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Il futuro della filosofia e l’eterno presente nichilista

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 28/07/2010

1. La filosofia conduce alla verità? O meglio, ci si chiede se il conseguimento della verità sia lo scopo della filosofia. In tal caso, la speculazione filosofica, proprio perché preordinata ad una qualunque finalità veritativa, sia viziata all’origine nei suoi presupposti, nel senso che, ancor prima che inizi il suo percorso se ne siano già determinati gli esiti ed i contenuti. Tali considerazioni, sono proprie del nostro tempo, dato che ad essere messa in dubbio è proprio la sussistenza stessa della verità filosofica. Infatti, la verità filosofica è oggi in massima parte disconosciuta, in quanto risultato di una elaborazione concettuale non suscettibile di riscontri obiettivi, perché estranea alla verifica sperimentale. L’assenza di una problematica inerente i contenuti veritativi della filosofia nel nostro tempo è spiegabile, a mio avviso, in base all’orientamento materialista - progressivo che ha improntato la storia culturale dell’Occidente negli ultimi due secoli. L’avvento dell’era moderna ha comportato dapprima il disconoscimento della dimensione trascendente propria delle religioni, a favore del razionalismo e dell’empirismo prima e dell’immanentismo filosofico poi. Quindi, la scienza e la tecnologia, operanti peraltro nell’ ‘800/’900 in un ambito storico - sociale caratterizzato dal progressivo avanzare dell’economicismo liberista, hanno soppiantato la filosofia stessa, ormai relegata a materia per specialisti, avulsa dal contesto storico presente. Due fattori dunque hanno contribuito all’eclissi della verità filosofica: in primo luogo quel processo di modernizzazione definito da Max Weber come “disincantamento del mondo” che ha determinato il primato del positivismo di fine ottocento ed in secondo luogo, l’avvento delle ideologie totalizzanti del ‘900 (comunismo, fascismo, liberismo), che ha comportato l’identificazione dell’ideologia con la filosofia e quindi con le grandi narrazioni storicistiche del ‘900. Si è dunque affermata una filosofia della storia di natura ideologica, le cui finalità hanno alla lunga oscurato e strumentalizzato i fondamenti filosofici da cui presero le mosse le ideologie stesse. Poiché il senso ed il fine della storia postulato dalle verità ideologiche è venuto meno con la fine delle ideologie novecentesche, la filosofia è stata giocoforza coinvolta nel medesimo fallimento. L’ambito proprio della filosofia è quello relativo alla problematica dell’essere, problematica oggi occultata perché soppiantata da quella dell’esistere, il cui ambito è limitato all’eterno presente, avido di immediate, empiriche, mutevoli certezze che governino appunto l’esistere nel tempo. Il clima di relativismo, sia esistenziale che temporale, proprio della contemporaneità, conduce alla elaborazione di una verità di per sé autoreferente, priva cioè di contenuto veritativo, perché limitata ad una dimensione positiva dell’uomo, svincolata dall’essere. La problematica dell’essere invece dovrebbe fondarsi sulla riproposizione del pensiero dialogico - dialettico. La dialettica hegeliana postula il principio di contraddizione, la compresenza di concetti tra loro contrari, ma legati da una logica che li rende compresenti e compatibili (tesi e antitesi). Il metodo dialettico presuppone quindi la compatibilità e la comparabilità degli opposti, in quanto elementi inscindibili di un processo logico che conduce alla sintesi. Tale processo conoscitivo si rivela impraticabile nel contesto di una concettualità soggettiva relativista estremizzata che, in tanto sussiste, in quanto si riveli incompatibile ed incomparabile con l’altro da sé. Paradossalmente l’impostazione dialettica condurrebbe ad un esito nichilistico. La negazione del riconoscimento dell’altro da sé non può che generare la negazione del sé, con conseguente negazione assoluta dell’essere (un Hegel capovolto).

Se un Ponzio Pilato postmoderno mi chiedesse a bruciapelo che cos’è la verità sono sicuro che non mi sottrarrei opportunisticamente a questa domanda, ma gli darei la mia risposta, senza nessuna sapienziale arroganza, ma nello stesso tempo con tranquilla decisione. Mi occupo a tempo pieno di filosofia da quasi mezzo secolo, e riterrei moralmente ipocrita non essere ancora riuscito a dare la mia risposta. La verità filosofica è una sola, ed è il pieno riconoscimento razionale della natura solidale e comunitaria dell’essere umano, considerato universalisticamente nello spazio (geografia) e nel tempo (storia). Questa è l’unica verità filosofica che conosco, ma so bene che è difficile che possa essere accettata, per un insieme di ragioni di cui qui mi limito a ricordarne tre.
In primo luogo, la verità filosofica deve essere tenuta ben distinta da altre categorie logiche spesso frettolosamente scambiate per la verità filosofica stessa, come la certezza (l’acqua bolle a cento gradi, il sole è una stella, la luna è un satellite, la glicemia è un segnalatore del diabete, eccetera), l’esattezza (due più due fa quattro, Parigi è la capitale della Francia), la sincerità (io ti amo), eccetera. La verità filosofica c’è soltanto quando si da un giudizio ad un tempo conoscitivo e moralmente valutativo (in linguaggio tecnico, una unità di ontologia e di assiologia), mentre la semplice conoscenza in assenza di contestuale valutazione morale è caratteristica soltanto della cosiddetta “scienza”, nella doppia forma delle scienze naturali (Galileo, Newton, Darwin, Einstein, eccetera) e delle scienze sociali programmaticamente svalutative (Max Weber).
In secondo luogo, la verità filosofica, oltre ad esserci soltanto nel primo caso sopra segnalato (con esclusione dell’accertamento scientifico, della coerenza e dell’esattezza connotativa, che per loro natura escludono la valutazione morale), c’è soltanto quando pone una pretesa di universalità razionalmente e dialogicamente sostenibile, e non c’è invece quando si limita a manifestare una preferenza personale senza pretesa di universalità (del tipo: a me piace questo e quest’altro, mentre non mi piace questo e quest’altro).
In terzo luogo, infine, è del tutto ovvio che la principale obiezione che mi può essere fatta può essere più o meno questa: sostenendo che la verità filosofica consiste nel pieno riconoscimento universalistico della natura solidale e comunitaria dell’essere umano tu non fai altro che manifestare una tua legittima opinione (i sofisti greci e Nietzsche, ad esempio la pensavano in modo esattamente opposto). Questa tua opinione è però del tutto indimostrabile, e quindi resta una semplice opinione soggettiva, non certo la pomposa, metafisica, premoderna ed inesistente verità, da abbandonare ai preti ed ai profeti ideologici.
Tutto questo può sembrare ovvio, ma non lo è affatto. In realtà, questa obiezione relativistica sorge all’interno di un processo moderno (che va storicamente dal Cogito seicentesco di Cartesio all’Io penso settecentesco di Kant) che riduce il tema della verità al tema della certezza del soggetto, o più esattamente alle procedure verificabili delle modalità di accertamento di un soggetto preventivamente reso generico ed astratto e costituito in modo formalistico sulla base di una integrale destoricizzazione. Ridotta la verità a certezza, è evidente che solo le certezze possono essere dimostrate sulla base dell’esperimento e della matematizzazione quantitativa del mondo. Il relativismo viene cosi fondato su basi integralmente gnoseologiche ed epistemologiche. Su questa base, solo le scienze della natura possono essere “vere” (anche se ovviamente sempre rivedibili, verificabili, falsificabili e migliorabili mediante ipotesi sempre più adeguate). Tutto ciò che non è sottoponibile ad esperimento ed a matematizzazione è per sua natura opinabile, e quindi non è vero. Il vero, se esiste, è soltanto il certo e l’esatto. La filosofia è cosi ridotta a teatro retorico di irrilevanti opinioni. Da questo vicolo cieco non se ne esce se non si ha il coraggio di respingerne il presupposto, e cioè la riduzione della verità filosofica a certezza scientifica verificabile. Ma è un’operazione che non fa quasi nessuno, perché sono tutti spaventati dall’accusa infamante di essere dei metafisici premoderni, come se la trasformazione attuata da Kant dell’ontologia veritativa in gnosologia accertativa fosse l’equivalente del giudizio di San Pietro che decide insindacabilmente chi può entrare in paradiso e chi non può farlo. Ma se non ci si lascia spaventare da questa grottesca ingiunzione tutto diventa immediatamente più chiaro.
La modernità borghese-capitalistica non sa che farsene della verità (che gli antichi concepivano in modo filosofico ed i medioevali in modo religioso) per il semplice fatto che la legittimazione simbolica della società capitalistica non è più di tipo filosofico (la verità come prodotto della ragione umana) o di tipo religioso (la verità come corretta interpretazione della natura di Dio), ma è di tipo integralmente economico. Il fondamento è allora il nesso fra proprietà privata e valore di scambio delle merci (con il lavoro umano come prima merce), e questo fondamento per sua natura non è veritativo, in quanto basta accertarsi del fatto che non c’è nulla di empiricamente accertabile al di la della proprietà privata e del valore di scambio. La metafisica è cosi integralmente trasformata nel nesso fra empirismo ed utilitarismo, l’ontologia diventa gnoseologia, la gnoseologia diventa la nuova teologia del capitalismo e degli apparati universitari normalizzati (Lukacs) ed al posto della vecchia trinità viene insediata la separazione fra categorie dell’essere (ontologia veritativa) e categorie del pensiero (epistemologia accertativa).
Il discorso sarebbe lungo e qui è appena cominciato. In sintesi, se qualcuno pensa di poter parlare di verità filosofica, e nello stesso tempo accetta il terreno del kantismo, del positivismo e del niccianesimo, ebbene, costui si sbaglia, ed è come un topolino che, attratto dal pezzo di formaggio, si chiude nella gabbia da solo.
Sostenere apertamente che la filosofia è una ideazione integralmente veritativa in senso classico platonico-hegeliano (e non scettico-relativistico) e darne anche una formulazione determinata (come ho fatto in precedenza) provoca immediatamente sconcerto ed irritazione, non solo perché viola la regola postmoderna (il postmoderno sta ai sofisticati intellettuali disincantati come Padre Pio sta al popolo dei semplici credenti rimasti fermi alla scuola dell’obbligo), ma anche perché sembra un atto di presunzione tipico di chi “ritiene di avere la verità in tasca”, e magari la vuole anche imporre con inevitabili esiti autoritari e violenti. Ma non è affatto cosi. Ad esempio io ritengo che la filosofia sia una ideazione conoscitiva e veritativa, e non mi sottraggo opportunisticamente dal darne una formulazione pubblica, ma non ritengo affatto di avere la verità in tasca, ed anzi sono dispostissimo a sottoporla ad una pubblica discussione seria ed approfondita. Semplicemente ritengo (in compagnia con i “classici” come Platone, Aristotele, Spinoza e Hegel) che senza una comune intenzionalità veritativa il cosiddetto dialogo non è che un torneo narcisistico di trovate retoriche più o meno brillanti.
La filosofia deve quindi essere liberata da due gendarmi che la tengono ammanettata, la scienza naturale e l’ideologia politica. La scienza naturale è una grande ideazione conoscitiva, che però comprende soltanto la conoscenza e non la valutazione morale della totalità (totalità che l’approccio kantiano e poi positivistico valuta come inconoscibile). La filosofia è una interpretazione olistica della totalità, non un rispecchiamento delle caratteristiche della natura astronomica, fisica, chimica o biologica, e la sua sottomissione ai canoni del rispecchiamento scientifico la uccide, come un pesce verrebbe ucciso dall’aria o l’uomo dall’acqua. La riconversione della verità in certezza del soggetto (Cartesio, Kant, positivismo) oppure la riduzione della verità a semplice interpretazione (Nietzsche ed il postmoderno) non sono semplici “errori”, ma sono funzioni strutturali e sistemiche della riproduzione capitalistica, che non ha bisogno della verità ed anzi la aborre, bastandole la relatività del potere d’acquisto delle merci da parte dei soggetti individualizzati.
L’ideologia è invece una patologia diversa dalla precedente. Mentre il relativismo nasconde l’assolutezza della merce e del suo dominio, l’ideologia generalmente è solo una teologia della storia divinizzata, per cui alla fine la stessa storia non esiste più, e come ha detto un acuto commentatore novecentesco, si ha “una storia spogliata della sua forma storica”. In proposito, il congedo meditato dal dominio ideologico è sempre una precondizione necessaria (anche se non sempre sufficiente) per un ritorno alla filosofia correttamente intesa. L’ideologizzazione della filosofia è però stata una peste novecentesca, oggi tramontata, per cui, pur respingendola in modo netto (personalmente, sono un “sopravvissuto” dalla riduzione ideologica della filosofia effettuata nel novecento dal marxismo, e mi considero vaccinato come lo era dalla peste Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi), non la considero oggi un nemico pericoloso nella congiuntura storica attuale (2010). Oggi il nemico principale della filosofia è la sua riduzione positivistica a semplice supporto epistemologico alle scienze della natura (che per procedere non ne hanno comunque nessun bisogno), patologia gemella a quella del chiacchiericcio scettico-universitario di tipo nichilista e relativista. Senza un ritorno ai classici non vedo per ora nessuna salvezza.

2. Come già affermato, l’oggetto della filosofia è l’essere. E l’essere in tanto sussiste in quanto verità. Quindi la vocazione della filosofia è quella della elaborazione di processi logico - concettuali il cui fine è il pervenire ad una verità universalmente riconosciuta. I sistemi filosofici, sin dall’antichità, sono stati concepiti come inclusivi della totalità della conoscenza, predisposti dunque alla rappresentazione e alla comprensione della totalità dell’essere. L’avvento della modernità ha generato una progressiva moltiplicazione di scienze specialistiche che hanno minato profondamente la unitarietà e la globalità del sapere, proprio della scienza filosofica. Il risultato di tale evoluzione è stato quello della proliferazione di tante scienze autoreferenti, tutte portatrici di una propria verità parziale. Tutte le singole verità sussistono, le une accanto alle altre, sviluppandosi ognuna in base ai propri metodi e procedimenti tra loro incompatibili. Ogni scienza è oggi chiusa in sé stessa, nella consapevole ignoranza delle altre, dato che la commistione tra le varie scienze condurrebbe ad inficiare la linearità e coerenza logica dei singoli processi conoscitivi. Dinanzi ad un medesimo oggetto di ricerca abbiamo quindi una serie di analisi diversificate tra loro non assimilabili data la diversità dei rispettivi presupposti. Quindi una medesima problematica comporta un punto di vista scientifico, economico, sociologico, psicologico, filosofico ecc… L’unitarietà originaria del sapere filosofico si è dunque disintegrata in una estrema parcellizzazione della conoscenza in tante verità per loro logica interna non inclusive. Ogni scienza, nel proprio atto fondativi contiene in sé la propria finalità e le proprie prospettive. Non vuole essere rappresentativa di una totalità, semmai è indotta ad affermare le proprie ragioni unilaterali per escludere e soppiantare altre impostazioni di altre scienze. Il campo della conoscenza filosofica è stato ristretto ad un sapere che si esaurisce nelle proprie elaborazioni fini a sé stesse, ma poiché tale condizione risulta essere innaturale per la filosofia, quest’ultima, data la diversità del proprio oggetto e metodo di ricerca conoscitiva, finisce per essere mai compatibile con le altre ed essere, in conseguenza, emarginata e vanificata nei suoi presupposti. Ciò che diversifica la filosofia dalle altre scienze, è proprio di non avere finalità presupposte, in quanto portatrice di una conoscenza e coscienza dell’essere che non può essere inglobata in qualsivoglia specialistico e riduzionistico processo conoscitivo. La filosofia ha infatti per oggetto la creazione di modelli rappresentativi della totalità del reale. La filosofia è scienza dell’essere in quanto la sua vocazione originaria è quella di costruire delle sintesi del reale che includano e trascendano le finalità parziali delle varie categorie della conoscenza. La filosofia prende le mosse da una ricerca di senso propria della natura umana che si interroga, senza mai risposte definitive, intorno al proprio essere nella realtà da cui poi scaturiscono le finalità della scienza, della politica, dell’arte e  di ogni qualsivoglia categoria del pensiero e dell’agire umano nel mondo.
Sono pienamente d’accordo sul fatto che l’Essere (scritto maiuscolo, e quindi sostantivizzato) è il principale oggetto della filosofia. Se scriviamo “essere” minuscolo il termine diventa un verbo ausiliario che fa generalmente da copula fra sostantivo ed aggettivo (la ragazza è bella) o stabilisce una modalità empirica di esistenza fattuale (Londra è in Inghilterra). Questa riduzione dell’essere a irrilevante copula è non a caso proposto dagli avversari del carattere veritativo della filosofia (il più recente è Andrea Moro, Breve storia del verbo essere, Adelphi, Milano 2010), ma costoro non scoprono assolutamente nulla, perché ad esempio nella lingua turca il verbo “essere” non esiste nemmeno e non si può neppure sostantivare, riducendosi a suffisso incorporato nell’aggettivo (risparmio possibili esemplificazioni didattiche per pietà verso il lettore).
La tradizione filosofica occidentale, vecchia ormai di duemilacinquecento anni, nasce invece da una sostantivizzazione del verbo essere (che diventa quindi l’Essere con la maiuscola, alla faccia dei nominalisti e degli empiristi). Da Parmenide in poi l’Essere rappresenta in forma metaforica la permanenza e la stabilità della verità nel tempo, o se si vuole quella parte della verità che non può essere corrosa e distrutta dalla morte e dal tempo. E tuttavia coloro che si limitano a coniugare il verbo essere in modo astrattamente logico, mostrandone l’incompatibilità con il provenire e con il finire nel Nulla (ad esempio in Italia Emanuele Severino) non ci aiutano assolutamente ad impadronirci concettualmente del problema, ed anzi ci portano verso una strada sbagliata. Il termine di Essere nasce nella Grecia antica (Parmenide) come concetto integralmente storico, politico e sociale, ed indica la perfezione immutabile della buona legislazione pitagorica il cui abbandono porterebbe alla dissoluzione della comunità politica, dissoluzione metaforizzata con il termine di Nulla. I filosofi antichi si pensavano ed erano legislatori comunitari, e pertanto non erano assolutamente “intellettuali” nel senso moderno del termine (cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali, Bollati, Boringhieri, Torino 1992). In quanto concetto politico comunitario il termine di Essere riflette unicamente la concezione greca della buona vita associata (eu zen) dell’uomo come animale politico (politikòn zoon).
Nell’antica Grecia mancava una religione monoteistica rivelata dotata di scritture sacrali di riferimento (tipo la Bibbia o il Corano) di cui una casta di sacerdoti potesse rivendicare il monopolio interpretativo, per di più dotato di strutture poliziesche coattive (inquisizione, eccetera). È chiaro che la mitologia greca non si prestava alla funzione di religione monoteistica coattiva di riferimento, ed anzi il suo carattere apertamente “mitico” faceva da presupposto per una libera decostruzione simbolica di tipo razionalistico (logos). L’umanesimo greco (se ne veda la brillante interpretazione del filosofo italiano Luca Grecchi) non si poteva sviluppare sulla base “mimetica” del riferimento ad una divinità personale trascendente (Tommaso d’Aquino, Josef Ratzinger, eccetera), ma si costruiva razionalmente sulla base del primato del solidarismo politico comunitario sugli interessi privati (e si veda l’opportuna distinzione aristotelica fra economia e crematistica, ignota alla autofondazione moderna dell’economia su sé stessa di David Hume e di Adam Smith).
I pensatori classici che vengono dopo Parmenide (Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro, gli stoici) contestano certamente la sua concezione di Essere (anche e soprattutto perché il loro contesto storico e sociale non può più essere quello della buona legislazione pitagorica immutabile da conservare nella sua perfetta stabilità), ma mantengono interamente la concezione di Essere (sostantivato, e quindi non kantianamente diviso fra categorie ontologiche e categorie gnoseologiche), inteso come metafora filosofica astrattizzata dell’unità inscindibile della comunità politica. Persino Epicuro, che è il solo filosofo classico a porsi al di fuori della sfera politica propriamente detta, di fatto si pone anche lui come un ideale legislatore comunitario, perché il suo gruppo solidale di amici può servire da modello per una futura convivenza umana priva di istituzioni coattive (e dal modello di convivenza amicale epicurea derivano, sia pure con numerose mediazioni storiche, le concezioni di Fichte e di Marx sulla futura possibile estinzione dello stato).
È del tutto normale che l’avvento del cristianesimo portasse ad una progressiva identificazione del concetto greco di Essere con la divinità monoteistica rivelata, anche se questo contesto non viene comunque mai integralmente “desocializzato” (come in Hobbes e Locke) e “destoricizzato” (come in Cartesio e Kant) come avverrà più tardi con l’avvento del modello capitalistico di società. Ma questo richiede una riflessione ulteriore.
Paragonata alla luminosa chiarezza razionale dell’insuperabile filosofia greca classica la filosofia medioevale può certo essere interpretata in termini di decadenza (o più pudicamente di abbassamento di livello), dal momento che tutte le precedenti categorie filosofiche vengono reinterpretate e tradotte in termini di categorie teologiche, ed in questo modo vengono sottomesse alla “sorveglianza” di odiosi apparati ecclesiastici. Io stesso ho sostenuto a lungo questa tesi come professore di filosofia e storia nei licei, ma mi sono progressivamente reso conto che si trattava di una semplificazione “laicista”. Sia pure incapsulato all’interno di un pesante apparato categoriale teologico il pensiero francescano e domenicano europeo (e più ancora quello averroista) mostra una capacità di interpretazione della totalità sociale molto maggiore del cosiddetto “pensiero moderno”, ed in ogni caso molto maggiore del kantismo, del positivismo e del postmoderno. Se si esamina colui che resta forse il più grande filosofo medioevale, l’italiano Dante Alighieri, vediamo che le categorie  teologiche non solo sono mescolate con una insuperabile espressività poetica (e qui le distinzioni di Benedetto Croce appaiono inadatte a cogliere l’unità della sua arte), ma anche notiamo che le categorie teologiche sono sempre categorie storiche e sociali, laddove il kantismo, il positivismo e il postmoderno sono sempre caratterizzati dalla desocializzazione (il punto di vista illusorio dell’individuo posto robinsonianamente come originario) e dalla destoricizzazione (la costruzione astratta e formalistica del soggetto ridotto invariabilmente ad unità di accertamento gnoseologico di un dato conoscitivo che si vuole ad ogni costo “neutrale”).
Senza la massiccia adozione della filosofia greca il cristianesimo non avrebbe potuto distinguersi di fatto dall’ebraismo, cui è ignoto il concetto di incarnazione e quindi di trinità. A qualcuno questo potrebbe forse anche piacere (ad esempio agli sciocchi che vorrebbero una integrale “de-ellenizzazione” del cristianesimo e che al posto del cristianesimo vorrebbero un insipido monoteismo ribattezzato ebraico-cristiano come base di una identità occidentale anti-islamica), ma a me no. E non solo no, ma mille volte no.
Detto questo, non tutto il pensiero detto impropriamente “moderno” ha perduto il concetto di Essere e l’intenzione veritativa della filosofia classica. Si tratta praticamente della sola scuola filosofica di Fichte e di Hegel, cui aderisco. Lo stesso Marx, filosoficamente parlando, mi interessa esclusivamente in termini di pensatore tradizionale (non progressista, e non certamente laico) e di filosofo idealista (e non materialista, che è poi di fatto sempre sinonimo di positivista).
La tua insistenza sul rapporto tra filosofia e conoscenza valutativa della totalità storica e sociale è assolutamente corretta ed opportuna. C’è filosofia soltanto quando siamo in presenza di una pretesa dialogica e razionale, e quindi potenzialmente universalizzabile senza violenza, di una valutazione veritativa della totalità storica e sociale. Per la descrizione dei drammi individuali e dei grandi affreschi storici la letteratura è molto migliore della filosofia, e Dickens, Manzoni, Flaubert e Tolstoj sono migliori di Hegel, Marx e Heidegger. Per questo il cosiddetto “esistenzialismo” non è e non è mai stato una corrente filosofica, ma una corrente letteraria che utilizzava impropriamente una terminologia filosofica. E quindi bisogna valutare molto negativamente la corrente principale della filosofia moderna degli ultimi trecento anni, che ha fatto il possibile per delegittimare la categoria della totalità (con poche eccezioni, fra cui Hegel ed anche parzialmente Marx quando non si lascia gravitazionalmente attirare dal positivismo antifilosofico, peste del marxismo successivo, un povero positivismo di sinistra a base gnoseologica neoikantiana). Si tratta di un fenomeno paragonabile alla catastrofe della nazionale di calcio italiana ai Mondiali del Sud Africa del giugno 2010. Questa catastrofe è avvenuta in due momenti successivi. Prima è stato costruito artificialmente un soggetto conoscitivo formalizzato, del tutto destoricizzato e desocializzato (Cartesio, Kant), titolare di una proprietà privata originaria fondata sul lavoro individuale (Locke) e di una autofondazione su se stessa dell’economia politica non più distinta dalla semplice crematistica (Hume). Poi si è distrutto questo soggetto astratto divenuto inutile (Hume, Nietzsche), ed il colpo di grazia è stato dato dalla cosiddetta “filosofia della mente” anglosassone, che gli ha tolto definitivamente ogni storicità e socialità (per questo si veda il recente significativo saggio di E. Boncinelli e M. Di Francesco, Che fine ha fatto l’io, Editrice San Raffaele, Milano 2010). Con la cosiddetta filosofia della mente si è toccato veramente il fondo. Ora si tratta di cercare di risalire.

3. L’uomo contemporaneo, quale prodotto ultimo di un “progressivo processo di liberazione” che ha comportato la sua “liberazione” dall’oscurantismo religioso prima e totalitarismo delle ideologie poi, dovrebbe rappresentare la fase compiuta dell’individuo libero, razionale, principio e fine di sé stesso, in quanto creatore autonomo del proprio destino teorizzato dalla cultura liberale. Ormai sepolte religioni ed ideologie, l’uomo contemporaneo sarebbe però privo di ogni alibi riguardo agli orrori delle guerre, delle stragi, dei genocidi del passato,che tuttavia continuano a perpetuarsi in nome della libertà, dei diritti umani, dell’economia del libero mercato. Il dominio del capitalismo su scala mondiale, non ha certo né unificato né redento l’umanità. L’individuo ormai liberato da ogni fondamento metafisico non può infatti né decidere né determinare alcunché nel contesto di una società dominata da un libero mercato in cui l’uomo è ridotto a elemento del processo di produzione - consumo. Esso stesso è divenuto “fattore di creazione del valore” e la stessa economia di mercato si è trasformata in “società di mercato”, poiché le dinamiche dei processi economici hanno invaso ormai tutti gli ambiti dell’attività umana. Tale esito è il necessario e logico compimento già insito nelle premesse della ideologia liberale. Il liberismo ha prevalso sulle ceneri delle utopie ideologiche, non trovando dinanzi a sé più alcun antagonista e ha imposto quindi un sistema economico, politico e culturale già in crisi e storicamente superato nel secolo scorso. Il progressismo liberista è stato oggetto di una nemesi storica. Anziché creare evoluzione e progresso ha imposto una restaurazione tecnologicamente e ideologicamente aggiornata dallo sponsor globale USA. L’individuo è dunque tale solo nell’ambito di un individualismo atomistico che ha reciso i legami comunitari e pertanto, l’individualismo liberale si è imposto come principio di negazione della innata natura sociale dell’uomo. L’individuo è tuttavia alla base di ogni problematica di ispirazione umanistica, che ponga al centro della sua impostazione l’uomo. L’individuo stesso, da te definito “unità minima di resistenza”, è oggi soggetto ad un processo di disgregazione assai preoccupante. Si definisce in - dividuo una unità umana di per sé indivisibile. Esso tuttavia è oggi oggetto di trasformazioni manipolatorie che ne determinano la scissione mediante la sua alienazione in tanti io quante sono le molteplici personalità funzionali ai processi di massificazione. Prendiamo a prestito il concetto di “dividuo” esposto nel libro di Marco Della Luna “Neuroschiavi”, per mettere in luce la labilità psicologica collettiva e la plasmabilità della personalità dell’uomo contemporaneo. Esso è materia prima per la creazione di tanti io virtuali prodotti dalle tecniche di persuasione mediatiche, da una economia che richiede flessibilità e funzionalità sempre più diversificate per essere compatibili con le sue rapide trasformazioni. L’unità inscindibile dell’individuo è oggetto di una vivisezione globale le cui conseguenze, dal punto di vista antropologico e storico - sociale sono ancora imprevedibili.

La tua terza domanda presuppone una reinterpretazione plausibile del rapporto fra l’individualità e la totalità storica e sociale in un periodo storico caratterizzato proprio dalla perdita esplicita di questo rapporto, che invece faceva da base sia al pensiero antico (in forma politica) sia al posteriore pensiero medioevale (in forma religiosa). Per questo propongo di prendere in considerazione il recente saggio dell’oligarca finanziario Eugenio Scalfari (Per l’alto mare aperto, Einaudi, Torino 2010). Lo prendo in considerazione in forma semplicemente contrastiva, perché la mia interpretazione della modernità è assolutamente opposta a quella di Scalfari, e quindi la mia posizione può essere compresa proprio in rapporto contrastivo con la sua, una sorta di Bibbia laica e laicista prête-à-porter, quanto di peggio io possa concepire nei miei peggiori incubi filosofici notturni.
Scalfari fa iniziare la modernità con lo scetticismo di Montaigne, poi perfezionato e sistematizzato da Diderot. Si tratta di una mossa per nulla ovvia ed innocente. Anch’io leggo ed apprezzo Montaigne e Diderot, ma non mi sognerei mai di far cominciare la filosofia moderna con una mossa scettica originaria, un po’ come i manuali di storia della filosofia che la fanno incongruamente e follemente cominciare con l’acqua di Talete. Ma per Scalfari la mossa scettica originaria è necessaria, perché serve a fondare la sua interpretazione della Modernità, compendiabile in termini di liberazione dell’Individuo dagli Assoluti (prima di tutto il Dio monoteistico cristiano, e poi la sua imperfetta secolarizzazione nella teodicea marxista della Storia).
La Modernità ha quindi un fondamento positivo, l’Individuo, ed un fondamento negativo, gli Assoluti. Scalfari non si rende probabilmente conto che questa dicotomia è soltanto una povera secolarizzazione positivistica della precedente dicotomia religiosa cristiana fra un principio positivo, Dio, ed un principio negativo, il Demonio. Ma questo caratterizza la falsa coscienza del pensiero cosiddetto “laico”, che dalla religione prende sempre sistematicamente soltanto il peggio (la sicumera e la pretesa assolutistica) e tralascia sempre sistematicamente il meglio (la considerazione veritativa della totalità in termini di carità, solidarietà, cominità sulla base ontologica dell’unità metafisica fra conoscenza e valutazione morale).
Secondo la migliore tradizione religiosa (il laicismo individualistico e scettico, nichilista e relativista è infatti la peggiore delle religioni mai esistite nella storia) esiste una Origine, e questa creazione simbolica del mondo moderno è la liberazione dell’Individuo dagli Assoluti. La totale incapacità di Scalfari di effettuare una deduzione sociale delle categorie del pensiero fa si che il nostro oligarca finanziario non possa capire la natura destoricizzata e desocializzata del pensiero moderno, che presuppone in modo ultrametafisico un soggetto costituito in forma astratta e formalizzata (il Cogito di Cartesio, poi genialmente criticato da Vico, l’Io Penso di Kant, poi genialmente criticato da Fichte e da Hegel) ed omogeneizza l’intero spazio con il materialismo e l’intero tempo con il progressismo (di cui Scalfari non può capire l’affinità funzionale e strutturale con la legittimazione della proprietà capitalistica). Ma è bene mostrare brevemente in modo contrastivo dove cadono i due principi metafisici scalfariani, l’Assoluto e l’Individuo.
Iniziamo dall’Assoluto. Scalfari inneggia alla demolizione illuministica del vecchio Assoluto religioso cristiano, ignorando il fatto che gli illuministi stavano dando il colpo di grazia ad un vegliardo morente, perché questo assoluto religioso, che aveva legittimato simbolicamente per un millennio in Europa la società feudale e signorile, non legittimava ormai più nulla, perché il capitalismo non si legittima più con l’assolutezza della religione ma con l’assolutezza dell’economia. La fondazione dello scambio capitalistico su se stesso, in assenza di fondamenti religiosi (l’esistenza di Dio), politici (il contratto sociale) e filosofici (il diritto naturale), equivaleva alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, perché era egualmente tautologica ed autoreferenziale. Questa prova ontologica dell’eternità del capitalismo fu preparata teoricamente da David Hume, e poi perfezionata economicamente da Adam Smith (la mano invisibile del mercato, equivalente al secolarizzato della teoria di Leibniz sull’armonia prestabilita di Dio).
Gli Assoluti non erano cosi per niente distrutti, ma semplicemente ad un assoluto se ne sostituiva un altro, all’inizio apparentemente meno invasivo e pericoloso (il “dolce commercio” contro le pressioni guerresche nobiliari e le guerre di religione), ma poi con il tempo (e basta vedere la scandalosa diseguaglianza delle ricchezze nel mondo attuale) sempre più invasivo e distruttivo. Altro che distruzione razionialistica degli Assoluti da parte del libero pensiero illuministico! Ma almeno l’illuminismo ha giocato un ruolo storicamente positivo nella delegittimazione di strutture effettivamente ingiuste e dispotiche, mentre Scalfari non è più per nulla un illuminista o un loro successore, in quanto fa parte integrante ed organica delle oligarchie dominanti della globalizzazione, e cioè del meccanismo apparentemente anonimo ed impersonale della svalorizzazione e della precarizzazione del lavoro umano. Il distruttore degli Assoluti è semplicemente l’apologeta di un nuovo ed odioso Assoluto, laddove il solo vero “assoluto” degno di questo nome è la natura comunitaria e solidale del genere umano.
Anche l’Individuo divinizzato da Scalfari non si sente troppo bene. La dinamica dialettica degli ultimi due secoli lo ha progressivamente sottomesso al dispotismo di insiemi economici e sociali automatizzati, e questo lo hanno almeno capito i francofortesi ed Heidegger, e anche se i primi si sono autorinchiusi in un rinvio illimitato della prassi ed il secondo è arrivato alla sapienziale (ed ipocrita) conclusione che solo un Dio può ancora salvarci (il mantra di Umberto Galimberti, complementare alle pagatissime conferenze della parte più colta ed inquieta dell’oligarchia finanziaria dominante). Liberatosi di Ratzinger, consegnate le plebi pre-illuministiche a Padre Pio, al miracolo di San Gennaro ed alla Sindone di Torino (un manufatto medioevale di accertata origine), l’individuo scalfariano si è riconsegnato ad un nuovo assoluto, la globalizzazione, la speculazione finanziaria, il “giudizio dei mercati”, Moody’s, la Goldman Sachs, la religione olocaustica di colpevolizzazione illimitata dell’Europa costellata di basi atomiche USA, eccetera. Scalfari si rende vagamente conto che il suo individuo volterriano non legge più Goethe o Montaigne, ma ha subito un processo di involgarimento berlusconiano costellato di veline, escort e semplici puttane. È quindi spenglerianamente preoccupato per la decadenza della civiltà. Non nascondo personalmente di preferire astrattamente il volgare Berlusconi alla sua spocchia elitaria, e considero il servilismo dei suoi recensori (da Barbara Spinelli ad Alberto Asor Rosa) l’ennesima manifestazione dell’inguaribile servilismo della casta degli intellettuali, che non perdono mai occasione per far capire di non capire mai assolutamente nulla dei veri problemi filosofici epocali cui siamo confrontati.

4. La filosofia ha un futuro? Dal corso delle cose presenti, sembra che la risposta negativa sia inevitabile. L’avvento della società globalizzata, ha determinato il prevalere del capitalismo assoluto, che è tale in quanto unico modello di sviluppo economico e sociale. In tale contesto epocale si è assistito, dopo la fine delle ideologie, ad un eclisse (o tramonto?) del pensiero filosofico forse mai riscontrabile nella storia dell’Occidente. La filosofia, spogliata del suo contenuto veritativo, estraniata dalla sua dimensione storica, è stata espropriata della sua originaria vocazione. Quella di costituire la scienza dell’essere. Quindi la filosofia attuale ha come oggetto della sua speculazione la contingenza mutevole e provvisoria di un eterno presente, concepito come perpetuo divenire destoricizzato. Ma ci si domanda allora, se una filosofia, che prescinda da un processo di razionalizzazione della realtà, possa definirsi tale. Così come un pensiero che intraprenda una analisi del presente, privo della sostanza dell’essere e svincolato dalla storia, non si configuri come una sorta di nichilismo immanente senza soluzioni. Una filosofia che, in un periodo storico caratterizzato dalla adesione acritica all’esistente economico globalizzato, si inserisca nella dimensione della necessità, non è più filosofia. Infatti, la filosofia attuale si è estraniata dalla problematica veritativa e si astrae dalla ricerca di senso, ha la funzione di trovare conferme e creare legittimità ad un esistente globalizzato che non abbisogna di alcun imprimatur filosofico. Questo latente nichilismo di fondo lascia però inevasa la domanda di senso di una umanità che, per quanto alienata e manipolata, non potrà mai fare a meno di interrogarsi sul senso e sul destino di sé stessa. La filosofia non potrà mai essere soppressa, perché l’uomo non potrà mai essere sradicato dalla sua dimensione storica e dalla necessità di interpretare l’origine e il fine di sé stesso. Il concetto espresso da M. Badiale e M. Bontempelli “pensare il presente come storia” è fondamentale per comprendere la necessità dell’uomo odierno di ritrovare una propria dimensione nel divenire della storia ed elaborare quel pensiero fondamentale che fornisca una interpretazione logico - concettuale degli eventi del passato e del presente e, nel contempo, possa delineare il senso di un possibile futuro. Il nichilismo generato dall’economicismo totalizzante del presente, nella sua azione devastatrice, non potrà, alla fine, col progressivo collassare di un modello socio - economico antistorico ed antiumano, che negare sé stesso. In tal modo, il nulla nichilistico del presente non potrà che far rivivere l’essere, quale termine logico - necessario di contrapposizione dialettica. Disse infatti Dostoevsky che non si può conoscere l’essere se non si è provata la vertigine del nulla.

Prese nel loro insieme, al di là di qualche individualità statisticamente irrilevante, le strutture universitarie mondiali delle facoltà di filosofia sono diventate un Sacerdozio dell’Insensatezza, la cui finalità è proprio quella di diffondere fra le govani generazioni l’idea che la totalità non esiste (in quanto Kant insegna che è comunque gnoseologicamente inconoscibile perché non spazio-temporalizzabile fenomenicamente), e se per caso qualcuno volesse ad ogni costo concepirla è totalmente insensata, perché Dio è morto, chi ci crede può facilmente diventare un pericoloso fondamentalista (solo gli ebrei sono parzialmente esentati, in quanto sacerdoti dell’espiazione di un Male Assoluto imparagonabile a qualunque altro) eccetera.
Sarebbe ingenuo credere il contrario. In una società liberalizzata nei costumi sessuali individuali, ma nello stesso tempo ferreamente organizzata sia pure in forma apparentemente flessibile, sarebbe strano che le oligarchie finanziarie dominanti non spingessero la loro influenza indiretta anche sui temi della preparazione filosofica delle giovani generazioni. La domanda di senso sulla totalità storica e sociale in cui viviamo rinasce infatti in ogni generazione, per cui una società fondata su fondamenti insensati non può che promuovere l’equazione Sensatezza = Insensatezza e “spegnere il microfono” a tutti coloro che invece sostengono che la filosofia ha come oggetto esclusivo la verità dell’essere della totalità. In quello che dico non c’è alcuna enfasi catastrofica, e soprattutto non c’è nessuna teoria del complotto. Non penso affatto che il capitalismo sia una sorta di Organizzazione Spectre alla James Bond che pianifica maniacalmente la consegna delle cattedre di filosofia a postmoderni nichilisti, ad epistemologi irrilevanti ed a filosofi della “mente” del tutto inutili. In linguaggio althusseriano, si tratta di una causalità sistemica e strutturale, non di un complotto diretto da oligarchi che hanno capito che la gnoseologia di Kant ed il nichilismo di Nietzsche sono per loro elementi culturali di legittimazione più affini di quanto lo possano essere la dialettica veritativa di Hegel o la teoria dell’alienazione di Marx. E quindi, nessuna paranoica teoria del complotto. Il fatto che uno dei nemici principali della filosofia sia l’apparato universitario ed editoriale delle facoltà di filosofia è per me un dato strutturale, e non una mania complottistica e paranoica. Il sistema in cui viviamo deve sistematicamente favorire l’assolutezza dell’economia, la privatizzazione della religione, l’insensatezza della filosofia, la riduzione calcistica del nazionalismo identitario, l’abolizione delle differenze fra alta cultura e cultura popolare, l’omologazione multiculturalistica su basi anglosassoni, la prevalenza simbolica delle minoranze sessuali sulle normali banali famiglie, la superiorità dei pubblicitari sugli insegnanti, la droga e gli psicofarmaci, la riduzione del pacifismo ad ostensione ritualizzata di tipo belante-pecoresco (con ai margini rotture di vetrine da parte di esagitati e marginali in passamontagna), eccetera. La sorte attuale della filosofia deve quindi essere inquadrata all’interno di almeno una trentina di determinazioni sistemiche e strutturali, e non può essere indagata separandola da queste ultime.
Il concetto di fine della filosofia deve essere accuratamente distinto da quello di crisi della filosofia (do per scontato che per filosofia intendo soltanto l’interrogazione veritativa della totalità, metaforizzata con il termine di Essere, mentre escludo esplicitamente ogni tipo di retorica sofistica, gnoseologica, relativismo, nichilismo ed esistenzialismo). La fine della filosofia è semplicemente impossibile (come peraltro la fine dell’arte o della religione), perché la domanda individuale e collettiva di senso fa parte della natura umana come la sessualità o l’amore materno. Chi ne parla  seriamente è semplicemente uno sciocco che non sa resistere alle mode a rapida obsolescenza (oggi parlare di “fini” è un genere giornalistico per la categoria più stupida del mondo, quella degli intellettuali postmoderni). Le crisi filosofiche invece esistono, e sono “ricorsive” (per usare un termine che La Grassa usa per l’economia). Tutta la storia della filosofia occidentale può essere ricostruita sulla base di crisi ricorsive. Oggi siamo però di fronte ad una situazione che esclude ogni teoria della semplice ricorsività, perché siamo di fronte ad una novità qualitativa, quella di una socialità dominata esclusivamente da una dittatura assoluta e totalitaria di una crematistica finanziaria che si nasconde sotto il nome aristotelico di “economia”. Ripeto che questa novità (perché di novità si tratta, come la novità del nesso fra alienazioni e uomo precario studiata da Eugenio Orso) non può essere esaminata su semplici basi analogiche ricorsive, perché da luogo ad un panorama completamente nuovo.
In quanto pensatore formatomi in un contesto storico ormai sorpassato, quello della contrapposizione fra comunismo storico novecentesco e capitalismo ancora industriale e keynesiano (e quindi non ancora globalizzato), non mi considero in grado di descrivere, sia pure a grandi linee, i lineamenti fondamentali di una filosofia del futuro, che certamente verrà, anche se nessuno può per ora sapere quando. Alcune lezioni però le ho tratte, e sono orgoglioso di essere riuscito a trarle.
In primo luogo, sono orgoglioso di essere riuscito a sfuggire alla “vulgata laicisita” del kantismo, del positivismo e del postmoderno, riuscendo nello stesso tempo a mantenere la critica globale alla falsa totalità del sistema capitalistico. Non era scontato, dati gli esiti miserabili della miserabile generazione del Sessantotto.
In secondo luogo, sono orgoglioso di essermi progressivamente (e faticosamente) affrancato dalla ideologizzazione positivistica identitaria del marxismo, e di quella sua ultima ricaduta che è il mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra in un contesto storico che l’ha superata del tutto. Le scuole filosofiche non sono mai né di destra né di sinistra, anche se molti loro aderenti lo possono legittimamente essere. Ad esempio i tre più grandi esponenti della migliore scuola filosofica italiana del novecento, il neoidealismo italiano e cioè Giovanni Gentile, Benedetto Croce ed Antonio Gramsci, erano uniti dal codice filosofico (il neoidealismo, appunto), mentre politicamente l’uno era fascista, l’altro liberale e l’ultimo comunista. Analogamente alcuni feroci anti-idealisti, come i comunisti Galvano Della Volpe e Ludovico Geymonat ed i liberali Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano, avevano un codice filosofico comune (positivistico ed anti-idealistico), ma posizioni politiche diverse.
In terzo luogo, infine, la dicotomia Atei/Credenti ha forse qualcosa a che fare con i matrimoni ed i funerali religiosi o civili, ma non ci dice assolutamente nulla sulla pertinenza delle analisi filosofiche. Io non sono presonalmente un credente, ma ritengo che l’analisi critica dello storicismo e dei suoi esiti dissolutori fatta dal filosofo cattolico Augusto Del Noce immensamente migliore di quelle dei replicanti progressisti della sinistra italiana, che provocherebbero oggi vergogna ed imbarazzo quando ormai sappiamo bene come le cose sono andate a finire.
La filosofia non è morta, ed è sicuro che ci sopravviverà. Come, però, non possiamo saperlo.