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Iraq, Mentre Obama parla di pace, molti iracheni sono diffidenti

di Anthony Shadid - 04/08/2010






BAGHDAD – La mattina dopo che il presidente Obama aveva parlato di "portare a termine la guerra in Iraq in modo responsabile", alcuni insorti hanno piantato la loro bandiera nera su un checkpoint di cui si erano impadroniti, uccidendo i cinque poliziotti di guardia. E' stata la seconda volta in una settimana.

Il resto della giornata, ieri, questo era il bollettino della polizia: tre colpi di mortaio caduti su quartieri di Baghdad, dove sono scoppiate cinque bombe collocate sul ciglio della strada e due auto imbottite di esplosivo. Altri due colpi di mortaio sono caduti sulla Green Zone, che è tuttora la cittadella del potere in una capitale barricata, che continua a essere obiettivo di insorti che sembrano decisi a dimostrare di non essere mai stati sconfitti.


Al tramonto, un'autobomba ha devastato Kut, una città dell'est del Paese che era stata a lungo risparmiata dal conflitto.

“Niente di insolito”, diceva Murtadha Mohammed, un fornaio di 20 anni, mentre infilava con la pala i panini nei sacchetti, a poca distanza a piedi da una delle bombe. “Ci siamo cresciuti”.

La parola “disconnessione” non riesce a catturare completamente l'abisso nelle percezioni fra due Paesi il cui destino rimane intrecciato a malincuore, per quanto esausto ciascuno sembri dell'altro. Momenti particolari sono andati e venuti: governi di transizione, dichiarazioni di sovranità, la firma di accordi: l'annuncio di Obama di ieri è stato un altro di questi.

Oggi Qahtan Sweid lo ha accolto con il cinismo che colora praticamente qualunque annuncio gli Stati Uniti facciano qui, in sé un'eredità in qualche modo intangibile ma pervasiva di sette anni di invasione, occupazione, guerra, e, adesso, di qualcosa che è più difficile definire.

“Gli americani non se ne stanno andando”, insiste Sweid, qualunque cosa abbia promesso Obama. “Non se ne andranno per un milione di anni. Anche se il mondo dovesse capovolgersi, ancora non si ritirerebbero”.

Dai primi giorni dopo la caduta di Baghdad, il 9 aprile 2003, l'America e l'Iraq sono apparsi divisi da qualcosa di più della lingua: non hanno mai avuto in comune lo stesso vocabolario. Forse non avrebbero mai potuto, definiti come occupante e occupato, dove le promesse di aiuto e assistenza spesso avevano la modulazione della condiscendenza. Di questi tempi, tuttavia, non sembrano nemmeno cercare di ascoltarsi a vicenda – troppo stanchi per sentire l'altro, troppo puniti dall'esperienza per offrire il beneficio del dubbio.

In un discorso che, bisogna riconoscerlo, ha avuto toni dimessi, Obama ieri ha dichiarato che la violenza continua a essere ai livelli più bassi da anni. In effetti l'Iraq è un Paese più sicuro rispetto al 2006 e al 2007, quando i massacri avevano minacciato di fare a brandelli il tessuto stesso di questa società traumatizzata. Ma la sicurezza, qui ancora inafferrabile, è un concetto assoluto: ci si sente sicuri oppure no.

Il bilancio di oggi – 26 morti in 8 attacchi – non è stato spettacolare per l'Iraq, dove tuttora muoiono centinaia di persone ogni mese. Ma è arrivato in mezzo a timori crescenti che gli insorti si stiano riorganizzando a Baghdad, Diyala, Falluja, e altrove, impazienti di capitalizzare la prospettiva del ritiro delle truppe americane, e la disfunzionalità di una classe politica che ancora deve mettersi d'accordo su un governo iracheno, a quasi cinque mesi dalle elezioni.

In un attacco nel quartiere di al Mansour, a Baghdad, alcuni insorti a bordo di almeno due auto hanno attaccato un checkpoint all'alba, armati di pistole con silenziatore, uccidendo cinque poliziotti, quindi hanno piantato la loro bandiera prima di scappare. Nell'attentato con l'autobomba a Kut, il bilancio dei morti era salito a 20 al calar della sera.

“Dovunque vadano gli americani, la situazione rimarrà la stessa di prima”, dice Abdel-Karim Abdel-Jabbar, un 51enne che vive nel quartiere sunnita di A'adhamiya, dove gli insorti si erano impadroniti di un altro checkpoint la settimana scorsa, bruciando i corpi delle loro vittime, e piantando lo stesso vessillo nero. “Casomai, andrà deteriorandosi.

“La pace di cui parla Obama è la pace della Green Zone”, aggiunge.

Dall'altra parte della città, a Sadr City, un distretto che si estende in modo irregolare e una volta era un campo di battaglia fra i soldati americani e i seguaci di Muqtada al-Sadr, un esponente religioso sciita populista, pozzanghere di liquami si accumulano vicino alle macerie di una bomba.

Sweid fa un cenno col capo.

“Se la cosa è nelle tue mani, allora puoi procedere ed essere spaventato”, dice sopra il ronzio di un generatore. “Se è nelle mani di Dio, allora non hai il diritto di avere paura”.

Nel suo discorso di ieri, Obama ha definito la scadenza del 31 agosto perché le forze armate riducano il numero delle loro truppe a 50.000 la chiusura di un capitolo.

Per un pubblico americano, potrebbe essere percepito in questo modo. Meno per gli iracheni. A differenza dello scorso anno, i funzionari iracheni, impantanati in dispute spesso più personali che politiche, non stanno strombazzando il ritiro come una affermazione dell'autorità irachena. Né Sweid né Abdel-Jabbar sapevano della scadenza di agosto. Lo stesso vale per parecchi altri intervistati oggi.

“Non so esattamente quando dovrebbe avvenire il ritiro”, dice Abdel-Hamid Majid, un ingegnere di 52 anni. “Tutto quello che so è che non è lontano”.

Saud al-Saadi, un insegnante eloquente e informato di Sadr City, ne era a conoscenza. Però, dice, annunci del genere ne ha già sentiti prima, dichiarazioni di svolte decisive nell'esperienza americana qui che sembravano conformarsi alla logica della politica americana. L'occupazione statunitense era stata dichiarata finita prima delle elezioni presidenziali del 2004. I due Paesi avevano firmato accordi strategici settimane prima del termine dell'amministrazione Bush.

“Ma finora, a dirle la verità, non abbiamo compreso la nostra sovranità”, dice Saadi. “Qui ci sono ancora soldati americani, fanno ancora raid nelle case, non abbiamo un governo che prenda le proprie decisioni, e l'ambasciatore americano continua a interferire”.

Saadi non è né arrabbiato né deluso. E nella sua valutazione prosaica c'è un accenno di terreno d'intesa fra un insegnante e un presidente. Obama non ha strombazzato la democrazia o la vittoria. Non c'è stato alcun riferimento a una missione compiuta. In una valutazione sobria, ha riconosciuto che qui ci saranno altri sacrifici americani.

Saadi ha un tono non meno dimesso.

Interessi, li chiama così. E gli Stati Uniti, dice, cercheranno di garantire i loro.

“L'America non è un'organizzazione di beneficenza”, dice. “Non è un gruppo umanitario. Ci sono le parole e c'è la realtà – e le azioni non sempre corrispondono a queste parole”.

Zaid Thaker ha contribuito alla raccolta di elementi.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

The New York Times,