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L'America ammaina la bandiera: la pace inquieta dell'Iraq

di Patrick Cockburn - 20/07/2010



Alla fine del mese prossimo, gli Stati Uniti ritireranno le loro truppe da combattimento dall'Iraq. Ma il Paese che si lasciano alle spalle è ancora un relitto che galleggia a malapena



Il 14 giugno di quest'anno, un interprete delle forze armate statunitensi di nome Hamid al-Daraji è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre dormiva in casa sua a Samarra, una città che si trova a poco più di 96 km a nord di Baghdad.

Sotto alcuni aspetti, nell'omicidio non c'era nulla di strano, dato che lo stesso giorno erano stati assassinati 26 civili iracheni in diverse parti del Paese. Oltre a lavorare saltuariamente per gli americani dal 2003, Daraji poteva essersi convertito di recente al cristianesimo ed essersi messo a portare imprudentemente un crocifisso attorno al collo – un gesto sufficiente a fare di lui un obiettivo nella roccaforte arabo sunnita.

A far sì che gli iracheni, assuefatti come solo alla violenza, prestassero particolare attenzione all'assassinio di Daraji è stata l'identità del suo killer. Arrestato subito dopo la scoperta del corpo, si dice che il figlio abbia confessato l'assassinio del padre, spiegando che il lavoro di quest'ultimo, e il suo cambio di religione, avevano portato una tale vergogna sulla famiglia che non c'era altra alternativa se non quella di sparargli. Un altro figlio e il nipote di Daraji sono ricercati a loro volta per l'omicidio, e tutti e tre i giovani si presume abbiano legami con al-Qa'ida.

La storia illustra a che livello l'Iraq sia tuttora un posto straordinariamente violento. Nelle ultime due settimane, senza che il mondo prestasse molta attenzione, circa 160 iracheni sono stati uccisi e centinaia feriti. Le vittime civili in Iraq sono tuttora più numerose che in Afghanistan, anche se di questi tempi quest'ultimo ha quasi il monopolio dell'attenzione dei media. Ma l'omicidio di Daraji dovrebbe instillare incertezza in coloro che immaginano che l'occupazione Usa dell'Iraq in qualche modo sia diventata positiva nei suoi anni finali, e che le truppe da combattimento americane potrebbero persino pensare di rimanere ancora in Iraq al di là della data fissata per la loro partenza, fra sei settimane, il 31 agosto. Tutti i soldati Usa che rimarranno devono andarsene alla fine del 2011, in base a uno Status of Forces Agreement firmato dal Presidente Bush nel 2008 durante i suoi ultimi giorni alla Casa Bianca.

Le truppe americane si lasciano dietro un Paese che è un relitto che galleggia a malapena. Baghdad dà l'impressione di una città sotto occupazione militare, con spaventosi ingorghi stradali provocati dai 1.500 checkpoint e da strade sbarrate da chilometri di muri anti-esplosione di cemento che strangolano le comunicazioni all'interno della città. Per molti versi la situazione in Iraq è "migliore" rispetto a prima, ma difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, dato che gli omicidi, nel periodo in cui erano al culmine, nel 2006-2007, viaggiavano sui circa 3.000 al mese. Detto ciò, Baghdad resta una delle città più pericolose al mondo, dove è più rischioso andare in giro a piedi di quanto non lo sia a Kabul o a Kandahar.

Non tutto può essere attribuito, quanto a responsabilità, all'attuale leadership politica. L'Iraq si sta riprendendo da 30 anni di dittatura, guerra, e sanzioni, e ripresa è lenta e incompleta in modo logorante, perché l'impatto dei disastri multipli che hanno colpito il Paese dopo 1980 è stato talmente grande. Saddam Hussein riversò denaro nella sua guerra con l'Iran, che non lasciò nulla per gli ospedali o le scuole. La sconfitta in Kuwait da parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti provocò un crollo del dinaro e 13 anni di sanzioni delle Nazioni Unite che equivalsero a un assedio economico. L'Iraq non si è mai ripreso da queste catastrofi. Quando le Nazioni Unite cercarono di organizzare la sostituzione delle attrezzature nelle centrali elettriche e negli impianti per il trattamento delle acque negli anni '90, le case costruttrici originali dissero che gli impianti erano talmente antiquati che i pezzi di ricambio non venivano più prodotti.

Durante le sanzioni, il governo non aveva soldi e smise di pagare i suoi funzionari, che pertanto facevano pagare i loro servizi. Di questi tempi, prendono buoni stipendi, ma la vecchia tradizione di non fare nulla se non in cambio di una tangente non è scomparsa. Livelli di corruzione che hanno raggiunto il punto di saturazione rendono lo Stato disfunzionale. Per fare un piccolo esempio: un'amica che insegna in una università di Baghdad è rimasta incinta, e ha chiesto un mese di congedo pagato per partorire, com'era suo diritto. Gli amministratori dell'università le hanno detto che poteva avere il congedo, ma a condizione che consegnasse loro lo stipendio di quel mese. Quello che rende la corruzione in Iraq così devastante nei suoi effetti è il fatto che paralizza l'apparato dello Stato, e gli impedisce di svolgere le sue funzioni più essenziali. Nel 2004-2005, ad esempio, venne rubato l'intero budget per gli approvvigionamenti militari del valore di un miliardo 200mila dollari, anche se questo si poteva spiegare con il caos dei primi anni dello Stato iracheno del dopo-Saddam, con gli americani che prendevano molte delle decisioni e nessuno che era sicuro di chi avesse realmente il potere.

Cinque anni dopo, è ragionevole pensare che gli approvvigionamenti militari siano migliorati, specialmente quando si tratta di equipaggiamenti essenziali per le forze di sicurezza – un campo dove per il governo non esiste priorità maggiore di quella di fermare gli attentatori di al-Qa'ida che guidano veicoli imbottiti di esplosivo nel centro di Baghdad facendosi saltare in aria fuori dai ministeri, uccidendo e ferendo centinaia di persone.
Gli iracheni spesso domandano come mai gli attentatori riescano a passare attraverso così tanti checkpoint senza destare sospetti. Lo scorso anno, è apparso chiaro che c'è una ragione spaventosamente semplice che spiega molta della debolezza della macchina dello Stato iracheno. La verità straordinaria è che tenere gli attentatori fuori da Baghdad è reso più difficile, per dire il minimo, perché il principale detector utilizzato da esercito e polizia per rilevare la presenza di esplosivo è comprovatamene un falso. Il governo ha pagato grosse somme per il detector, che gli iracheni chiamano "sonar", anche se non è alimentato – e dovrebbe ricevere l'alimentazione dalla persona che lo tiene in mano, che si suppone strascichi i piedi per generare elettricità statica.

Inutile com'è, il "sonar", un manopola di plastica nera con una bacchetta color argento simile a un'antenna televisiva che spunta sul davanti, è il metodo principale mediante il quale i veicoli sospetti a Baghdad vengono controllati da soldati e poliziotti. Se sono presenti armi o esplosivi, la bacchetta dovrebbe inclinarsi verso di loro, funzionando nello stesso modo della bacchetta di un rabdomante.

La cosa straordinaria riguardo al detector di bombe, noto ufficialmente come ADE-651, è che è stato ripetutamente smascherato come inutile da parte di esperti governativi, giornali, e televisione. Veniva prodotto in origine in Gran Bretagna, in una fattoria per la produzione di latte in disuso del Somerset, ma il direttore generale della compagnia è stato arrestato nel Regno Unito per sospetta frode, e la sua esportazione ora è stata vietata. L'unico componente elettronico del dispositivo è un dischetto, del valore di pochi centesimi, simile a quello attaccato ai vestiti nei negozi per impedire che la gente se ne vada portandoseli via senza pagare.

Anche se fabbricare ogni "sonar" costa solo all'incirca 50 dollari, l'Iraq ha speso 85 milioni di dollari per comprare i detector nel 2008 e nel 2009. nonostante siano stati smascherati come del tutto inutili, non sono mai stati ritirati, e rimangono uno dei principali mezzi per fermare gli attentatori di al-Qa'ida. Un capo della polizia irachena mi ha detto in privato che i poliziotti sanno che i loro detector non funzionano, ma continuano a utilizzarli perché viene loro ordinato di farlo. A Baghdad si ipotizza che a qualcuno sia stata pagata una grossa tangente per acquistare i "sonar" e che questo qualcuno non voglia ammettere che sono patacche. Non sorprende che bombe che esplodono con effetti devastanti nel cuore della capitale risultano essere passate attraverso una decina di checkpoint senza che siano state rilevate.

La corruzione spiega molto in Iraq – ma non è l'unica ragione per cui è stato così difficile cerare un governo che funzioni. Fare meglio di Saddam Hussein non avrebbe dovuto essere così difficile. Parte del problema qui è che l'invasione Usa e il suo rovesciamento hanno avuto conseguenze rivoluzionarie perché hanno spostato il potere dai ba'athisti arabi sunniti al 60 % degli iracheni, che sono sciiti e alleati con i kurdi. L'Iraq ha avuto una nuova classe dirigente che ha le sue radici nella popolazione sciita delle zone rurali, guidata da ex esuli con nessuna esperienza nel gestire qualunque cosa. Per molti aspetti, il loro modello di governo è ricreare il sistema di Saddam, solo questa volta con gli sciiti al potere. Si era soliti dire che l'Iraq era succube degli arabi sunniti di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein a nord di Baghdad, mentre di questi tempi a Baghdad la gente si lamenta che una gang simile molto affiatata originaria della città sciita di Nassiriya circonda il Primo Ministro Nuri al-Maliki.

Per molti aspetti, l'Iraq sta diventando come il Libano, con la politica e la società irreparabilmente divise dalle confessioni e dalla fedeltà alla propria comunità. Il risultato delle elezioni parlamentari del 7 marzo si sarebbe potuto prevedere facilmente presumendo che la maggior parte degli iracheni avrebbero votato in quanto sunniti, sciiti, o kurdi. I posti ai vertici del governo e in tutta la burocrazia vengono riempiti ufficiosamente sulla base dell'appartenenza confessionale. Per dirla in modo crudo, questo dà a tutti una fetta della torta, ma la torta è troppo piccola per soddisfare più di una minoranza di iracheni. Anche il governo ne viene indebolito, perché i ministri sono rappresentanti di un partito, di una fazione, o di una comunità, e non possono venire rimossi per disonestà o incompetenza.

Tornando a Baghdad il mese scorso, dopo essere stato lontano per un po', sono rimasto colpito da quanto poco fosse cambiato. L'aeroporto era ancora fra i peggiori al mondo. Quando volevo andare in aereo a Bassora, la seconda città dell'Iraq e il centro dell'industria petrolifera, l'Iraqi Airways mi ha detto che avevano solo un volo la settimana, e non erano sicuri di quando sarebbe partito.

La violenza può essere diminuita, ma pochi dei 2 milioni di rifugiati iracheni in Giordania e in Siria ritengono che sia abbastanza sicuro per tornare a casa. Un altro milione e mezzo di persone sono sfollati interni (IDP), costretti a lasciare le proprie case dai pogrom a carattere confessionale del 2006 e del 2007 e troppo spaventati per tornare. Di questi, circa mezzo milione di persone cercano di sopravvivere in campi abusivi che, secondo la descrizione di Refugees International, mancano dei "servizi essenziali, compresa l'acqua, le fognature, e l'elettricità, e sono costruiti in zone precarie – sotto i ponti, lungo i binari della ferrovia, e in mezzo alle discariche". Un fatto preoccupante che riguarda questi campi è che il numero delle persone che ospitano dovrebbe ridursi con il diminuire del conflitto confessionale, ma in effetti la popolazione composta dagli IDP sta aumentando. Di questi tempi, i rifugiati arrivano nei campi non per paura degli squadroni della morte, ma a causa della povertà, della disoccupazione, o perché la siccità prolungata sta costringendo gli agricoltori a lasciare le loro terre.

L'Iraq è pieno di persone che hanno poco da perdere, e hanno una profonda rabbia verso un governo che considerano gestito da una élite di cleptomani che sta divorando i proventi petroliferi del Paese. Come in Libano e in Afghanistan, dove le disparità di ricchezza sono anch'esse enormi, l'odio di classe e le differenze religiose si uniscono a esacerbare l'odio fra le comunità e al loro interno. La rabbia dei diseredati spiega la ferocia del saccheggio di Baghdad nel 2003, quando la gente si era riversata fuori dagli slum di Sadr City per saccheggiare ministeri e uffici.

L'Iraq è diverso dal Libano sotto un aspetto cruciale: è uno Stato produttore di petrolio, con proventi annuali che lo scorso anno hanno raggiunto i 60 miliardi di dollari, e con riserve non sfruttate fra le maggiori al mondo. Le sue esportazioni di petrolio potrebbero quadruplicare nei prossimi dieci anni, in seguito a contratti firmati lo scorso anno con le compagnie petrolifere internazionali. Dovrebbero esserci soldi a sufficienza per elevare gli standard di vita e ricostruire le infrastrutture dopo un lungo abbandono.

A prima vista, il petrolio potrebbe essere la soluzione agli innumerevoli problemi dell'Iraq; tuttavia, in Iraq in passato, e in altri Stati petroliferi, si è dimostrato una maledizione politica oltre che una benedizione economica. I Paesi che dipendono dalle esportazioni di petrolio e di gas sono quasi invariabilmente dittature o monarchie. I governanti considerano il controllo dei proventi petroliferi, non il sostegno popolare, la fonte del proprio potere. Se esiste una opposizione, allora la ricchezza petrolifera mette in grado i leader di costruire e pagare forze di sicurezza che la schiaccino.

Nessun Paese al mondo ha bisogno di un compromesso attentamente calcolato fra le comunità e i partiti più dell'Iraq, ma il petrolio potrebbe tentare il governo a fare affidamento sulla forza. E' quanto successe a Saddam Hussein, che non avrebbe mai avuto la forza per invadere l'Iran o il Kuwait senza la ricchezza petrolifera irachena. Lo stesso potrebbe accadere di nuovo: uno Stato eccessivamente potente – anche se corrotto e incompetente -  potrebbe tentare di schiacciare i suoi oppositori invece di riconciliarsi con loro. Il petrolio da solo non stabilizzerà l'Iraq.


The Independent, (Traduzione di Ornella Sangiovanni)