dimensione del progetto da compiere, del futuro da plasmare nell’ora concreto.

Se le cose stanno così, dice Ricœur, il processo mimetico all’origine del narrativo come tale avrà un andamento circolare, composto precisamente da tre fasi: mimesis I-II-III. Anzitutto la configurazione narrativa, mimesis II, che corrisponde all’innovazione semantica, all’invenzione della trama. È la dimensione testuale, la costruzione dell’oggetto linguistico, l’interruzione del corso dell’azione reale. Prima e dopo di essa si trovano mimesis I e mimesis III, che rappresentano rispettivamente quel che si trova a monte e quel che si trova a valle della configurazione: la precomprensione della vita pratica (mimesis I, ossia la nostra elementare capacità di riconoscere e pensare un’azione distinguendola da qualsiasi altro evento) e la dimensione degli effetti dell’opera sul lettore (mimesis III), quel che Ricœur chiama ‘rifigurazione’ o ‘riconfigurazione’ o – in scia a Gadamer – la ‘fusione degli orizzonti’. La mediazione tra il tempo e il racconto non si limita soltanto a mimesis III, ma passa attraverso tutti i livelli rafforzandosi poco per volta. Così dalla prassi si torna alla prassi attraverso la sospensione della prassi, la trasfigurazione di essa nell’opera [8]. Il tempo narrativo si costituisce fenomenologicamente nell’intermezzo aperto dal tempo mimetico, vale a dire nel decorso che va da mimesis I a mimesis III attraverso mimesis II. Su questa hyle dinamica s’innestano e giocano le costruzioni temporali del narratore.

La tesi di Tempo e racconto è che tra narratività e temporalità esiste una correlazione «che non è puramente accidentale, ma presenta una forma di necessità transculturale» [9]. In altre parole, «il tempo diventa umano nella misura in cui è articolato in una maniera narrativa, e il racconto raggiunge il suo significato pieno quando diventa una condizione dell’esperienza temporale» [10]. I due poli si costruiscono reciprocamente: «La mia prima ipotesi di lavoro è che narratività e temporalità siano strettamente legate, così strettamente come possono esserlo, secondo Wittgenstein, un gioco di linguaggio e una forma di vita» [11]. Così la narrazione s’intromette tra il soggetto e il tempo, costringendo – in una prospettiva fenomenologica – a ripensare il riflettere della coscienza su se stessa e sul suo agire nel mondo. Nell’atto della lettura la forza rivelante e trasformante della narrazione non si volge verso tutta l’esperienza, ma solo verso un suo aspetto circoscritto: «l’esperienza del tempo vitale [l’expérience du temps vital [12]. È questo il senso ultimo dell’appropriazione come ‘rifigurazione’: il racconto ha la capacità di modellare la nostra esperienza temporale, la nostra storicità, svelandoci aspetti di essa irraggiungibili sul piano della semplice teoresi. Smontando e ricostruendo il vissuto temporale in modi sempre nuovi e diversi, il racconto di finzione e la storiografia ci offrono insieme le giuste risorse per vivere una “esperienza fittizia del tempo” in grado di svelare il non-detto e i limiti dell’analisi intenzionale.

Seguendo questa falsariga, nella quarta parte di Tempo e racconto Ricœur si spinge ancora più avanti. Come dimostrano Agostino, Kant, Husserl e Heidegger, nella sua lunga storia la filosofia del tempo non ha fatto altro che produrre dicotomie insuperabili: tempo del mondo o tempo dell’anima; istante puntuale o presente vivente; tempo intuibile o tempo condizione a priori di ogni genere d’intuizione, e dunque per principio non intuibile. Anche se può diventare oggetto di analisi filosofica, l’esperienza temporale resta analizzabile solo fino ad un certo punto, «fino al punto che il prezzo da pagare in termini di aporie si ingrandisce con la penetrazione dello sguardo» [13]. Ciò si riassume in una delle tesi centrali di Tempo e racconto, quella per cui «non c’è, in Agostino, una fenomenologia pura del tempo. Forse non ce ne sarà mai una dopo di lui» [14], dove per ‘fenomenologia pura del tempo’ Ricœur intende «un’apprensione intuitiva della struttura del tempo che non soltanto possa essere isolata dalle procedure di argomentazione attraverso le quali la fenomenologia s’impegna a risolvere le aporie ereditate da una tradizione precedente, ma anche che non paghi le sue scoperte al prezzo di nuove aporie sempre più gravi» [15].

L’ambizione ultima di Tempo e racconto è offrire alle aporie della fenomenologia una soluzione poetica, una replica a livello dell’immaginazione e non del concetto. Non si tratta di una comoda concessione all’irrazionalismo, ma del riconoscimento che l’atto stesso di raccontare una storia si costituiscein base a quelle aporie. Ciò presuppone che l’aporia stessa sia traducibile e sia tradotta sul piano immaginativo. La mise en intrigue è appunto una trasposizione immaginativa dell’aporia che già – in un certo senso – ne prospetta la soluzione. Mentre il racconto storico cerca una conciliazione pacificante all’inconciliabilità di principio tra tempo fisico e tempo vissuto, creando un terzo tempo che media tra i due – appunto il tempo storico –, il racconto di finzione risponde invece dispiegando ‘giochi sul tempo’, variazioni immaginative che hanno l’effetto di ravvivare i paradossi, di accrescerne lo stridore esplicitando al contempo i limiti della analisi  fenomenologica. La narrazione è l’aporia in atto.

Focalizziamo lo sguardo sulla scrittura della storia. Il discorso storico va “calato” in questo circolo della prassi mediato dal linguaggio (mimesis I-II-III). Esso si presenta come una sorta di crocevia tra un passato avvolto dal mistero – quello stesso mistero annunciato nell’esergo de La memoria con la citazione di Jankélévitch – ma che chiede, a dispetto di ciò, di essere ricostruito e ricompresso con fedeltà, e il futuro nel quale un tale discorso proietta il lettore, un futuro che non sta nel testo ma che il testo provoca, suggerisce, orienta. Futuro che in fin dei conti non è solo ‘orizzonte di attesa’, nel senso descritto da Koselleck [16], ma più precisamente l’azione politica stessa, nei termini illustrati dallo splendido saggio Il paradosso politico, scritto da Ricœur all’indomani dei drammatici fatti di Budapest 1956 [17]. Per questo motivo la storia non è e non può essere semplice conoscenza fredda e imparziale. È qualcosa di più, poiché essa implica una dimensione etica – il debito che lo storico contrae con i morti, la responsabilità di fronte alle generazioni anteriori – e una dimensione ontologica – noi facciamo storia perché siamo storici. Per questo, ancora, lo statuto della storia è estremamente flou – scrive Ricœur – ossia sfumato, incerto, vago, indefinito, e quindi a rischio di abusi e deformazioni.

Una delle tesi principali di Tempo e racconto è che esiste una filiazione che collega, attraverso un nesso fondativo, la storia alla comprensione narrativa, cioè la nostra elementare capacità di seguire un racconto dall’inizio alla fine, e che questa filiazione è una derivazione indiretta e si realizza mediante specifiche procedure di connessione fornite dalle metodologie delle scienze storiche. «La mia tesi si basa sull’asserzione di un legame indiretto di derivazione – un lien indirect de dérivation – grazie al quale il sapere storico procede dalla comprensione narrativa senza perder nulla della sua ambizione scientifica» [18].

Tra la conoscenza storica e la competenza narrativa esiste una rottura insanabile. Gli empiristi logici (Hempel, Gardiner) hanno dimostrato con precisione che la storia spezza intenzionalmente ogni legame con il racconto su tre livelli: nelle procedure esplicative, negli oggetti trattati e nelle temporalità. Ma perché, allora, continuare a parlare di una derivazione? E in che senso questa si definisce indiretta?

Benché la triplice frattura tra la storia e il racconto possieda l’indiscutibile merito di valorizzare la scientificità della prima, essa comporta al contempo il sorgere di una difficoltà. È un dato evidente: in storia non esiste un solo tipo di spiegazione, di oggetto e di temporalità; «la grande massa di lavori storici si dispiega in una regione mediana, in cui si alternano e si combinano, in maniera talvolta aleatoria, modi disparati di spiegazione» [19]. Ogni testo storiografico è un discorso fondamentalmente equivoco, composto da elementi eterogenei, ripresi da altri settori disciplinari, talvolta lontanissimi fra loro. Il paradosso è che questo discorso, nonostante una tale eterogeneità, presenta un senso unitario, senso che appunto definiamo “storico”, designando così un’unità diversa da quella di un’analisi sociologica, di una ricerca demografica, di una previsione economica o di un’indagine statistica.

La frattura epistemologica chiede d’essere colmata, ed esattamente qui interviene l’ipotesi ricœuriana: un testo storico possiede un proprio senso unitario per il fatto che tutti i suoi diversi componenti sono costruiti sulla – e rinviano alla – comprensione narrativa, cioè a una preliminare sintesi dell’eterogeneo che opera a un livello trascendentale e che, a sua volta, poggia sulla comprensione pratica. Indipendentemente dalle singole strategie argomentative, oggetti o temporalità utilizzati, l’unità del discorso storico è garantita dalla presupposizione di un’unità di tipo narrativo, dall’azione di una sintesi dell’eterogeneo. In breve, la mise en intrigue rende produttive le equivocità constatate.

Ma, se le cose stanno così, come pensare insieme la frattura e l’esigenza della sua composizione?

«La soluzione del problema dipende da quello che possiamo chiamare un metodo di interrogazione a ritroso [une méthode de questionnement à rebours]. Questo metodo, praticato da Husserl nella Krisis è di competenza di una fenomenologia genetica nel senso non di una genesi psicologica, quanto piuttosto di una genesi del senso. I problemi che Husserl si poneva a proposito della scienza galileiana e newtoniana noi ce li poniamo a proposito delle scienze storiche. Ci interroghiamo, a nostra volta, su quella che chiamerò ormai l’intenzionalità della conoscenza storica o, più sinteticamente, l’intenzionalità storica. Intendo con questa formula il senso dell’intenzione noetica che costituisce la qualità storica della storia e la preserva dal dissolversi nei diversi saperi ai quali la storiografia si congiunge, sposandosi per interesse all’economia, alla geografia, alla demografia, all’etnologia, alla sociologia delle mentalità e delle ideologie» [20].

Si assiste, in queste righe, a uno spostamento di livello essenziale alla coerenza della tesi ricœuriana. Infatti, se la storia ‘a livello epistemologico’ resta fondamentalmente un discorso molto diverso dal semplice racconto, tuttavia ‘a livello fenomenologico’, cioè dal punto di vista dell’intenzionalità all’opera in questo discorso, sono rinvenibili in essa delle affinità non con una sorta di originario racconto incompleto o cronaca primitiva, ma con la comprensione narrativa.

Ora, se ci spostiamo su un terzo piano, il piano ontologico – che per Ricœur ha sempre una funzione, più o meno esplicita, di fondazione rispetto al piano epistemologico – se passiamo così a considerare la realtà che il discorso storico, in quanto discorso narrativo, dice e porta alla luce, siamo costretti a prendere in considerazione un altro concetto fondamentale, quello di ‘traccia’. Marc Bloch, seguendo in questo François Simiand, ha definito la storia una conoscenza per tracce. In Tempo e racconto Ricœur riprende la definizione e, parlando della fondazione della conoscenza del passato, stabilisce la triade: archivio-documento-traccia. Qualsiasi ricerca storiografica degna di questo nome poggia su un rinvio a questa triade, e da tale rinvio trae la propria autorità. Ogni residuo del passato, in effetti, può dirsi una traccia, qualcosa che rinvia a una fase temporale anteriore perché causato da essa, qualcosa che perciò ci parla, ci dà informazioni e trasmette un senso. Tuttavia, non ogni traccia può dirsi documento, poiché, a rigore, documento si definisce soltanto la traccia ‘animata’ dall’interrogazione dello storico, quella traccia che viene utilizzata dal ricercatore per confermare o smentire un’ipotesi all’interno di un quadro investigativo preesistente. Il documento, inoltre, rinvia all’archivio e l’archivio all’istituzione che lo stabilisce e lo ordina.

La traccia sta alla conoscenza storica come l’osservazione alle scienze naturali. E tuttavia, la prima impone un paradosso inesistente per la seconda: da un lato, essa «è visibile qui e ora, come vestigio, come segno», dall’altro, «c’è la traccia perché in precedenza un uomo, un animale è passato di là; una cosa ha agito [une chose a agi] […] il passaggio non è più, ma la traccia resta […]» [21]. La traccia è il segno presente di un passato; la presenza di una cosa assente. Il rapporto di significanza (il rinvio a un fatto anteriore) è al contempo permesso e oscurato dal rapporto di causalità (l’effetto del passaggio di qualcuno o qualcosa). Non siamo quindi al cospetto di un segno come un altro, ma di un ‘effetto-segno’. Prendendo ispirazione da Heidegger e soprattutto da Lévinas – malgrado quest’ultimo ne abbia trattato in un contesto molto differente – Ricoeur afferma che la traccia è un segno che significa senza far apparire. Com’è possibile?

Quando considera delle cose come tracce di un certo passato, lo storico risponde all’aporia e rifigura il tempo. Mediante la traccia – opportunamente filtrata e provata con gli strumenti della critica – instaura un rapporto con questo passato non più soltanto formale – come nei precedenti connettori – ma che viene definito da Ricoeur ‘rappresentanza’ (représentance) o ‘luogotenenza’ (lieutenance), nel senso di uno ‘stare al posto di’, un qualcosa che non è più ma è stato. In Tempo e racconto la rappresentanza si configura come una complessa operazione di pensiero articolata in tre momenti che ricalcano i ‘grandi generi’ del Sofista. Quando noi diciamo qualcosa di sensato sul passato a partire da presunte tracce di esso, pensiamo questo passato sotto il segno delle categorie del Medesimo, dell’Altro e dell’Analogo. Ogni volta che l’operazione storiografica si riferisce al passato, essa è dapprima “identificazione” (rieffettuazione del passato), “differenziazione” (riconoscimento di un’alterità, restituzione di una distanza temporale) e infine “analogia” (relazione metaforica). Per «rispondere all’obiezione di artificio» [22], Ricoeur fa corrispondere a ciascuno dei momenti della rappresentanza una particolare filosofia della storia.

Dunque, il discorso storico, in forza delle tracce di cui si serve, vuole dire le cose come sono realmente accadute. Questo ‘come’ha una valenza al contempo retorica e ontologica; instaura un’analogia metaforica che sintetizza essere e non essere, ‘vedere come’ ed ‘essere come’ – si pensi a «l’esplicitazione ontologica del postulato della referenza metaforica» in La metafora viva [23]. L’esser stato del passato è ridescritto – di qui gli scambi continui con la letteratura e l’immaginario [24] – come se fosse questa rappresentazione narrata, questo particolare intreccio. Ne esce trasformato non l’esser stato in quanto tale, l’irreversibile, bensì il suo senso che si rinnova in continuazione.

In La memoria, la storia, l’oblio Ricœur introduce un elemento nuovo e rivoluzionario rispetto a quanto detto in Tempo e racconto: la testimonianza, la parola del testimone che riferisce ciò che ha visto e vissuto – più o meno direttamente – e che chiede d’essere creduto. Oltre a essere il punto di passaggio dalla memoria (orale) alla storia (scritta), la testimonianza (raccolta, registrata, conservata, discussa, tramandata, ecc.) dà una chiave nuova per affrontare vecchi problemi: la vexata quaestio circa la verità del testo storico si pone non più nei termini della corrispondenza e della somiglianza, ma in quelli della coppia fedeltà/sospetto. Ed è un cambio di registro essenziale.

«Io c’ero», afferma il testimone. Frase semplice, quasi banale, ma che ad attenta lettura fenomenologica si rivela ricca di senso, perché dice tre cose: 1) la realtà dell’evento passato di cui il testimone riferisce raccontandolo; 2) la presenza del testimone sul luogo e nel momento in cui è accaduto l’evento in questione; 3) l’autodesignazione del testimone quale testimone di quell’evento. Sotto questo profilo, la testimonianza presenta un valore performativo molto simile a quello della promessa: testimoniando, in questo stesso atto, il testimone si proclama come tale: lega quell’evento specifico alla sua storia personale, mettendo così in gioco se stesso e le proprie capacità. È come se la realtà e la verità della sua vita – o meglio della sua identità narrativa – venissero a sostenere la realtà e la verità di quel singolo evento e del racconto che ne viene offerto. Se quell’evento è accaduto, lo attesta in primo luogo la presenza del teste, il suo ricordo e la sua abilità nel ricostruirlo con sincerità.

Ma il testimone non dice soltanto questo. Egli attesta e si autoattesta in vista di un altro obiettivo: essere creduto dagli altri che ascoltano la sua testimonianza. Essere riconosciuto: «Credetemi!», dice, infatti, al suo pubblico. È al tempo stesso una pretesa e una richiesta di confronto critico, perché «è davanti a qualcuno che il testimone attesta la realtà di una scena alla quale dice di aver assistito, eventualmente come attore o come vittima, ma, nel momento della testimonianza, in posizione di terzo rispetto a tutti i protagonisti dell’azione» [25]. Il vero testimone non fugge di fronte a chi indaga la veridicità delle sue parole. Il vero testimone non teme il confronto con altri testimoni dello stesso evento; è sempre disponibile a ripetere la testimonianza, a mantenerla nella sua integrità e attendibilità nonostante l’incedere del tempo. Ne emerge uno statuto dialogico della testimonianza che si realizza davvero soltanto nella dialettica con l’ascoltatore critico. E Ricœur non ha paura di generalizzare, sostenendo che un tale processo di accreditamento sta alla base della coesione sociale e quindi rappresenta una «istituzione naturale, anche se l’espressione appare come un ossimoro» [26]. Il testimone contribuisce alla sicurezza della convivenza, che, infatti, si fonda sulla fiducia nella parola altrui.

Questa fenomenologia della testimonianza è il punto di partenza per recuperare e superare la proposta d’interpretare il legame di rappresentanza nei termini di un’analogia o, meglio, in quelli della triangolazione medesimo-altro-analogo. In un articolo molto importante, La marque du passé (1998) [27] Ricœur sottolinea esplicitamente il cambio di registro: «Oggi tenterò di salvare questo concetto di rappresentanza o di luogotenenza, avvicinandolo al “come” della testimonianza piuttosto che al “come” della metafora […]. La rappresentanza, dirò oggi, esprime la mescolanza opaca del ricordo e della finzione nella ricostruzione del passato. Per le stesse ragioni, oggi meno che nel passato mi aspetterò di ricevere lumi dalla dialettica tra lo stesso, l’altro e l’analogo, attraverso il quale io tentavo di articolare concettualmente la relazione di rappresentanza» [28].

Bisogna superare – questo l’intento di Ricœur – la prospettiva della somiglianza, ossia la tendenza a stabilire un rapporto di corrispondenza, di fascinazione in un certo senso, tra il testo e il passato che esso pretende di rappresentare. La testimonianza offre un nuovo paradigma: non più l’eikon (nel senso di un’immagine-copia), ma l’attestazione, non più la ricerca della corrispondenza ma il valore di un atto di linguaggio, quella sorta di credenza che definisce lo statuto epistemologico dell’ermeneutica dell’«io sono» [29]. «Mi è accaduto di dire – scrive Ricœur – che non abbiamo niente di meglio della memoria per assicurarci della realtà dei nostri ricordi. Diciamo ora: non abbiamo niente di meglio della testimonianza e della critica della testimonianza per accreditare la rappresentazione storica del passato» [30].

Sul piano ontologico, diremo che la rappresentazione storica mira a un’assenza, «ma la cosa assente si sdoppia essa stessa in scomparsa ed esistenza al passato» [31]. Nel senso che il passato può essere inteso in due prospettive distinte: ‘quel che non è più’ ma che, nonostante tutto, ‘è stato’.La positività dell’esser stato, nonostante la negatività del non essere più, è quel che giustifica e rende possibile la testimonianza e l’istituzione della rappresentanza.

Ciò nonostante, il trittico testimonianza/rappresentanza/esser-stato, che viene quasi a sovrapporsi, come in uno strano e inatteso gioco degli specchi, al precedente trittico memoria/scrittura/storia, è più l’indice di un problema che di una soluzione. Lo dimostra la lunga e affascinante nota che conclude la seconda parte de La memoria. Una nota la cui importanza è stata spesso sottovalutata dai commentatori, ma nella quale Ricœur, componendo una piccola storia lessicale e semantica del termine repraesentatio, offre in filigrana uno schema dei nodi teorici al centro della sua meditazione. La rappresentanza, in quanto Vertretung (représentation suppléance), così come il termine viene usato da Gadamer in Verità e metodo in coppia con Darstellung, indica la ‘crescita di essere’ intrinseca alla Bild, quell’aumento di essere che la creazione artistica promuove rispetto all’originale. C’è dunque l’elemento della finzione, l’augmentation iconique di cui parla lo stesso Ricœur prendendo in prestito il termine da François Dagognet [32]: la rappresentanza è sempre e comunque invenzione, arte, figurazione, mise en intrigue che supera il dato (in questo caso la traccia, l’archivio, la testimonianza) e che in tal modo ridescrive quest’ultimo e il nostro mondo.

Ma è questo il punto. È questo insieme la forza e la debolezza della storia. La perdita del contatto intuitivo con l’originale è ripagata dalla lotta critica della testimonianza e, più in profondità, dalla crescita di essere che l’opera storica apporta nella sua letterarietà. Il compito dello storico non sarà tanto quello di restituire il passato nella maniera più fedele possibile, quanto quello di dare un nuovo senso alle tracce che possediamo, alle immagini e ai documenti che una tradizione ci ha lasciato. Sarà quello, infine, di ridescrivere la nostra condizione storica, di ridefinire i rapporti tra spazio di esperienza e orizzonte di attesa, di riorientare l’agire politico. Torniamo così alla domanda di Nietzsche: può la storia servire la vita?

Alla fine di Tempo e racconto Ricœur scrive: «Quel che Nietzsche ha osato concepire è l’interruzione che il presente vivo opera nei confronti, se non dell’influsso del passato, quanto meno del fascino che esercita su di noi, attraverso la stessa storiografia, in quanto realizza e giustifica l’astrazione del passato per il passato» [33]. Ecco dunque il succo dell’insegnamento dell’Inattuale da cui abbiamo preso le mosse: lo statuto del presente nei confronti della storia.

«Da un lato il presente storico è, ad ogni epoca, il termine ultimo di una storia compiuta, a sua volta fatto compiuto e fine della storia. Dall’altro, ad ogni epoca, il presente è – o almeno può divenire – la forza che inaugura una storia da fare. Il presente, nel primo senso, dice l’invecchiamento della storia e fa di noi gente venuta tardi; nel secondo, ci qualifica come primi venuti» [34].

 
Articolo online dal 30 giugno 2010
 

Note

[1] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in F. Nietzsche, Opere 1870/1881, trad. it. di S. Givone, Newton Compton, Roma, 1993, p. 96.

[2] H. White, Metahistory. The Historical Imagination Nineteenth-Century Europe, The John Hopkins University Press, Baltimore and London, 1973 [Retorica e storia, tr. it. di P. Vitulano, Guida, Napoli, 1978].

[3] F. R. Ankersmit, Narrative Logic: A Semantic Analysis of the Historian’s Language, M. Nijhoff, La Haye, Boston, London, 1983.

[4] P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, trad. it. di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 199 [La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris, 2000].

[5] Ivi, pp. 201-202.

[6] Ivi, p. 413.

[7] D. Jervolino, Ricœur e il pensiero della storia, «Per la filosofia», 2004, p. 48.

[8] Cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto I, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1983, pp. 91-139 [Temps et récit 1, Seuil, Paris, 1983].

[9] Ivi, p. 91.

[10] Ibidem.

[11] P. Ricœur, La fonction narrative et l’expérience humaine du temps, «Archivio di filosofia», 1 (1980), p. 343.

[12] P. Ricœur, Filosofia della volontà 1. Il volontario e l’involontario, trad. it. di M. Bonato, Marietti, Genova, 1990, p. 426 [Philosophie de la volonté 1. Le volontaire et l’involontaire, Aubier, Paris, 1950].

[13] P. Ricœur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, trad. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1998, p. 82 [Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris, 1995].

[14] P. Ricœur, Tempo e racconto I, op. cit., p. 21.

[15] Ivi, p. 134.

[16] Cfr. R. Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. it. A. Marietti Solmi, Clueb, Bologna, 1986 [Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, 1979].

[17] P. Ricœur, Le paradoxe politique, «Esprit», 25.5 (1957), pp. 721-745.

[18] P. Ricœur, Tempo e racconto I, op. cit., p. 144.

[19] P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 263.

[20] P. Ricœur, Tempo e racconto I, op. cit., pp. 143-144.

[21] P. Ricœur, Tempo e racconto III, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1988, p. 183 [Temps et récit, Seuil, Paris, 1985].

[22] Ivi, p. 216.

[23] Cfr. P. Ricœur, La metafora viva, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1981, pp. 401-417 [La métaphore vive, Seuil, Paris, 1975].

[24] Sul tema dell’incrocio tra storia e finzione cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto III, op. cit., pp. 279-295.

[25] P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 205.

[26] Ivi, p. 206.

[27] P. Ricœur, La marque du passé, «Revue de métaphysique et de morale», 1998, pp. 7-31. L’articolo è apparso in traduzione italiana nel volume P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, introduzione di R. Bodei, trad. it. di N. Salomon, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 3-45. Il brano citato si trova alle pp. 16-17.

[28] Ivi, p. 15.

[29] Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, trad. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993, p. 98 [Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990]: «L’attestazione si oppone, fondamentalmente, alla nozione di epistéme, di scienza, considerata quale sapere ultimo e autofondante. Proprio in questa opposizione, essa sembra esigere meno rispetto alla certezza connessa alla fondazione ultima. L’attestazione, in effetti, si presenta innanzitutto come una sorta di credenza. Ma non si tratta di una credenza dossica, nel senso in cui la doxa – l’opinione – possiede meno titoli di validità rispetto alla epistéme – la scienza, o meglio il sapere. Laddove la credenza dossica s’inscrive nella grammatica dell’ “io credo che”, l’attestazione scaturisce da quella dell’“io credo in”. Con ciò essa si avvicina alla testimonianza, come rammenta la stessa etimologia, nella misura in cui è proprio nella parola del testimone che si crede. Non si può far ricorso ad alcuna istanza epistemica più elevata della credenza, o se si preferisce, della fiducia (créance) che si annette alla triplice dialettica della riflessione e dell’analisi, dell’ipseità e della medesimezza, del se stesso e dell’altro da sé».      

[30] P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 402.

[31] Ivi, p. 404.

[32] Cfr. F. Dagognet, Ecriture et iconographie, Vrin, Paris, 1973.

[33] P. Ricœur, Tempo e racconto III, op. cit., p. 358.

[34] Ibidem.