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Ma il mondo nel 1945 non ha reso giustizia al dramma politico e umano di Mihai Antonescu

di Francesco Lamendola - 22/07/2010

 

In seguito all’infame spartizione di Yalta del febbraio 1945, in cui Churchill e Roosevelt consegnarono mezza Europa agli appetiti sovietici, dopo aver scatenato una guerra mondiale per difendere la libertà del vecchio continente e specialmente - a parole - quella delle nazioni piccole e medie, come la Polonia, fu chiaro che, a guerra finita, non vi sarebbe stata alcuna comprensione per il dramma di quanti, dovendosi barcamenare fra l’invadenza tedesca e quella sovietica, e non potendo più contare sull’aiuto anglo-francese, avevano scelto il male minore e si erano associati alla politica di Hitler, senza peraltro condividerne gli scopi ultimi e nemmeno la strategia d’insieme.
Non stiamo parlando di qualche caso fortuito, ma di decine di milioni di Europei che ebbero la sfortuna, alla fine degli anni Trenta, di trovarsi presi fra l’incudine sovietica e il martello nazista, dopo essere stati illusi circa la protezione della Francia che, invece, aveva giocato con loro al solo scopo di creare una minaccia potenziale sul fianco della Germania, ma li aveva poi abbandonati non appena le cose si erano fatte serie. Parliamo della Finlandia, dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Slovacchia, dell’Ungheria, della Romania e della Bulgaria: tutte nazioni che erano state create o notevolmente ampliate dal Tratto di Versailles (con una sola eccezione: l’Ungheria, che ne era uscita gravemente mutilata), un cordone di stati che andava dal Mar Glaciale Artico, attraverso il Baltico, fino al Mar Nero e che, dopo il riarmo tedesco e, ancor più, dopo il patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, in pratica non ebbero che da scegliere se farsi divorare dall’orso sovietico o dalla tigre nazista.
Diciamo subito che, delle due minacce, la prima sembrava, ed era, più grave e più immediata: non solo perché gli appetiti di Mosca erano più brutali, più sfrontati e di molto più antica data di quelli tedeschi (infatti risalivano, tutti, all’epoca dell’Impero zarista), ma anche perché erano più scopertamente ideologici e, pertanto, suscettibili di inglobare non solo politicamente, ma anche dal punto di vista sociale ed economico, quelle nazioni entro la sfera del Comintern, anche grazie all’opera incessante delle forze comuniste locali.
Infatti, se Hitler desiderava, ad esempio, il grano e il petrolio della Romania, non aveva però delle rivendicazioni territoriali nei confronti di quel Paese, nonostante la minoranza tedesca presente da secoli in Transilvania; e lo dimostrò quando diede al generale Ion Antonescu mano libera contro le Guardie di Ferro, nonostante le affinità di quest’ultimo movimento con il nazismo. Al contrario, quello che Stalin voleva era sia il controllo dell’intero territorio, per ragioni strategiche, sia l’instaurazione di un regime “fratello” che imponesse il comunismo e inserisse la Romania nell’orbita di Mosca (come poi puntualmente avvenne, nel 1945, per tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale).
Dunque, il dilemma in cui vennero a trovarsi quelle nazioni che si trovavano al limite tra la sfera di espansione germanica e quella russa, era - né più, né meno - che un dramma senza vie d’uscita: esse sapevano che nulla e nessuno avrebbe potuto salvarle, specialmente dopo il crollo della Francia nel maggio-giugno del 1940. Non si era forse visto come la più importante di esse, la Polonia - che aveva ostentato addirittura, fra le due guerre mondiali, ambizioni da grande potenza - era stata smembrata e letteralmente cancellata dalla carta geografica d’Europa in meno di quattro settimane, grazie al cinico accordo fra i suoi due vicini, dalla cui crisi era nata, nel 1919, e per mano dei quali era tornata adesso a scomparire? Monito terribile per tutti gli altri.
Stalin, del resto, non aspettò nemmeno di vedere come sarebbe andata a finire la campagna di Occidente e piombò come un falco sia sui Paesi Baltici, sia sula Romania, cui impose un “diktat” inaudito: sgomberare NELLO SPAZIO DI VENTIQUATTR’ORE la Bucovina settentrionale e la Bessarabia, pena la guerra immediata.
Come se ciò non bastasse, subito si scatenarono le lotte fra gli sventurati capponi di Renzo: lo si era già visto nell’ottobre 1938, all’indomani della Conferenza di Monaco, quando la Polonia era piombata sul distretto di Teschen per sottrarlo alla Cecoslovacchia, e nel novembre successivo, quando l’Ungheria si era ripresa la striscia meridionale della Slovacchia; e poi, ancora, nel marzo 1939, quando l’Ungheria, sfruttando l’occupazione tedesca della Boemia e Moravia, si era fulmineamente annessa la Rutenia Subcarpatica.
Lo si rivide dopo il brutale ultimatum di Molotov al governo di Bucarest del 4 luglio 1940, quando sempre i Magiari si prepararono ad attaccare la Romania e quest’ultima non poté fare altro che rimettersi al lodo arbitrale italo-tedesco del 30 agosto 1940, con il quale la Transilvania settentrionale veniva retrocessa all’Ungheria; mentre il 7 settembre pure la Bulgaria otteneva la sua fettina di torta, ossia la Dobrugia meridionale, perduta nel 1913 in seguito alla sconfitta nella seconda guerra balcanica.
Così, in poco più di due mesi, la Grande Romania di Versailles si era sgretolata e ciò nonostante che il governo di Bucarest sperando di tutelarsi sul piano internazionale, si fosse volontariamente infeudato sul piano economico alla Germania fin dal marzo 1939, dopo l’occupazione tedesca di Praga, e su quello politico dal settembre, dopo la campagna lampo in Polonia, al punto da concedere una amnistia alle Guardie di Ferro e da orientare lo Stato in senso filotedesco. Tuttavia il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 aveva stabilito il “diritto” dell’Unione Sovietica di riprendersi la Bucovina settentrionale e la Bessarabia (quest’ultima aveva fatto parte dell’Impero zarista, ma erano entrambe, dal punto di vista storico ed etnico, a grande maggioranza romene); per cui, fra quella data e l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nel giugno 1941, il destino della Romania fu veramente appeso ad un filo, dipendendo interamente dal buon volere dei suoi due potentissimi vicini.
Così, la Romania scelse di cedere: e quando, nell’ottobre 1940, venne occupata militarmente dai Tedeschi (cosa che suscitò lo sdegno di Mussolini e la sua decisione di attaccare immediatamente la Grecia), almeno fu chiaro che, per il momento, le mire di Mosca avrebbero subito uno stop, ma al prezzo pesantissimo di una perdita “de facto” della sovranità nazionale.
Non tutti gli stati dell’Europa centro-orientale si rassegnarono a cedere in tal modo, senza lottare; la Finlandia, al contrario, decise di resistere alla prepotenza di Stalin, e ne scaturì quella guerra d’inverno finno-sovietica che lasciò ammirato il mondo intero, ma che finì com’era inevitabile che finisse, ossia con la sconfitta militare e con la cessione del 10% del proprio territorio e del 20% delle proprie risorse naturali (cfr. il nostro articolo «La coda di paglia della storiografia inglese e la guerra d’inverno finno-sovietica del 1939-40», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 04/03/10).
Questa ipocrisia dell’Europa e dei governi democratici, che a parole ammiravano la fierezza nazionale della Finlandia e di fatto l’abbandonavano negli artigli di Stalin, di cui desideravano servirsi per combattere Hitler, fu di tale lampante evidenza, che nessun governo delle nazioni europee centro-orientali, d’allora in poi, si fece più la benché minima illusione: comunque la situazione politico-militare fosse evoluta, per esse non vi sarebbe stata salvezza. Sarebbero finite sotto il tallone tedesco, oppure sotto quello sovietico: e, se per caso avessero fatto la scelta di campo sbagliata, avrebbero subito un trattamento ancora più duro da parte della comunità internazionale. Sarebbero state additate al perpetuo disprezzo per essersi alleate con un odioso dittatore: quale, dei due, fra Hitler e Stalin, sarebbe dipeso da chi di loro fosse uscito vincitore alla resa dei conti. Ma, al più tardi dal marzo 1939, era chiaro che Francia e Gran Bretagna (e, per conseguenza, anche gli Stati Uniti d’America) avevamo fatto la loro scelta: avrebbero marciato al fianco di chiunque, magari del Diavolo in persona, pur di fermare Hitler.
A complicare ulteriormente le cose, c’era il problema ebraico. Nell’Europa centro-orientale le minoranze ebraiche erano numerose, economicamente dominanti e, dal punto di vista politico-sociale, tutt’altro che fidate: parteggiavano per i Sovietici e lo avevano mostrato più volte, fin dal 1920, quando gli Ebrei erano stati sul punto di insorgere a Varsavia minacciata dall’Armata Rossa di Trotzkij (cfr. il nostro articolo «Quando Varsavia, col nemico alle porte, aspettava d’ora in  ora il colpo di Stato degli Ebrei», sul sito di Arianna Editrice in data 18/04/10).
In Romania, quando l’esercito aveva dovuto evacuare precipitosamente la Bucovina e la Bessarabia, gli Ebrei locali avevano attaccato le colonne militari in ritirata.
In Lituania, gli Ebrei erano visti contemporaneamente come agenti dell’imperialismo culturale e linguistico tedesco e come agenti del bolscevismo, ossia come quinte colonne dei due potenti e minacciosi vicini che stringevano come in una morsa la sopravvivenza dello Stato (che era anche in pessimi rapporti con la Polonia, a motivo della controversia su Vilna).
In Ungheria, gli Ebrei avevano dato un sostegno decisivo alla rivoluzione comunista di Béla Kun del 1919 e ai suoi eccessi; tanto che, da quel momento, l’opinione pubblica magiara aveva visto in essi un grave pericolo interno, pronto a ridestarsi non appena gli eventi avessero riportato i Sovietici nei pressi dei confini nazionali.
Potremmo continuare a lungo: sta di fatto che le forti minoranze ebraiche erano percepite come una quinta colonna sovietica, oltre che come un corpo estraneo e sostanzialmente parassitario che succhiava le risorse nazionali: in tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale vi era una ben scarsa simpatia nei loro confronti e, se ciò non giustifica le atrocità che esse subirono durante la seconda guerra mondiale, getta però una luce significative sui provvedimenti antiebraici che quei governi, ad esempio quello del generale Antonescu in Romania, adottarono nel pieno dello sforzo bellico, quando la sopravvivenza della patria era sospesa ad un filo.
In questo contesto, complesso e ricco di chiaroscuri (e non tutto bianco o nero, come vorrebbe la storiografia dei vincitori dopo il 1945) bisogna inserire l’azione svolta da uomini come il ministro degli esteri di Bucarest, Mihai Antonescu (nessuna parentela con il Conducator suo omonimo, che il 6 settembre aveva costretto all’esilio il re Carol II e imposto una dittatura “de facto” al figlio di lui, Michele; sbarazzandosi poi, come si è detto, delle Guardie di ferro, con la tacita approvazione di Hitler).
Nato nel 1904 e quindi assai giovane (non aveva nemmeno quarant’anni), avvocato, vice primo ministro e ministro degli Affari esteri dal 1940, quando si formò il governo del generale Antonescu (inizialmente in collaborazione con la Guardia di Ferro), Mihai Antonescu era essenzialmente un patriota, un uomo desideroso di proteggere la Romania dalle conseguenze che il titanico scontro in corso a livello mondiale non avrebbe mancato di infliggerle; la decisione di unire l’esercito romeno a quello tedesco nella campagna di Russia, dopo il giugno 1941, fu presa in stato di necessità, anche se accolta favorevolmente dall’opinione pubblica che non aveva dimenticato l’umiliazione nazionale dell’anno precedente e il brigantesco ultimatum di Molotov circa la Bucovina settentrionale e la Bessarabia.
Certo, Antonescu e il suo capo commisero un errore: a differenza della Finlandia, che unì il proprio esercito all’attacco della Wehrmacht contro la Russia, ma non volle spingerlo al di là delle frontiere del 1939, egli acconsentì che le truppe romene si spingessero molto oltre il Dnjestr, attraverso l‘Ucraina e fino al Volga (ove si trovarono coinvolte nel disastro di Stalingrado) ed al Caucaso; peggio ancora, in diverse località, ma particolarmente a Odessa, si resero responsabili di sanguinosi pogrom antiebraici, che produssero migliaia di vittime.
Non si può, tuttavia, mettere in dubbio che non smodate ambizioni di qualsivoglia natura abbiano dettato l’opera di Mihai Antonescu, ma, al contrario, la sola ed esclusiva preoccupazione di proteggere la propria patria, per quanto possibile, autentico vaso di coccio preso in mezzo all’urto fra due terribili vasi di ferro: la Germania nazista e la Russia sovietica.
E la sua buona fede appare evidente allorché si consideri con quanto impegno egli tentò, nel 1943, si appellarsi a Mussolini affinché si mettesse alla testa degli alleati minori dell’Asse - Finlandia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria - per imporre a Hitler una svolta politico-militare: o un armistizio con gli Alleati occidentali e una guerra a fondo contro i Sovietici (ipotesi per lui di gran lunga preferibile); oppure, in alternativa, una pace di compromesso con  Stalin e  la prosecuzione della guerra contro gli Alleati: in ogni caso, la fine della guerra dell’Asse su due fronti, nella prospettiva ultima di potersi sganciare dall’abbraccio mortale della Germania.
Nel giugno del 1943 egli fu in Italia e venne ricevuto dapprima dal sottosegretario agli Esteri Bastianini, indi dallo stesso Mussolini, al quale perorò, ma invano, la causa della pace di compromesso con gli Alleati, così come cercò di fare, per proprio conto (non si dimentichi che Romania e Ungheria erano tuttora nemiche irriducibili per via della Transilvania), anche il presidente del Consiglio magiaro, Kallay.
Antonescu avrebbe voluto un impegno preciso: che Mussolini, cioè, persuadesse Hitler a convocare una conferenza a quattro fra i massimi capi politici e militari della Germania, dell’Italia, della Romania e dell’Ungheria; conferenza nella quale il Füher avrebbe dovuto rappresentare lealmente, senza frode e senza inganno, la realtà della situazione militare e strategica dell’Asse; e, se fosse risultato - come egli pensava - che il proseguimento della guerra su due fronti era divenuto impossibile, che ne traesse le debite conseguenze, vuoi nel senso di intavolare trattative per un armistizio separato con uno dei due blocchi avversari, vuoi per lasciare agli altri membri dell’Asse piena libertà di azione, ossia di uscire dalla guerra per proprio conto.
Se a ciò si aggiunge che il Giappone, in quel momento, sempre più duramente impegnato nella guerra del Pacifico, oltre che impantanato in una interminabile campagna d’invasione contro al Cina e in una difficilissima campagna birmana contro i Britannici, era parimenti desideroso di ottenere che Hitler intavolasse trattative di pace con i Sovietici, per concentrare tutti gli sforzi contro le democrazie occidentali, si avrà un quadro significativo di quanto fosse complessa e, per certi aspetti, contraddittoria la situazione del Tripartito e dei suoi alleati minori, in quei primi mesi del 1943, quando ormai il solo ridotto tunisino, assediato da forze preponderanti, faceva da antemurale fra gli eserciti alleati e l’Italia.
La diplomazia tedesca, tradizionalmente sospettosissima, aveva avuto sentore di tutto quel movimento e aveva cercato di persuadere Mussolini a non ricevere né Antonescu, né Kallay: più precisamente, Ribbentrop aveva suggerito a Bastianini che il Duce non accordasse ai due personaggi “minori” l’onore di una udienza, certo subodorando quel che stava bollendo in pentola. Mussolini, da parte sua, accarezzava l’idea di lanciare, insieme a Hitler, una “Carta europea” che rispondesse alla Carta atlantica di Churchill e Roosevelt e chiarisse gli obiettivi di guerra dell’Asse, prendendo precisi impegni a favore dell’indipendenza degli stati europei minori; ma non riuscì a spuntarla con il Führer, che ritenne ”prematura” una tale mossa e che si ostinava ad inseguire il miraggio di una vittoria risolutiva sul fronte orientale fra la primavera e l’estate del 1943. Tuttavia i fatti, con la battaglia di Kursk, gli avrebbero dato pienamente torto, senza peraltro riuscire a piegare minimamente la sua pervicacia.
Ad ogni modo, Mussolini non si lasciò intimidire dai suggerimenti Ribbentrop e ricevette sia Antonescu, sia Kallay; e, per evitare che i due, che erano come cane e gatto, si incontrassero, e per non dare troppo nell’occhio all’alleato germanico, ricevette il primo in forma privata, nella sua casa di Rocca delle Caminate, il secondo nella capitale, a Palazzo Venezia. Ma non si impegnò con essi, pur restando vivamente colpito dal tono accorato delle loro richieste; del resto, a quell’epoca - vale a dire, fra il convegno di Klessheim dell’aprile 1943 e quello di Feltre del luglio - il Duce nutriva ancora qualche illusione sulle “armi segrete” di Hitler e riteneva che la partita non fosse definitivamente perduta per le forze dell’Asse.
Oltre a ciò, è evidente che gli interessi geopolitici dell’Italia divergevano da quelli dei membri minori del Tripartito, dalla Finlandia alla Romania: per essa, infatti, il nemico mortale erano costituito dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, il che avrebbe imposto al Duce di accentuare (come in realtà fece, ma solo all’epoca della Repubblica Sociale) l’aspetto anticapitalistico della guerra in corso; per quelli, il nemico mortale era l’Unione Sovietica e, di conseguenza, il bolscevismo internazionale, che già operava al loro interno come una potente quinta colonna dei Russi.
Peraltro, la lucidità politica e l’onestà intellettuale di Antonescu si vede anche da questo: che, parlando con Bastianini e, poi, anche con il Duce, mostrò di ritenere che il destino del suo Paese fosse comunque gravemente compromesso: se avesse vinto la Russia, perché sarebbe stato invaso, sottomesso e bolscevizzato; se avesse vinto la Germania, perché quest’ultima sarebbe divenuta una protettrice sempre più avida e brutale, desiderosa soltanto di rifarsi delle ingenti perdite subite nel corso dell’interminabile conflitto.
Poi venne il 25 luglio e tutto precipitò con rapidità fantasmagorica: la dissoluzione del fascismo, i quarantacinque giorni di Badoglio, la caduta della Sicilia, i bombardamenti angloamericani sulle città italiane, che non furono mai così terribili come in quel mese e mezzo in cui l’Italia si era sbarazzata del Duce e stava intavolando convulse trattative di resa con gli Alleati. Ma che Mussolini, fino all’ultimo, avesse cercato di svolgere attivamente quel ruolo di capo morale degli Stati minori dell’Asse, auspicato da Antonescu e da Kallay, è dimostrato dal fatto che ancora il mattino del 25 luglio, cioè poche ore prima di essere arrestato dal re, egli convocò l’ambasciatore giapponese, barone Hidaka, per parlargli nuovamente della necessità di accentuare la pressione congiunta su Berlino onde persuadere Hitler a cercare una intesa separata con l’Unione Sovietica e concentrare tutte le forze nel settore del Mediterraneo.
Il 23 agosto 1944, con l’Armata Rossa ormai alle porte, re Michele di Romania convocò il generale Antonescu, lo costrinse a dimettersi e lo fece arrestare con tutto il suo governo, seguendo lo spregevole esempio di Vittorio Emanuele III, per realizzare un immediato cambio di fronte e rivolgere l’esercito contro i Tedeschi in ritirata (mentre il Conducator aveva perseguito l’obiettivo di allontanare i Tedeschi in modo pacifico e ordinato). Il ministro degli Esteri, Mihai Antonescu, subì il medesimo destino e, a guerra finita, dopo essere stato consegnato ai Russi, venne giudicato da un Tribunale del Popolo romeno, che lo condannò a morte e lo fece giustiziare, presso  Jilava, il 13 giugno 1946 (poco prima, il 1° giugno, uguale sorte era toccata al generale Antonescu, sotto la curiosa accusa di aver partecipato alla campagna tedesca contro l’Unione Sovietica, dopo il 22 giugno 1941).
Così ha rievocato la figura del ministro degli Esteri romeno Mihai Antonescu, nelle sue memorie, l’allora sottosegretario italiano agli Esteri, Giuseppe Bastianini, già governatore della Dalmazia (in: «Volevo fermare Mussolini» (Milano, Rizzoli, 2005, pp. 352-53 e 357-59; riedizione di «Uomini, cose, fatti: memorie di un ambasciatore», Milano, Vitagliano, 1959):
«[Nel viso di Mihai Antonescu] c’era di tratto in tratto un sorriso pieno di tristezza e nelle occhiaie profonde e nel pallore delle guance traspariva una segreta angoscia che mi colpì fin dal nostro incontro. Adesso egli non c’è più: lì’hanno fucilato i russi in qualche parte della sua terra invasa e resa schiava e non ci sarà nemmeno una croce sulla sua tomba ignota […]
Sono certo che Mihai Antonescu possedeva un gran cuore nel quale ardeva una gran fiamma: l’amore per il suo Paese. […] Fin dalla nostra prima conversazione che durò parecchie ore, mi colpì la linearità del suo pensiero e più ancora la franchezza del suo parlare anche quando si trattava di critiche nei confronti della Germania, tanto che se non avessi avuto cognizione personale dell’avversione di cui era oggetto nelle altissime sfere germaniche avrei diffidato di lui. Ribbentrop lo disprezzava e un giorno a Salisburgo lo definì un cantastorie pieno di boria, invitandomi a negargli la soddisfazione di una visita a Mussolini ch’egli infatti sollecitava da tempo e che per la sua carica aveva del resto il dovere e il diritto di fare, anche se a sospingerlo non fossero state le circostanze tutt’altro che liete verificatesi sull’andamento della guerra fra il 1942 e il 1943. […]
Certamente Antonescu non ignorava la dichiarazione fatta nel giugno del 1940 da Molotov agli ambasciatori d’Italia e di Germania che una guerra della Russia Sovietica alla Romania era la possibilità più vicina a realizzarsi. Allorché dunque Russia e Germania ritornarono nemiche e le armate della Reichswehr incominciarono a frantumare quelle di Stalin addentrandosi nel territorio dell’Unione Sovietica, il popolo romeno nella legittima necessità di sortire dall’incubo dell’invasione e della conquista non rifiutò il proprio concorso alla battaglia contro l’esercito che lo minacciava schierato in armi ala sua porta di casa. fece male? ma quell’esercito lo aveva appena derubato di due regioni [Bessarabia e Bucovina] e dov’è quell’uomo che vedendo un furfante dal quale poco prima era stato rapinato alle prese con un’altra persona non accorre a dar man forte a questa? E supponendo che la Romani fosse stata tanto pusillanime da non prendere una tale decisione, come avrebbe potuto rifiutare alla Germania trionfante la cooperazione che Hitler non perse tempo a domandare? Dov’erano le armate francesi, inglesi o americane che avrebbero potuto aiutarla ad affrontare l’esercito germanico o a impedire a Stalin e Molotov di raggiungere, come avevano stabilito, il Danubio romeno?
La facile scienza del poi, che è quella in cui addottorano certi critici faziosi, pronuncia sempre, quando una Nazione è stata disfatta, sentenze di condanna anche del tipo che ordinò l0’assassinio di Antonescu. Ma cotesti giuristi da poco prezzo tanto si permettono perché nel momento in cui le circostanze imponevano decisioni fatali essi non erano fra cloro a cui incombeva il terribile dovere di prenderne una. A cose fatte, quando tutto è avvenuto, è altrettant facile quanto ingeneroso andare gridando che venne presa proprio quella da evitare e trattare da criminale chi si caricò di tanto peso.
E poiché anche nel nostro Paese abbondano coloro che son sempre pronti a crocifiggere i caduti, ci sarebbe da chiedere a costoro se si sentirebbero capaci d’imbastire un processo alla memoria del Presidente del Consiglio La Marmora per aver stretto alleanza con la Prussia  allo scopo di profittare della guerra che questa avrebbe dichiarato all’Austria nel termine di dodici settimane, e nell’intento di ricongiungere Trento e Trieste all’Italia. E vorrei anche domandare a costoro se credono che l’Austria avrebbe avuto il diritto dopo Custoza di chiedere la consegna del La Marmora come criminale di guerra insieme a Cadorna ch’era giunto all’Isonzo, a Garibaldi che si era battuto a Bezzecca e a Cialdini che si era lasciato sconfiggere. L’Austria, che non poteva venire citata come un modello di moderazione e di longanimità, quando si trattava della propria difesa non avanzò tali richieste, forse perché nel 1866 non erano ancora divenuti norma di Diritto Internazionale positivo gli usi di guerra di Gengis Khan e di Brenno, ma Mihai Antonescu laureato alla Sorbona in Diritto Internazionale invece è stato condannato e fucilato nel 1945 da mugicchi russi per infrazioni gravi alle norme di quel diritto, ossia per aver  tentato, senza fortuna, d’impedire la conquista del suo Paese.»

Il ragionamento di Bastianini, a nostro avviso, non fa una grinza.
Se l’opinione pubblica europea, anche occidentale, non fece una piega davanti al processo e all’esecuzione, nell’immediato dopoguerra, di uomini come Antonescu, il cui unico delitto era stato il patriottismo, ciò è avvenuto perché l’ideologia dei vincitori si era immediatamente diffusa anche tra i vinti, sia nella sua versione liberaldemocratica, sia in quella comunista, ad offuscare il sereno giudizio e l’onesta valutazione della storia recente.
Meno comprensibile è stato l’atteggiamento degli storici, allora e dopo; perché la loro professione dovrebbe consistere appunto nel superare l’emotività e la passionalità dei giudizi immediati, per ricostruire le vicende storiche nella prospettiva di un punto di vista obiettivo ed equanime, che sia realmente al di sopra della mischia.
Ma gli storici di entrambe le Vulgate, la liberaldemocratica e la marxista, non hanno saputo compiere un tale sforzo verso la serena valutazione dei fatti, spogliandosi delle ideologie di parte; con più acredine i secondi, in modo più blando i primi, gli uni e gli altri hanno confermato le sentenze dei tribunali al servizio del vincitore o, peggio, hanno steso un velo di silenzio sulla memoria di quanti si erano battuti, in circostanze drammatiche e in perfetta buona fede, per la salvezza della propria patria.
Tale è stata anche la sorte di Mihai Antonescu (come, del resto, quella del suo capo, il generale Ion Antonescu); ed il voto di Bastianini, che una icona o un fiore venissero deposti sulla tomba dello sfortunato ministro degli Esteri romeno, non si è avverato; anche se un recente sceneggiato televisivo prodotto in Romania ha iniziato un processo di revisione verso la sua figura e, in parte, anche verso quella del generale Ion Antonescu, uomini costretti a prendere decisioni drammatiche in un momento terribile della loro storia nazionale e per l’Europa tutta.
Certo, rimangono le sue responsabilità per le stragi e la deportazione degli Ebrei romeni e di quelli dei territori occupati dall’esercito romeno durante la guerra; le quali, se vanno contestualizzate - come abbiamo tentato di fare - non possono in alcun modo essere minimizzate o, meno ancora, giustificate sul piano umano.
Resta il fatto che Antonescu venne processato e condannato non per quegli episodi, ma per aver affiancato la Wehrmacht nella campagna contro l’Unione Sovietica: accusa che, come mostra il lineare ragionamento di Bastianini, è palesemente assurda.
Chi avrebbe agito diversamente da lui, in quei tragici frangenti del 1940 e del 1941?
Forse il signor Churchill, o il signor Roosevelt, o un qualsiasi altro uomo politico che avesse minimamente a cuore la salvezza della propria patria in pericolo?