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L’egemonia artistica di Corviale

di Stefano Serafini - 15/07/2010

Fonte: grupposalingaros

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Chi ha paura di abbattere l’ecomostro romano Nuovo Corviale, di proprietà dell’Azienda per l’edilizia pubblica? Lager “popolare”, esperimento fallito e tragico dello spirito classista nella periferia romana (due stecche a ballatoio lunghe un chilometro per 7-8500 abitanti, acqua sulle pareti interne, cemento brutalista in avanzato stato di compromissione, criminalità e abusivismo), che qualche furbo amministratore, consapevole degli stratosferici costi di manutenzione, vorrebbe rovesciare completamente sulle spalle degli inquilini con una svendita avvelenata, il “mostro” è anche un simbolo ideologico.

 

Se ne parlò fin da prima della sua realizzazione, negli anni ’70: Nuovo Corviale è un errore dagli incalcolabili costi economici e sociali. Dati alla mano, abbatterlo conviene a tutti, e negli ultimi mesi l’idea della dinamite è tornata con forza a farsi sentire. La reazione di alcune figure del potere culturale nazionale, sebbene in modo strisciante, badando bene a non entrare nel merito della questione, si è attivata

subito: pur di salvare il mostro, lasciandovi murati dentro gli abitanti, hanno proposto di vender loro gli appartamenti sottocosto (e che se la vedano poi da proprietari con il crollo delle strutture); evocato la resistenza antifascista del Karl Marx Hof di Vienna; ipotizzato un cambio di destinazione d’uso; persino inventato un “parco dell’arte” intorno alle stecche.

 

Ad es. contro l’abbattimento annunciato dall’assessorato alla casa della Regione Lazio, Giorgio Montefoschi, sul Corriere della Sera, ha proposto di “rivitalizzare” il Corviale occupandone i due piani del basamento con una sede universitaria. L’idea ha il fascino del paradosso, e l’eterno “ex assessore alla cultura” Renato Nicolini ci è andato a nozze: con un lapsus significativo ha aggiunto che il corpaccione del Corviale si salverà con «iniezioni di studenti» (e restauri della segnaletica).

Chiede perciò di sostituire parte della sua popolazione con inquilini transeunti e di certo più allegri degli attuali residenti, gli

universitari: gente giovane che va e viene, e gli rammenta i migliori anni della sua vita.

 

Dal canto loro Franco Nucci e Bonito Oliva hanno presentato in Campidoglio un “Parco Nomade” di installazioni artistiche con le quali cingere gaiamente il Serpentone, “per valorizzarlo”. Opere di autori non proprio a buon mercato, come Paladino, Botta, Fuksas, si succederanno insieme alle stagioni. C’è anche il comitato scientifico, che non abita, chissà perché, nelle case popolari che assisteranno alla kermesse.

 

Fumo per salvare a tutti i costi il simbolo (e purtroppo, col simbolo, anche gli effetti) d’un esperimento urbanistico sbagliato e terribile, in ossequio all’ideologia della classe intellettuale egemone, che definire proterva è ormai un eufemismo. Mentalità politica da deportazione-lego, colorata, spiritosa, ma non meno aberrante. Finite le brillanti citazioni sulla Vienna antifascista di Nicolini e le discettazioni sul rilancio del paesaggio di Bonito Oliva, si torna al grigiore del cemento di periferia e delle sue forme disumane, alle strutture fatiscenti, all’isolamento, a ulteriori, artificiosi esperimenti sul corpo sociale, usato come lavagnetta per il gioco del colto e buon esteta di sinistra.

 

Si parla d’arte per non parlare di “volgare” buon senso; per non ammettere che se i servizi del Serpentone non sono mai entrati in funzione lasciando gli inquilini nel deserto, se gli spazi abbandonati sono stati occupati, se gli abitanti “non hanno compreso” il progetto del geniale Fiorentino, se il cemento armato cede, non è colpa dei politici, delle ditte, dell’ignoranza – di tutti, insomma, tranne che dell’architetto e dei suoi ammiratori da salotto. La colpa è di un progetto ambizioso e sbagliato che nella sua arroganza di classe (sempre quella intellettuale egemone) non ha tenuto conto della vita.

 

Buttare altri soldi nel mercato farsesco dell’arte contemporanea, dopo i 220 milioni spesi per il Maxxi, e nelle condizioni – pagate dai suoi cittadini – in cui versa Roma, è un affronto. Di fronte a Corviale, dove la gente vive con i funghi sulle pareti di cemento sgretolate in un panopticon architettonico che divora le loro vite e milioni di euro ogni cinque-sei anni, è uno sconcio voluto.