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States. Dove siamo stati? Dove stiamo andando?

di James Howard Kunstler - 21/07/2010

   
   

In un caldo sabato di metà luglio nel mio angolo del paese, quando tutti gli altri si agitano sulla spiaggia di Million Dollar Beach a Lake George, o fanno su e giù per le corsie di Home Depot, o scorrazzano sulle loro moto in schiere di falsi fuorilegge, mi piace di sgattaiolare nei posti dimenticati dove non va nessuno. Cerco i luoghi della rovina industriale – ce ne sono molti qui intorno nell’alta valle dell’Hudson, e sono per lo più proprio lungo il fiume stesso, perché ci sono molti punti dove l’acqua scorre e salta in maniera tale da consentire all’uomo di catturarne l’energia e sfruttarla per scopi utili.

Mi porto sempre dietro il mio cavalletto francese, un aggeggio di legno ingegnosamente ideato in modo da ripiegarsi in una scatola, a cui ho applicato delle bretelle da zaino. Per me, queste rovine del passato industriale d’America sono tanto irresistibili quanto lo erano le rovine della Roma antica per Thomas Cole e i suoi contemporanei pittori, che hanno trovato rifugio nella storia nell’esatto momento in cui la loro nuova nazione ha iniziato la corsa verso il suo futuro industriale. Ho frequentato questo luogo particolare a Hudson Falls, New York, per tutta l’estate finora.

Originariamente chiamato Bakers Falls, si è evoluto in circa cent’anni in un insieme estremamente complesso di dighe, sfioratori, restringimenti, argini, canali, passerelle, e bric-à-brac idroelettrico il tutto inserito nella roccia friabile che forma la scogliera originale.

Da una posizione sul lato occidentale del fiume, si vede bene la storia stratificata dell’industria come se fosse una sezione di roccia sedimentaria del Mesozoico.


C’è una cosa più di ogni altra che mi stupisce di queste rovine industriali americane: non sono veramente molto antiche. Mio nonno studiava già legge e beveva birra quando parte di questa roba era nuova di zecca (o non c’era ancora!). Contrariamente alla lenta, oziosa discesa di Roma dalla sua grandezza, la caduta dell’America industriale sembra essere accaduta nell’arco di una battuta di mani. Suppongo che fosse nella natura della festa del carburante fossile che queste attività potessero durare solo finché le risorse energetiche basilari erano così a buon mercato che si dovevano a mala pena tenere in considerazione nei costi di esercizio. Ciò non vuol dire che anche l’elemento umano non sia cambiato, dato che ovviamente così è stato – perché l’America è passata dall’essere una nazione con una manodopera a buon mercato di immigranti ansiosi di unirsi alla sicurezza dell’irreggimentazione delle fabbriche, alle relazioni accusatorie tra i lavoratori appartenenti ai sindacati e i proprietari delle aziende, ed infine al “game over”, quando l’off-shoring[1] e l’out-sourcing hanno attaccato violentemente l’industria manifatturiera americana.


Queste fabbriche in quello che fu dapprima chiamato Bakers Falls hanno iniziato nel 1858 come stabilimenti per la lavorazione del ferro, pensati per produrre le intelaiature delle ruote idrauliche. Dopo poco hanno smesso, per produrre le parti di ricambio per la crescente industria della carta che usava la cellulosa dalle montagne Adirondack. Le attività connesse a questo sono andate avanti bene fino agli anni ’60, un secolo in tutto, finché le cose sono andate in pezzi nell’alta valle dell’Hudson e gli affari si sono misteriosamente spostati altrove.

Sono certo che sarà stato un mistero per molte delle persone di queste zone che vivevano di quelle industrie, che si sentivano forti, volenterose, e in grado di offrire il loro lavoro in cambio di uno stipendio decente.

Come poteva il mondo non aver più bisogno di loro? La leadership politica americana non gli ha dato una gran spiegazione. Questa era una nuova economia, hanno detto. D’ora in poi per guadagnarsi da vivere in America bisognava essere bravi a congegnare “innovazioni” che il resto della popolazione del mondo avrebbe potuto usare per poterci sfornare venti centesimi all’ora. I giovani d’America, hanno detto, dovevano andare all’università, persino se avesse comportato contrarre debiti a vita. Oppure dovevano iscriversi alla scuola locale per imparare la “tecnologia del computer”, il futuro.

Ciò che è veramente accaduto a posti come Hudson Falls è ora dolorosamente visibile sulla terra, per le strade, e sulle vetrine, che sono vuote oppure occupate dalle attività più marginali – palestre di arti marziali (per che cosa ci si allenano? Per le guerre di gang? Le insurrezioni? L’Afghanistan?), negozi di articoli di seconda mano, e le onnipresenti pizzerie per una popolazione famelica di formaggio. Gli allora dignitosi palazzi di negozi al centro della città – situata su un promontorio con vista panoramica ad ovest – sono vuoti e cadono in rovina. La classe proprietaria dei cittadini,contro cui si inveisce ancora nelle stazioni radio progressiste, se n’è andata, tanto che sembra che anche il suo fantasma abbia fatto le valigie e sia partito. Ma in fondo è la stessa cosa per ogni altra classe di cittadini sopra la classe inferiore – cioè, persone impegnate in qualcos’altro che non sia l’ozio sovvenzionato e il crimine, persone il cui unico obbligo nella vita è svegliarsi la mattina. (Non c’è da sorprendersi se la nazione è ossessionata dagli zombie al giorno d’oggi). C’era un matrimonio nel tardo pomeriggio quando tornavo dalla città. La sposa aveva un tatuaggio grande come un adesivo per paraurti sul decolletè. I testimoni avevano i pantaloncini neri corti e i cappellini da baseball con le visiere all’indietro. Ti viene voglia di piangere per i loro figli.

L’ho visti solo all’uscita. Tutto il resto della lunga giornata, ho avuto la fortuna d’essere solo sotto il sole forte dal lato lontano del fiume, in attenta osservazione dei dettagli visivi della storia e qualità del giorno. È difficile immaginare la determinazione e l’ingenuità (per non parlare della forza e del sudore) che ci è voluto per mettere insieme questi edifici proprio accanto a questo fiume rabbioso, o per buttarci attraverso una diga di cemento. Non so come potremmo farlo adesso, dato che non sembriamo collettivamente più capaci di fare niente – fatta eccezione per una qualche nuova e falsa disposizione politica di starsene con le mani in mano, non prendersi responsabilità, o di rifiutarsi di affrontare la realtà.


La realtà con cui trascorro le mie giornate oggi passeggiando lungo il fiume è la realtà di una nazione a cavallo di una grande onda di entropia verso l’ignoto. Solo a questo stadio della corsa possiamo dilettarci con le nostre fantasie gotiche dell’affascinante vita negli inferi dei vampiri. Credetemi, quando la situazione si farà davvero scura tutti desidereremo disperatamente qualcosa di più vicino agli agnellini sui prati e al tocco delicato di una mano amorevole e l’offuscata memoria di come fosse stato quando ci stava a cuore qualcosa o qualcuno.

Il punto a cui siamo arrivati adesso, per me, è il vero tempo oscuro, il proverbiale momento prima dell’alba. La depravazione della nostra cultura, i prodotti della Disney, le patatine Doritos al gusto cool ranch, e tutto il resto, sono una cosa che faranno meravigliare i nostri successori per i secoli a venire. La purezza della nostra arresa li affascinerà. Concluderanno che abbiamo visto dentro l’abisso… e che abbiamo deciso che ci piaceva quello che ci abbiamo trovato dentro.

Il seguito del mio romanzo del 2008 sull’America post-petrolifera, “World Made by Hand”, sarà pubblicato a settembre 2010 dalla The Atlantic Monthly Press [Col titolo: “The Witch of Hebron”, N.d.r.].

[1] Delocalizzazione del processo produttivo di un’azienda, trasferire ossia parte o tutti gli stabilimenti in un altro paese dove di solito la manodopera è più a buon mercato.N.d.t.

Titolo originale: "Where Have We been? Where Are We Going? "

Fonte: http://kunstler.com
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12.07.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI