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Guglielmo II voleva schiaffeggiare Carlo I d’Austria per il suo desiderio di pace

di Francesco Lamendola - 05/08/2010

 

Carlo I d’Austria, il giovane sovrano salito al trono di Vienna nel novembre del 1916, dopo la morte di Francesco Giuseppe, e Guglielmo II di Germania, l’imperatore tedesco che regnava fin dal 1888, benché formalmente alleati non si amavano né si stimavano.

Il primo, cattolico fervente (sarà beatificato da Giovanni Paolo II nel 2004), aveva profondamente meditato le parole del papa Benedetto XV sulla prima guerra mondiale come «inutile strage» e, per prima cosa, aveva promesso ai suoi popoli di adoperarsi per il bene supremo della pace. Il secondo, imperioso, arrogante, irragionevole, si lasciava condurre ciecamente dalla dittatura dello Stato Maggiore, rappresentata dalla coppia Hindenbrug-Ludendorff, e non intendeva accontentarsi di niente di meno che una schiacciante vittoria militare.

Carlo d’Asburgo era sposato ad una principessa italiana, Zita di Borbone-Parma, che esercitava molto ascendente su di lui, sia per le sue simpatie filo-francesi, sia, soprattutto, per il desiderio di accogliere il profondo desiderio di pace delle popolazioni dell’Austria-Ungheria; e, fin da quando era salito al trono, non aveva fatto altro che pensare al modo di portare il suo Paese fuori dalla guerra.

Ciò gli derivava essenzialmente da due ordini di fattori:  esterni e interni.

Sul piano militare, le possibilità di una vittoria incondizionata degli Imperi Centrali si stavano facendo sempre più remote. Anche se la Russia aveva cessato di essere un fattore attivo nella guerra, dopo l’esaurimento dell’offensiva Brusilov del 1916, una vittoria sul fronte francese e sul fronte italiano appariva sempre più problematica, mentre, nel corso del 1917, aumentavano i segnali di un prossimo coinvolgimento diretto degli Stati Uniti d’America a sostegno dell’Intesa, specialmente dopo l’inizio della campagna sottomarina indiscriminata e dopo il clamoroso incidente del “telegramma Zimmermann”, nel quale il ministro degli Esteri tedesco spronava il Messico ad attaccare gli Stati Uniti, promettendogli aiuti per il recupero delle province perse con il Trattato di Guadalupe-Hidalgo del 1848 e con l’acquisto di Gladsden del 1854.

Cresceva, inoltre, in vasti strati dell’opinione pubblica e dello stesso esercito austriaco, una sorta di insofferenza per il potente e prepotente alleato germanico; che, se non era riuscito ad ottenere il comando militare unificato (cosa che invece era riuscita ai Francesi, sul fronte dell’Intesa), esercitava tuttavia una pesante supervisione sul più debole partner e non solo in materia militare, ma anche strategica, politica, economica.

Sul piano interno, la situazione dell’Austria-Ungheria si faceva sempre più drammatica, specialmente sul piano dei rifornimenti alimentari, a causa del blocco marittimo imposto dall’Intesa: in molte regioni dell’Impero, e particolarmente nella Cisleithania, le popolazioni erano ormai ridotte alla fame; mentre il governo di Budapest, dal canto suo, faceva di tutto per trattenere in Transleithania le proprie scorte di grano: e anche questo era un chiaro indice di scollamento e di imminente disgregazione.

Esplosiva, poi, era divenuta la tensione fra le diverse nazionalità della Duplice Monarchia, specie dopo che era svanita l’illusione di una rapida vittoria e quando alcuni intellettuali slavi emigrati in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, come Masaryk, Beneś, Trumbic e Šupilo, autoproclamatisi campioni dell’indipendenza dei rispettivi popoli, ebbero posto il programma di una completa distruzione dell’Austria (secondo il vecchio obiettivo di Mazzini) e di una assoluta indipendenza delle nazionalità “oppresse”.

Programma destinato a trovare orecchi assai compiacenti a Washington, soprattutto presso il presidente Woodrow Wilson, uomo forse bene intenzionato, ma sicuramente cattedratico, rigido, presuntuoso, velleitario e vendicativo, convinto com’era di possedere in tasca la Verità e la ricetta per la pace (i famosi “14 punti”) , nonché per la felicità dei popoli di tutto il mondo.

Oltre al pericolo delle tensioni nazionaliste che agivano in senso centrifugo, esisteva in Austria anche il concreto pericolo di una rivoluzione sociale, specie dopo che le due rivoluzioni risse del 1917 - quella di Febbraio e quella di Ottobre - ebbero dato un esempio agli altri popoli europei. Per questo Carlo aveva disapprovato la politica tedesca di favorire il rientro di Lenin in Russia: egli temeva che i Tedeschi, così facendo, avrebbero creato i presupposti per una rivoluzione comunista che, se in un primo tempo avrebbe costretto la Russia a uscire dal conflitto (come difatti avvenne), si sarebbe poi estesa anche all’Austria e alla stessa Germania.

Carlo I, dunque, sapeva di avere il tempo contato; sapeva che ogni mese, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora lavoravano contro di lui e contro il suo grande sogno: portare il suo Impero plurinazionale fuori dalla terribile tempesta della guerra, ridargli la prosperità materiale ed assicurarne la sopravvivenza, convinto della sua storica missione per la stabilità della Mitteleuropa e per la civile convivenza fra popoli diversi, ma complementari, contro i nazionalismi esasperati emersi nella seconda metà del XIX secolo.

In tale contesto bisogna inserire il tentativo di avviare cauti sondaggi con l’Intesa per esaminare la possibilità di addivenire a vere e proprie trattative per una pace equa e ragionevole, sfruttando anche il canale diplomatico riservato offertogli dai suoi due cognati, Sisto e Saverio di Borbone-Parma, fratelli di Zita e ufficiali nell’esercito belga.

Tali sondaggi ci furono, ma una disgraziata fuga di notizie degenerò in un botta e risposta a mezzo stampa, in cui Carlo dovete smentire tutto l’affare, com’è logico, ma il presidente francese Clemenceau ebbe buon gioco nell’esibire le prove dell’approccio tentato da Carlo per mezzo di Sisto di Borbone, cosa che mise il giovane imperatore austriaco in una situazione pressoché insostenibile nei confronti del suo scomodo alleato, Guglielmo II di Germania. Quest’ultimo, infatti, se ne risentì moltissimo e considerò il fatto alla stregua di un tradimento, tanto più che uno dei punti salienti dello schema di pace avrebbe dovuto essere il ritorno dell’Alsazia-Lorena alla sovranità francese, cosa da lui considerata intollerabile.

Tutto il cosiddetto affare Sisto, che ebbe luogo nell’aprile 1918, si risolse quindi non solo in un fallimento, ma anche in un ulteriore, pericoloso indebolimento politico dell’Austria nei confronti della Germania, divenuta ancora più sospettosa e diffidente e dalla quale era da temersi una reazione anche militare, con l’occupazione del territorio austriaco da parte delle sue armate ormai rifluenti dal fronte orientale, dopo la pace di Brest-Litowsk.

La situazione in cui venne a trovarsi il governo austriaco in quel momento ricorda molto da vicino quella in cui verrà a trovarsi quello italiano durante la seconda guerra mondiale, specialmente dopo El Alamein e Stalingrado: in entrambi i casi, un Paese stremato dalla guerra, conscio di non poter più vincere e ormai a corto dei mezzi essenziali per proseguire la lotta, dovette fare i conti con l’assoluta intransigenza e con la fanatica determinazione a lottare sino alla fine, da parte di un alleato molto più forte, aggressivo e sicuro di sé.

L’esito differente degli approcci con la parte avversa di Carlo I nel 1917 e di Badoglio nel 1943 dipende, oltre che dalle differenze specifiche fra le due situazioni, specialmente dal punto di vista psicologico e culturale, anche dal fatto che, mentre nel caso italiano Mussolini era rimasto ormai quasi solo a credere nella possibilità di vittoria e, quindi, nella necessità di tener fede all’alleanza sino all’ultimo, nel caso austriaco Carlo I era circondato da ministri e generali - primo fra tuti, l’ostinato ed intrigante Conrad von Hötzendrof - che non condividevano il suo “programma di pace”, basato (come lo era stato quello del defunto Francesco Ferdinando) su una riforma interna che concedesse una più vasta autonomia ai popoli slavi.

Inoltre, molti alti personaggi della corte di Vienna (e, in verità, anche molte persone comuni) guardavano con malcelata diffidenza, mista ad autentico disprezzo, verso l’imperatrice Zita; al punto che, quando fallì l’offensiva del Solstizio sugli Altipiani e sul Piave, nel 1918, corse voce che fosse stata lei a tradire, avvertendo gli Italiani dell’attacco; una sovrana che fu tanto poco amata in patria, quanto lo era stata Maria Antonietta alla corte di Francia.

Meno noto, ma non meno significativo, anche se altrettanto fallimentare dal punto di vista dei risultati pratici, fu un altro tentativo di imbastire colloqui di pace da parte di Carlo I con il presidente americano Wilson, tramite la mediazione del re di Spagna, che aveva avuto luogo nel febbraio del 1918.

Sia come sia, dopo che lo “scandalo” dell’affare Sisto fu divenuto di pubblico dominio, a Carlo non rimase altro che rientrare nei ranghi e negare ogni coinvolgimento in esso, benché le lettere autografe esibite da Clemenceau lasciassero pochi margini di dubbio su come si erano svolte realmente le cose.

È molto probabile che un atteggiamento più elastico e, diciamolo pure, più intelligente, da parte dei vertici politici dell’Intesa, avrebbe potuto far sì che quel timido segnale di distensione potesse dare i suoi frutti; e viene da pensare che non solo l’intransigenza di Guglielmo II, ma anche quella di Poincaré e Clemenceau abbiano votato alla sconfitta l’accorato, sincero sforzo di pace del giovane sovrano austriaco.

In quella vicenda vi è anche, indubbiamente, una responsabilità di parte italiana: perché, non appena Sonnino venne messo al corrente dagli alleati francesi dei colloqui segreti in corso, si irrigidì nel pretendere il rispetto totale di quanto stabilito dal Patto di Londra, ossia la cessione non solo del Trentino, ma anche dell’Alto Adige, di Trieste, di Gorizia,  dell’Istria e della Dalmazia; mentre Carlo sarebbe stato disposto alla sola cessione del Trentino, forse anche della Dalmazia, ma assolutamente non di Trieste e meno ancora di Bolzano.

Giova poi ricordare che nell’Intesa, e specialmente in Francia, erano vivissime quelle occulte forze massoniche che vedevano nella guerra una crociata per distruggere l’ultimo potente Stato cattolico del mondo (la Francia medesima si era completamente laicizzata nel 1905, non senza una grave tensione con la Curia romana): circostanza che è stata appurata da alcuni studiosi contemporanei, fra i quali uno dei maggior esperti di storia recente dell’Austria e dell’Europa centro-orientale, l’ungherese François Fejtö (ne abbiamo già parlato nell’articolo «Dietro la fine dell’Austria e le premesse di un’altra guerra mondiale il cattivo genio di T. Masaryk», inserito sul sito di Arianna Editrice in data 27/02/09).

Carlo, però, non poté limitarsi a negare quello che, purtroppo, appariva a tutti abbastanza evidente e che, in verità, l’opinione pubblica austriaca aveva accolto in maniera sostanzialmente favorevole; dovette anche mandar giù il boccone amaro di un incontro con Guglielmo II, che questi gli impose, da padrone, nel Supremo Quartier Generale germanico: formalmente per ribadire, in modo solenne, la solidarietà politica e la fratellanza d’ami austro-tedesca; in realtà, per subire l’umiliazione di un chiarimento che, in effetti, fu un vero e proprio «redde rationem».

Dicevamo che, fra i popoli dell’Austria-Ungheria assetati di pace e fra i soldati austro-ungheresi al fronte, specialmente fra gli Slavi (mentre gli Ungheresi erano i più diffidenti, in quanto consapevoli che una pace di compromesso avrebbe segnato la fine del dualismo e, quindi, anche della loro egemonia in Transleithania), un po’ tutti ne parlavano apertamente e non nascondevano la propria simpatia per l’atteggiamento “pacifista” del loro giovane sovrano, che interpretava pienamente le loro più intime aspirazioni.

In particolare, i soldati austriaci parlavano senza mezzi termini dell’incontro avvenuto fra Guglielmo II e il loro imperatore, ne conoscevano benissimo l’asprezza - di cui nulla erra trapelato, ovviamente, dai comunicati ufficiali, ma che aveva avuto dei testimoni diretti - e simpatizzavano apertamente con la posizione assunta dal secondo.

E qui si potrebbe fare una breve riflessione sulla circostanza che, se è ben vero che a scatenare la guerra, nel luglio del 1914, era stata l’Austria, e se è altrettanto vero che il conflitto suscitò un notevole entusiasmo fra i giovani - come, del resto, negli altri Paesi d’Europa, tutti illusi dal miraggio della guerra breve -, col prolungarsi delle operazioni e con l’aggravarsi sempre più pesante dei sacrifici,  le cose erano molto cambiate e ormai ben pochi pensavano ancora alla vittoria, mentre la maggioranza si preoccupava della sopravvivenza quotidiana e vedeva nella rigidità tedesca uno dei maggiori ostacoli al conseguimento di una indispensabile pace di compromesso.

Così, dunque, un giovane italiano, all’epoca diciottenne, Attilio Baradel, ha riferito l’episodio del colloquio fra Guglielmo I e Carlo I nel suo libro di ricordi, avendolo appreso dalla viva voce dei soldati austro-ungarici che egli ebbe modo di accostare nel paese di Cessalto, durante l’occupazione seguita alla rotta di Caporetto (da: A. Baradel, «Nei solchi dell’odio», Treviso, a cura della Fondazione Cassamarca, 1988, pp. 122-24):

 

«Si sapeva che Sisto, fratello di Zita, s’era occupato in proposito presso l’Intesa per accelerare un componimento del conflitto, ma pare si sappia molto meno - o assolutamente nulla - dell’incontro di Guglielmo II con Carlo I, avvenuto ai primi di maggio 1918 al Gran Quartier Generale germanico, durante il quale pare che i due imperatori sostenessero, risolutamente, due punti di vista irriducibilmente opposti, che degenerarono in un drammatico alterco, conclusosi (sempre secondo la voce dei soldati al fronte) in un modo indegno della veste dei due protagonisti.

Nel calore d’una disputa che non poteva conciliarli, ma li separava sempre più, perché entrambi obbedivano a motivi e principi tanto opposti quanto determinati e ben saldi, ciò che si dissero nella parte più acuta di quel convegno, può essere riassunto (dalle versioni che correvano allora fra la truppa) approssimativamente così:

- Parlare di resa senza che le nostre truppe conoscano ombra di viltà è un tradimento - disse il Kaiser.

- Considero un tradimento profittare della cieca disciplina dei nostri popoli, dei quali siamo responsabili, Maestà - rispose Carlo.

- La disciplina e il patriottismo del popolo tedesco sono spontanei e incrollabili: ne rispondo personalmente - replicò Guglielmo.

E l’altro:

- Ma sarebbe meglio trattare mentre i nostri eserciti si trovano sulle terre altrui e siamo, perciò, in condizioni di grande vantaggio.

- Non si debbono prendere più di queste iniziative. La vittoria è assicurata dal carattere dei soldati, che per la patria tedesca sono disposti a continuare la lotta e a morire.

- Maestà! Il mio dovere è di tener conto non soltanto dello spirito della mia minoranza tedesca, ma anche dello stato d’animo degli altri 40 milioni di sudditi non tedeschi che vivono entro i confini del mio Stato.

- Volete, dunque, Maestà, porvi alla mercé dello straniero? - chiese con dura ironia Guglielmo.

Risentito, ma ancora pacato, per quanto fermo e deciso, Carlo replicò:

- Non sono stranieri i miei popoli, Maestà! Essi hanno accettato e sopportato fedelmente tutti i sacrifici ai quali sono stati sottoposti per tanto tempo, e a milioni sono già caduti per il dovere e lo Stato. Dall’est all’ovest, dal sud al nord, dai campi alle città, dai tuguri ai palazzi: tutti sono stati sacrificati dallo spietato ingranaggio della guerra. Uomini e donne, padri e figli, armati e civili: tutti hanno già pagato sull’altare della disciplina il tributo più crudele. Decine e decine di migliaia di famiglie, d’ogni condizione e nazionalità, sono rimaste totalmente orbate dei loro uomini: nonni, padri, figli, nipoti: tutti caduti in battaglia o negli ospedali, orrendamente mutilati, mentre altri milioni restano invalidi per tutto il resto della loro vita. Una cosa orrenda, senza paragoni. Il mio paese è depauperato e non può reggersi più, perché ha fame e la gente impazzisce!

- Parlando delle sofferenze dei suoi sudditi s’era commosso, ed ora impercettibilmente la voce gli tremava:

- Per concludere, che vorreste voi, dunque, fare?

- Trattare ancora, e al più presto, con i nostri avversari.

- E se la Germania rifiutasse, che cosa fareste?

- Mio malgrado dovrei considerare la possibilità dio trattare anche separatamente.

- Non conta, dunque, nulla per voi l’onore?

- Sì, conta al massimo, Maestà. Ma se la gravità della situazione ha fatto crollare i presupposti dei nostri impegni e ci troviamo dinanzi ad un’inevitabile catastrofe, è nostro dovere compiere qualsiasi tentativo che possa evitare il prolungarsi d’una così tremenda carneficina.

- Vorrebbe la Maestà Vostra infliggermi la pena di doverla considerare priva del coraggio necessario ad un Capo di Stato per rappresentare degnamente il suo paese?

- Secondo me la viltà è patrimonio di coloro che temono le proprie responsabilità tentando di coprirle col sangue altrui, Maestà. Per me e per Voi la fedeltà al bene dei nostri popoli non può essere meno sacra della fedeltà ad un patto che gli avvenimenti hanno ormai troppo tragicamente superato!

Mentre Carlo pronunciava con solenne fermezza le ultime parole, un rossore colerico saliva suil volto di Guglielmo che era andato via via visibilmente indispettendosi. E mentre quello finiva di parlare, resosi conto che un incolmabile abisso era già scavato fra di loro, diede in escandescenze e, indirizzandogli delle volgari invettive, tentò improvvisamente di colpirlo al viso.

Nella stanza in cui si trovavano vi fu un subitaneo silenzio; ma, subito dopo, limpida e robusta, mentre l’altro ne usciva concitato, s’alzò la voce di Carlo che disse:

. L’imperatore d’Austria-Ungeria non può rispondere materialmente ai Vostri oltraggi!»

 

Può essere che qualche particolare sia inesatto, ma il senso complessivo dell’incontro crediamo che esca perfettamente rispecchiato nella versione su riportata; questo, del resto, è uno di quei casi in cui lo storico deve supplire alla reticenza delle fonti ufficiali con il materiale offerto dai diari, dai racconti orali e, in genere, dalle fonti considerate “minori”.

Non era stato, quello fra Guglielmo II di Germania e Carlo I d’Austria, uno scontro di punti di vista e nemmeno di caratteri; ma uno scontro fra due concezioni della regalità, della politica, dell’etica e della umanità stessa.

Per Guglielmo, tradimento sarebbe stato defraudare il proprio popolo dei frutti della vittoria, dopo tanti e così aspri sacrifici; per Carlo, defraudarlo della speranza della pace, una volta che la vittoria si rivelava ormai impossibile.

Certo, pesava anche, nei rispettivi atteggiamenti, la diversa situazione industriale, finanziaria, militare e politica delle due nazioni: ancora relativamente forte quella della Germania, sempre più pericolosamente debole e traballante quella dell’Austria. Per cui, in Germania ci si poteva ancora illudere di vincere la guerra sul campo di battaglia; in Austria, si era da tempo consapevoli che solo una pace di compromesso avrebbe, forse, consentito di