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Il tallone di ferro

di Enrique Lacolla - 28/07/2010


 
Il tallone di ferro


Il titolo del bel romanzo di Jack London è ogni giorno più attuale, in un presente segnato dal rifiuto nordamericano di accettare limiti alla sua forza e dalla sua avanzata per il conseguimento del dominio globale…

È in quest’ottica che conviene guardare alla rottura tra Colombia e Venezuela e alle attuali vicissitudini della politica latinoamericana.

Gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare in Medio Oriente; girano voci riguardo al fatto che l’Arabia Saudita consente il passaggio di aerei israeliani sul suo terittorio laddove questi sono diretti a bombardare l’Iran; i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza serrano le fila e convengono sulla necessità di inasprire le sanzioni contro quest’ultimo paese ; Henry Kissinger sconsiglia di seguire la linea annunciata dal presidente Obama diretta a ritirare le truppe nordamericane dall’Afghanistan nel giro di dodici mesi.

Pianificare una cosa del genere, secondo l’ex Segretario di Stato, implica mettere in piedi un dispositivo per la sconfitta, dal momento che, per raggiungere gli obiettivi dell’Alleanza Occidentale in quell’area, il pubblico deve essere preparato a intraprendere una lunga guerra.(1) Parola più, parola meno, lo stesso concetto della « guerra infinita » propugnata da George W. Bush. In definitiva, si tratta di creare un contesto « prevedibile » in una situazione di crisi generalizzata del sistema capitalista, contesto che garantisca il controllo delle fonti energetiche e uno schieramento militare aggressivo nei confronti di quelle potenze che potrebbero trasformarsi in elementi in grado di controbilanciare la potenza bellica e il controllo dei mercati da parte dell’Occidente : la Russia e, in primo luogo, la Cina.

Sono dati inquietanti che parlano della instabilità crescente di un mondo attraversato dai venti della crisi economica e dal dinamismo militare statunitense. Le catastrofi che questo corso pronostica per il futuro non sembrano rivestire alcuna importanza per i pianificatori e gli economisti del sistema, preoccupati di mantenere lo status quo anche se, per farlo, devono continuare a stringere il laccio emostatico a una situazione già satura di vapori esplosivi.

In questo quadro buio s’inserisce un altro elemento che ci tocca da vicino perché conferma la constatazione che gli Stati Uniti sono tornati all’attacco in Centro e Sudamerica. L’autorizzazione che il Congresso e il governo del Costa Rica hanno concesso a Washington per servirsi del territorio nazionale come di uno spazio aperto ai fini di uno spiegamento sostanziale della forza armata statunitense, è un dato in più che ci conferma la decisione del Pentagono di consolidare la sua posizione nell’istmo centro-americano e nelle zone limitrofe. Ciò implica che l’Unione intende tornare a vigilare attivamente sulla situazione nella porzione sud dell’emisfero occidentale. Negli ultimi tempi, a causa dei suoi impegni nelle altre parti del mondo, gli Stati Uniti avevano lasciato un pò ai margini questa linea, ma ora i movimenti di centrosinistra, che hanno fatto irruzione nel subcontinente durante questa pausa, potrebbero iniziare a sperimentare difficoltà ancora maggiori rispetto a quelle affrontate in passato. Né il Dipartimento di Stato, né il Pentagono, né la CIA hanno mai potuto mandare giù questi governi, sebbene per un periodo siano stati concilianti nei loro riguardi. Ed è risaputo che la Casa Bianca ha sempre prestato grande attenzione ai suggerimenti che le vengono dalle sedi della diplomazia, dell’intelligence e del potere militare. Adesso si ha la sensazione che per Washington sia arrivato il momento di iniziare a fare ordine in questa parte del mondo, con particolare veemenza nei Caraibi. Perché se quanto si prepara in Medio Oriente alla fine accade e, addirittura cresce fino a trasformarsi in una conflagrazione ancora maggiore di quanto auspicato, per Washington sarà conveniente poter contare su una retroguardia sedata, o perlomeno, in condizioni tali da poter essere costretta all’obbedienza con le minacce o il ricorso alla forza militare.

Da queste parti non scoppieranno insurrezioni di massa né si ravviverà la vecchia e nefasta teoria del fuoco. Ma alcuni dei settori più duri dell’establishment politico-militare nordamericano preferiscono l’automatica subordinazione alle pretese di dialogo tra stati sovrani. A Washington, già non è stata vista di buon occhio – Hillary Clinton dixit – l’audace e brillante manovra di Lula finalizzata a un avvicinamento alla Turchia per proporsi  come mediatore nel conflitto con l’Iran. Anche questo, secondo alcuni analisti, potrebbe incoraggiare le correnti che vogliono risolvere il problema del Medio Oriente alle condizioni più convenienti per Washington e per Tel Aviv. Dare una lezione esemplare, bombardare i “persi” fino a riportarli ai tempi di Dario il Grande, potrebbe essere un modo per raggiungere l’obiettivo. Proprio come accaduto in Iraq.

Ma tornando all’argomento di cui ci occupiamo, che non è altro che quanto riguarda questa tormentata porzione di mondo, la mano pesante dell’Impero si sta facendo sentire. La riattivazione della IV Flotta, il golpe in Honduras e la sua legittimazione “costituzionale” attraverso dei comizi in cui una delle parti ha dovuto saltare l’appuntamento; le sette o più basi statunitensi ospitate dalla Colombia di Uribe, le manovre contro Chávez – che giovedì hanno terminato con la rottura, speriamo provvisoria, con questo paese -, e la zona franca che il Costa Rica ha ceduto all’Armata e all’Esercito degli Stati Uniti, sono segnali molto eloquenti. In quest’ultimo caso, secondo Atilio Borón, decine di navi da guerra, con le loro dotazioni di aerei ed elicotteri, più circa 7.000 marines, possono iniziare da oggi ad attraccare o a transitare in tutta libertà in questo paese latinoamericano, con la tranquillità estrema che deriva dall’accettazione da parte del Costa Rica del diritto di extraterritorialità in materia giudiziaria di cui godranno gli “ospiti” nordamericani.

La ragione addotta, per questo come per dispiegamenti di forza maggiori, è quella di combattere i cartelli del narcotraffico. Pretesto ridicolo se già esistono, perché in tal caso, non servono né portaerei, né carri armati, né migliaia di soldati, per realizzare un lavoro del quale si possono occupare i corpi speciali. L’obiettivo – lo sappiamo tutti – non è altro che quello di militarizzare la regione latinoamericana per assicurarsi un controllo totale di quest’area. L’America Latina è già divisa tra paesi e governi pieni di pretese integratrici che puntano a un’autonomia regionale, come l’Argentina, il Brasile e il Venezuela, e, altri come la Colombia, il Perù, il Panama, il Cile, il Messico, l’Honduras e il Costa Rica che riaffermano il legame con gli Stati Uniti. Riguardo a questa superpotenza si può solo sperare che influisca in misura maggiore o minore, a seconda delle circostanze, perché il continente graviti verso il secondo dei settori citati.

Facciamo i conti con questo panorama e prepariamoci, mentalmente e praticamente, a resistere alle intemperie che dureranno, sicuramente, più di un inverno.

1) Intervista pubblicata dal Financial Times, il 28/06/10.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Ilaria Poerio

Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2010/07/conflicto-colombiano-venezolano.html
http://www.enriquelacolla.com/sitio/nota.php?id=185