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La disgiunzione sociale generata dalla modernità. Intervista ad Alain de Benoist

di Alain de Benoist - Fiorenza Licitra - 01/08/2010

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Uno dei capisaldi della decrescita è che non si può avere una crescita infinita in uno spazio finito

La teoria della decrescita parte in effetti dalla constatazione elementare che le riserve naturali siano in via di esaurimento e che non si possa avere una crescita materiale infinita in un mondo finito. E’ il principio avverso alla logica del « sempre di più» e a quella dismisura che i Greci chiamavano hybris. L’inquinamento che degrada l’ecosistema, cioè la struttura della vita, oggi ha raggiunto un livello intollerabile. Evidentemente crediamo inesauribili e gratuite le riserve naturali, però non lo sono; specialmente nel caso delle riserve petrolifere: si avvicina il momento in cui il petrolio non potrà più essere estratto che a una resa decrescita. L’industria mondiale consuma 87 milioni di barili di petrolio al giorno, nel 2050 consumerà il doppio e a fine secolo il quadruplo. La domanda è dunque destinata ad aumentare fino a quando l’offerta non andrà rapidamente a diminuire. All’ora attuale, più dei tre quarti delle nostre risorse energetiche sono risorse fossili (petrolio, gas, carbonio, uranio). Quanto alle energie rinnovabili, non costituiscono che il 5,2% di tutte le energie consumate nel mondo. Bisogna dunque rompere con questa fuga in avanti. Gli alberi non possono crescere fino al cielo!

La crescita economica è legata a doppio filo alle catastrofi. Può spiegare come?

Se l’attuale crescita economica materiale avanza, non può che generare delle catastrofi di cui noi vediamo già i segni precursori. Esiste, inoltre, un nesso tra la crescita e la catastrofe che molta gente ignora: l’aumento del prodotto interno lordo (PIL) permette di misurare la crescita, intesa però non come miglioramento del benessere, ma come crescita di tutte le forme di attività economiche. Ciò vuol dire che si valutano positivamente le catastrofi naturali (inondazioni, nubifragi, terremoti, maremoti) nella misura in cui queste generano un’attività economica. In Francia, per esempio, l’ alluvione del dicembre del 1999 ha portato un aumento del 1,2 % di crescita! E ancora, la ricchezza misurata dal PIL non è netta, poiché le cifre non tengono conto dei costi che implica l’attività economica in termini di esaurimento delle riserve naturali. Da questo doppio punto di vista, la crescita non è che un miraggio.

Occorre, come dice Latouche, decolonizzare l’immaginario occidentale?

In effetti Serge Latouche parla di una necessaria « decolonizzazione » dell’immaginario simbolico. Si tratta di non abitare più nella convinzione che l’uomo sia un produttore-consumatore, o che l’economia sia il destino. Rompere con l’ossessione della produttività, della mercificazione, con l’idea che più sia sinonimo di meglio. Evitare di scegliere chissà quale nuovo gadget per il solo motivo che sia nuovo, riconoscendo che l’uomo non vive di solo pane e che l’individuo non è la somma di ciò che possiede. La logica dell’essere non è quella dell’avere, così come la qualità non è riducibile alla quantità. Il valore non può essere costantemente piegato su valore di mercato, o sul quello di cambio. I prezzi si negoziano, i valori no. E’ il tempo di uscire dal mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.

Agire partendo dal locale all’universale vuol dire recuperare una visione vernacolare e riappropriarsi di un centro, di una “residenza”?

Filosoficamente parlando, si potrebbe dire che nell’epoca della globalizzazione assistiamo a una progressiva destituzione del luogo per lo spazio. Il luogo è un punto chiaramente situato, con dei limiti propri, che ci è generalmente famigliare. Lo spazio non ha dei limiti: è incondizionato, illimitato; ciò corrisponde perfettamente alla logica della metropoli che tende, attraverso una propria dinamica, alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo è rappresentato dal carattere illimitato nel suo tentativo di collisione e di omologazione rispetto al mondo. In mezzo si trovano  quelle culture popolari, con i loro modi di vita radicati, che ostacolano l’espansione planetaria delle metropoli e la trasformazione della Terra in un immenso cammino omologato. Tornare a orientare l’esistenza sul luogo vuol dire resistere all’influenza dell’incondizionato e, allo stesso tempo, restituire al mondo la diversità che ne costituisce la vera ricchezza. E’ per questo, allora, che attualmente si moltiplicano le delocalizzazioni; occorre rilocalizzare il più possibile la produzione e il consumo.

Perché chi pensa di poter moralizzare il capitalismo cade in un cortocircuito?

L’idea di una « moralizzazione » del capitalismo si sviluppa a partire dal 1990, in seguito a un certo numero di scandali sulle disfunzioni del sistema finanziario. Il capitalismo non è «moralizzabile» per la semplice ragione che per sua stessa natura è estraneo a tutta la considerazione morale. La sua ragione d’essere si riconduce all’accumulo dei profitti e non può che prevalere su tutte le altre finalità. Inoltre, il sistema capitalistico non è più, dopo molto tempo, oggetto sul quale si potrebbe aver presa, ma un soggetto che si sviluppa secondo le proprie leggi atte all’autoproduzione.
Nei nostri giorni non assistiamo, dunque, alla moralizzazione del capitalismo, ma piuttosto al contrario: all’ « economizzazione » della nozione stessa di valore, che avvicina gli individui nella direzione dell’accumulo. L’etica manageriale, per esempio, può interpretarsi come una morale disciplinare mirata a formare l’individuo per il desiderio di cambio. Distante dal poter essere « moralizzato », oggi il capitalismo contribuisce soprattutto alla « demoralizzazione » della società.

Come adattare la dimensione comunitaria in spazi sempre più grandi e affollati come le città e le varie metropoli?

Più le città diventano immense, più il quartiere può acquistare importanza. E’ proprio in questo ambito che si ritrova il carattere profondamente dialettico della globalizzazione: da una parte unifica e omogenea, dall’altra crea per reazione delle nuove frammentazioni. L’importante è lottare contro la disgiunzione sociale  generata dalla modernità, favorendo i legami sociali che un tempo erano all’origine della solidarietà organica. Questa esigenza non concerne soltanto il domani privato, ma anche quello della vita pubblica. La riabilitazione del vincolo sociale deve andare di pari passo con il collocamento di una democrazia partecipativa, fondata sul principio della sussidiarietà, che possa rimediare alle insufficienze della democrazia rappresentativa, responsabile di aver creato un divario tra la classe dominante e la maggioranza dei cittadini.