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L’Alchimista di Garegnano o della trasformazione

di Emilio Michele Fairendelli - 04/08/2010

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Le nostre colpe, anche le più orrende, ci trasformano in materia più nobile nel momento stesso in cui le agiamo.

Per una visione più alta sono infatti il termine di un destino, il pagamento di un debito contratto nei secoli dalle generazioni dell’uomo, l’istante più nero della notte, quello che precede l’alba e la sua libertà nella luce.
Non diversamente i corpi rigettano il cibo corrotto dopo ore di sofferenza.

Per questo anche la colpa più tremenda può abbandonarci subito, trovare la sua vita di demone solo nella mente e nella carne di chi l’ha subita, cercare la sua redenzione nelle ere a venire.

Posso essere il più libero degli uomini un istante dopo avere compiuto un delitto.

Questo resterà tuttavia la distruzione del tempio di un’Anima e arderà del vero Fuoco – in confronto il fuoco fisico non è che una tenue onda colorata – nei secoli e toccando moltitudini, sino a venire trasformata.

Come distinguere tra le colpe che si mostrano nel campo materiale e le colpe dell’ordine spirituale?

Quanto sono più aperte e coraggiose le prime – il sangue vi scorre come un lavacro di purezza- tanto sono più profonde e assolute le seconde, nascoste, capaci di rendere l’umano un deserto, di mutare lo stesso sangue in miserabili vie d’umido rapprese e velenose.

Compiuta una colpa indicibile, la mia vita era cambiata.

Lasciata ogni cosa, abitavo in un appartamento che era stato di proprietà di mia madre, in Via Garegnano, ai confini della città.

Era restata una piccola rendita, che mi bastava.

Vivevo al piano rialzato.

La palazzina era una vecchia cascina ristrutturata.

Dal lungo e stretto balcone vedevo la facciata della Certosa di Garegnano, la lunga Via Norcia che scorreva su di un lato e terminava contro la caotica sopraelevata che portava alla barriera autostradale.

All’inizio dell’ottocento Napoleone aveva chiuso il complesso distruggendone una grande parte, il secondo, enorme chiostro, gli orti, il cimitero e vi aveva fatto partire la strada per i laghi.

Così ogni mattina quel ponte grigio, quell’orrendo traffico pesavano sulla terra sopra le ossa dei monaci di secoli lontani, quelli di cui Petrarca scrisse visitando la Certosa nel 1360: “…ho visto gli Angeli di Dio in terra; ho visto, viventi in corpi terrestri, coloro che avranno presso il Cielo la loro dimora”.

Lasciavo raramente il quartiere.

A volte salivo verso sera la collina del Monte Stella, che potevo raggiungere a piedi e dalla quale si vedeva tutta la città: le alte torri, le prime luci, gli anelli dei raccordi autostradali, ora ravvolti in cerchi ordinati e concentrici ora liberati in corde d’iperbole verso altri, lontani luoghi.

Ricordo quel giorno, era il 21 maggio del 1998.

Poco prima dell’alba mi aveva svegliato un profumo di verde di bosco, di rugiada che pervadeva tutta la casa.
Mi tornò alla mente un freddo mattino di tanti anni prima, il mio camminare giovane e senza pensieri sullo smalto verde dei boschi degli Erspameri.

Mentre tutto cresceva in intensità mi alzai cercando di capire l’origine di quel profumo.

Sembrava stranamente più forte all’interno dell’appartamento che non vicino alle finestre.

Pareva come sorgere dal pavimento.

Capii che proveniva dai fori delle prese d’elettricità.

Dopo circa una mezz’ora il profumo esalò in un soffio d’aria tiepida e scomparve.

Durante la giornata ricordai che un nuovo inquilino, un signore minuto e anziano, aveva occupato da poche settimane i locali al piano seminterrato proprio sotto il mio appartamento.

Lo vedevo arrivare alle ore più impensate, all’alba o alla sera tardi.

Lo sentivo aprire con fatica e rumorosamente la porta.

Scorrevano chiavistelli e catenacci, un anello batteva un colpo sordo.

Poi non udivo più nulla.

Non pensai tenesse chissà quale ricchezza in quello scantinato dalle basse volte ma piuttosto che il laborioso rumore dichiarasse che quella soglia, quell’ingresso erano per lui la cosa più importante.

La sera del profumo miracoloso lo incontrai al mio ritorno.

Camminava, come valutando qualcosa, nei poveri giardini davanti alla casa.

Lo fermai e gli raccontai dell’accaduto del mattino, dissi che pensai forse poteva averlo notato anche lui.

“Le canaline elettriche” disse piano.

“La rugiada, la rugiada. Dovevo immaginarlo” aggiunse.

Mi disse che si scusava, da tempo avrebbe dovuto provvedere a sigillare il varco rettangolare delle canaline, avrebbe chiamato gli operai già l’indomani.

Non volli fargli alcuna domanda nè raccontargli cosa avevo provato.

Assicurava che il problema non si sarebbe più ripresentato e mi invitò a fargli visita.

“Sono qui quasi ogni giorno, davvero, venga, quando mi vede. Ogni tanto anch’io sento qualcosa, la sua musica, sa, quando le finestre sono aperte la musica cade anche da me, là sotto, attraverso le strette aperture, come venisse dal cielo. Più debole, certo, ma è sempre così bella e laggiù il suo valore sembra più alto”.

Rimandai per una settimana il proposito di fargli visita ma non mancavo mai di aprire la finestra della sala quando facevo suonare la musica di Bach.

Da una vicina seppi solo che era un autista dei mezzi comunali in pensione.

Lessi il suo cognome sulle targhe delle posta.

Una sera, poco prima di cena, udii il faticoso rumore della sua porta, e quella soglia che si apriva.

Dopo qualche minuto scesi e bussai.

Mi aprii sorridendo, era più basso e sottile di come lo ricordavo.

Mi invitò ad entrare e a sedere su un divano in una piccola anticamera.

Oltre, si aprivano tre saloni collegati da porte ad arco.

Nel primo vidi una specie di camino in mezzo alla sala, tavoli rettangolari dove stavano grandi oggetti di vetro, due librerie contrapposte con libri, gonfi barattoli pieni di materiali di diverso colore, pietre e cristalli.

Si sedette vicino a me.

“Alchimia” disse, non senza una certa enfasi e indicando con un gesto i saloni che si perdevano.

“L’Arte regia, la trasformazione della materia. Ogni cosa viene posta sotto il fuoco e trova, dopo molto tempo, sotto regole ferree e con la benedizione dell’Altissimo, la sua pace, il suo vero volto. Infine l’Opera si completa, la polvere di Luce si forma e si proietta su ogni cosa. Elisir non solo di eternità fisica ma di conoscenza. Perché tutto è Uno. Venga!”.

Mi alzai e lo seguii.

Non ero del tutto digiuno della materia e accompagnai le sue illustrazioni con alcune domande, credo ben poste, poiché le affrontò con dubbi e lentezza.

Mi avvicinai a una delle pareti di libri e toccai il dorso di alcuni: Ireneo Filalete, il Cosmopolita, John Dee, Fulcanelli, Canseliet.

Alcuni, più vecchi, stavano in uno spazio protetto da un’anta di vetro.

“Da qui veniva il profumo dell’acqua di stelle” mi disse indicando il soffitto, i varchi delle canaline elettriche.

“Tutto sigillato, ora – disse – non sentirà più niente. Ma forse è un peccato. Raccogliamo, io e Alberto, la rugiada sulle colline sopra il Lago di Garda, occorre passarvi la notte e occorre ci sia la luna. Non sempre l’acqua di stelle è buona per le operazioni. E’ sempre l’Altissimo che decide, lanciando raggi cosmici benevoli o malevoli. In fondo è così anche per noi. Per la vita normale, intendo, no? Occorre credere. Credere”.

Mi indicò un grande vaso di pietra ollare, dal coperchio fatto di un’unica e spessa lastra, appeso a un trave di ferro e sotto il quale stava un cerchio di braci.

Molti mesi dopo, in un mattino esausto, lui avrebbe sollevato per me la lastra di copertura, invitandomi a guardare.

“Presto, un solo sguardo, perché questo affretterà la scomparsa di tutto. Ma guarda! Guarda!”.

Avrei visto, sulla superficie di una morta cenere di luna, alcuni grossi grani di sale bianco simili a diamanti e raggi sottili incisi come da uno stilo.

Sull’interno della lastra superiore stavano altri segni.

Compresi che, calata la lastra, nel buio, nell’inviolabile per tutti, i segni sulle due superfici avrebbero combaciato disegnando una stella completa e perfetta.

Stella bina sed una refulget” lui mi avrebbe sussurrato.

Lo sentii commuoversi. Solo dopo altri mesi avrei visto il viso di lei in una foto che stava in uno dei grandi cassetti del mobile di noce tra tante altre cose poste alla rinfusa, la donna che aveva amato e di cui non avrei mai saputo il nome.

Quella prima sera lui si era fermato alla soglia dell’ultima sala.

Vi stavano, su due tavoli rettangolari contenitori di vetro di varie forme a volte uniti da tubi sottili, un solo libro chiuso vicino a una sfera nera, un grande piatto che avrei detto d’oro sul quale stavano pezzi di metallo dalla forma irregolare.

Le pareti sembravano emanare una calda luce d’ambra.

Non ricordo di avere visto finestre.

“Qui il lavoro si ferma, amico mio. Qui ogni cosa termina, qui, dopo avere compiuto tutto ciò che dovevamo con l’aiuto del fuoco e invocando l’Altissimo per il Suo assenso, non possiamo che attendere. E credere. La trasformazione, e sarà nella materia come in noi, nella nostra Anima e solo in grazia della sua nuova caratura, verrà”.

Avevo guardato, allora, l’ampia ultima sala: il suo ordine, la solitudine dello spazio e degli oggetti che lo abitavano mi rese chiaro che in quel luogo, consacrato all’ultimo miracolo, non era in verità mai avvenuto nulla.

Dopo un anno di frequentazione del vicino e del suo laboratorio compresi che i pochi risultati che avevo visto, i grani di sale alchemico, il disegno della stella, le aquile verdi evocate in immagine dalla semplice terra di campo divorata dal fuoco non erano dovuti, senza ordine e disciplina e in quella vaghezza, che al caso, un caso che nessun sapere ma solo il suo amore per il meraviglioso e la verità flettevano verso il miracolo.

Per questo lo amavo così tanto.

In un giorno di caldo rovente del luglio 2004 – non potei che pensare che il mondo stesso fosse sottoposto all’azione trasformatrice del fuoco, in suo onore – Virgilio Lombardo morì della rottura di un aneurisma.

Al funerale vidi poche persone e due giovani, credo dei nipoti.

Non la donna della foto.

Per diverso tempo sperai che avesse lasciato una lettera, un pensiero, un oggetto per me.

Non so chi mandò quel grande camion che portò via ogni cosa.

Uscii per non vedere e non tornai che a notte.

Restano in me il suo viso, unico e amabile come quello di ogni uomo, nella mia anima le stanze del suo laboratorio, la prima e laboriosa, l’ultima, vuota, il tempio ancora non inaugurato, ancora inaccessibile, sconosciuto.

Verrà, il giorno della trasformazione verrà.