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Rubin "Hurricane" Carter, il romanzo di una vita nel libro di James S. Hirsch

di Roberto Alfatti Appetiti - 27/07/2010



«Ora tutti i criminali coi loro cappotti e le loro cravatte / sono liberi di bere Martini e guardare l’alba / mentre Rubin siede come Budda in una piccola cella / un innocente in una camera infernale /questa é la storia di Uragano / ma non sarà finita finché non gli ridaranno il suo nome / e il tempo perso / messo in una prigione, ma un tempo lui avrebbe potuto essere / il campione del mondo». Così canta Bob Dylan in Hurricane, la popolare ballata pubblicata nell’album Desire e incisa per la prima volta trentacinque anni fa, il 30 luglio del 1975, in cui denuncia l’incredibile disavventura giudiziaria di Rubin “Hurricane” Carter, uno dei pugili più forti di tutti i tempi.  
Prima di essere incarcerato per l’omicidio di tre bianchi avvenuto il 17 giugno del 1966 in un bar di Paterson, New Jersey, e passare dagli abiti di sartoria al meno piacevole pigiama a righe. Colpevole di essere nero – stabilirà soltanto nel 1985 il giudice federale Haddon Lee Sarokin – in un processo «viziato da motivazioni razziali» e non a caso deciso da una giuria popolare bianca. Ancora più esplicito, del resto, era stato lo stesso Dylan: «Il processo fu un circo di maiali / per la gente bianca lui era un fannullone rivoluzionario / e per la gente nera lui era solo un pazzo negro». Parole che costarono alla rockstar denunce e processi.
Carter, da parte sua, non era né un fannullone né un pazzo. All’epoca dei fatti era un ventinovenne sin troppo esuberante, con un debole per la Vodka e le donne, qualche precedente penale, un passaggio in riformatorio, un certificato di insubordinazione a sigillo di una breve esperienza nell’esercito e un presente da gaudente pugile di successo, ben deciso a prendersi la vita a morsi. E un physique du rôle perfetto per il ruolo del cattivo: cranio pelato, sguardo fiero e baffi e pizzo a incorniciarne il ghigno. Spudoratamente elegante, forse troppo per essere un nero. Alto poco più di 1 metro e 70, Carter era più basso di gran parte dei suoi avversari nella categoria dei pesi medi, ma esibiva un gancio spietato e una vocazione all’irriverenza sia dentro che fuori dal ring. Insofferente alle attenzioni che gli riservava la polizia locale guidata da un sindaco ultraconservatore, rispondeva manifestando provocatoriamente la sua simpatia per le battaglie di Martin Luther King. Non si preoccupava di sfuggire ai guai. Li trattava alla stregua degli avversari: li andava a stanare nel loro angolo, pregustando il momento del KO. Salvo finirci lui, con tre ergastoli sulle spalle, insieme al diciannovenne John Artis, amico e occasionale compagno di sbevazzamenti. Il triplice omicidio del 1966, infatti, rappresentò un’occasione troppo ghiotta per chi non aspettava altro che inchiodarlo, chiuderlo in una casa circondariale e gettare la chiave. Per incastralo si presentarono, solo dopo diversi mesi, due testimoni. Affidabilissimi: due malavitosi impegnati a rubare proprio a due passi dalla scena del crimine.
A raccontare l’odissea di Carter – dieci anni dopo Hurricane, il grido dell'innocenza, il film diretto da Norman Jewison, con uno straordinario Denzel Washington nel ruolo del pugile in una storia, però, “romanzata” al punto di fare di alcuni personaggi una mera caricatura – è James S. Hirsch in Hurricane, il miracoloso viaggio di Rubin Carter (pp.515, € 20), da poco arrivato nelle nostre librerie grazie a 66thand2nd, la piccola casa editrice romana “specializzata” in grande letteratura sportiva. Sarebbe riduttivo, tuttavia, definirlo un romanzo sul pugilato. Biografia autorizzata dallo stesso protagonista – che anni addietro ne aveva scritta una di suo pugno: The Sixteenth Round («La sedicesima ripresa», quella che comincia quando finiscono le quindici di un incontro professionistico) – il lavoro di Hirsch, prestigiosa firma del giornalismo d’inchiesta americano, è ben più articolato. Frutto di un capillare lavoro “investigativo”, ricostruisce con ricchezza di particolari la vicenda umana e giudiziaria di uno dei casi più controversi della storia giudiziaria americana. Dalla mobilitazione di gran parte dell’opinione pubblica – da Muhammad Alì al ricordato Bob Dylan, del quale il libro racconta il commuovente incontro con Carter tornato libero – ai processi che si sono susseguiti in quasi venti anni di carcere, conditi di continui colpi di scena, fiduciose attese e relative delusioni. Sino al gran ricorso, l’ultimo possibile, l’habeas corpus, dall’espressione latina che significa “ottenere il corpo”, mirato a sottrarre il reo a una incarcerazione arbitraria. Dall’amicizia, nata epistolare, con Lesra Martin, giovane nero di Brooklyn residente in Canada, al supporto di un gruppo canadese organizzato in una comune che risulterà determinante, facendosi carico delle spese legali e investigative, per le sorti di Hurricane. Ma non solo, il libro è anche un prezioso quanto fedele affresco degli anni delle tensioni razziali e delle battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti della seconda metà del secolo scorso. «Anni in cui – è scritto nella presentazione del volume – si è cominciato a riconoscere i pregiudizi e a spazzarli via, proprio come fa un uragano». Passato il quale l’orizzonte dovrebbe tornare azzurro e limpido. Dati i tempi, però, e la variabilità delle condizioni “meteo”, l’uso del condizionale appare d’obbligo.