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Non abbiamo bisogno di «intellettuali», ma di menti lucide e di cuori generosi

di Francesco Lamendola - 09/08/2010



La società non ha bisogno di «intellettuali» di alcun genere: “organici” o “non organici”, con buona pace di Gramsci e di tutti i gramsciani.
Un intellettuale è disorganico per definizione: proprio in quanto intellettuale, non può essere che un corpo estraneo nella società; un individuo generalmente inutile e, non di rado, peggio che inutile: un individuo nocivo.
Del resto, per Gramsci - seguace di Machiavelli e teorizzatore del moderno Principe nelle vesti del Partito Comunista -, “organico” era, più o meno, sinonimo di “funzionale”: tanto è vero che, per lui, il partito comunista è un “intellettuale collettivo”, organico alla classe operaia; e l’intellettuale può dire di rappresentare il popolo solo quando il rapporto è fondato su una adesione organica del primo al secondo.
Ma non gli è venuto in mente che nessuno ha il diritto di rappresentare il popolo, se vive al di fuori del popolo; meno ancora gli è venuto in mente che “popolo”, forse, nella società moderna, è un vuoto contenitore, buono solo per fare della demagogia.
Come tutti i marxisti, anche Gramsci pensava che il “vero” popolo è quello che vuole la libertà e la giustizia, ma secondo le categorie di Marx; se, per caso, vuole qualcosa d’altro - come, ad esempio, i contadini della Vandea nel 1793 - allora non è più “popolo”, ma è soltanto una plebe fanatizzata e strumentalizzata dai preti e dai nobili, degna di essere mitragliata e sterminata.
La società, dunque, ha bisogno di agricoltori, di allevatori e di artigiani; è già dubbio che abbia bisogno di operai e soprattutto di padroni. Ha, inoltre, bisogno di uomini di Dio, di medici, di educatori, di scienziati, di artisti e di poeti.
Ma che cosa può farsene di un intellettuale?
Ve ne sono, di fatto, di due tipi: quelli servi e quelli liberi.
Gli intellettuali servi sono inscritti sul libro paga di qualche potente; travestiti da giornalisti o da scrittori, appestano l’aria con le loro menzogne a pagamento, seminano confusione a bella posta e si nutrono si falsità e di meschini pettegolezzi.
Gli intellettuali liberi, pur non essendo pagati da nessuno (almeno finché non si intruppano nella prima categoria), risultano altrettanto inutili e dannosi per la società: scontenti cronici, divorati dall’ambizione, piccoli narcisi che vogliono far vedere a tutti quanto sono bravi e intelligenti e che vogliono sembrare originali a tutti i costi, sempre e comunque.
Ma a che cosa servono?
A loro volta, gli intellettuali liberi si suddividono in due sottocategorie: i fanatici e i sofisti.
I primi sono coloro che abbracciano con devozione febbrile una causa, un partito, una parrocchia; vi si dedicano anima e corpo e rintronano gli orecchi del prossimo con i loro sermoni, per convertire tutti quanti al loro credo, minacciando di sterminio gli increduli e gli infedeli.
Sono la razza più deleteria, quelli che - storicamente - hanno provocato i guai peggiori: dietro gli universi concentrazionari, dietro le sante ghigliottine e le polizie da Grande Fratello, c’è la nefasta predicazione di questi insetti velenosi che, incapaci di vivere in pace e in armonia con se stessi e con il mondo, si autoproclamano crociati del Bene nella sua eterna e inflessibile lotta contro le forze del Male.
L’altra sottocategoria, opposta e speculare, è quella dei sofisti nichilisti: essendo giunti a non credere più in niente, insegnano che tutto è uguale e che nessuna Verità esiste; tuttavia, incoerenti per vanità e per civetteria, non si riducono al silenzio, ma continuano a imperversare con torrenti di vuota erudizione e di ragionamenti capziosi.
Altro non sanno fare e, del resto, non possiedono abbastanza spina dorsale per imparare a vivere in modo diverso.
La società non ha bisogno di intellettuali, di questi parassiti che vivono nella sporcizia come nel loro elemento naturale; non più di quanta ne abbia di ruffiani, prostitute, speculatori di borsa, aggiotatori ed evasori fiscali.
Si dirà che parlar male degli intellettuali è un tipico vezzo da intellettuali: ecco, questo è un ragionamento da sofisti nichilisti. Si può e di deve parlar male degli intellettuali, se non si è come loro, se non si sente come loro, se non si pensa come loro; e, soprattutto, se si è convinti del danno che essi, con la loro sola presenza, arrecano alla società.
La funzione che essi svolgono è puramente negativa; e non si venga a dire che sono la coscienza critica della società. Il Cielo ci guardi e liberi da simili coscienze critiche; possiamo farne benissimo a meno.
In una società organica, non vi è bisogno di intellettuali: non vi è bisogno di quelli servi, perché non vi è bisogno di alcun tipo di servitù; e non vi è bisogno di quelli liberi, perché non vi è bisogno né di fanatici, né di sofisti.
Gli intellettuali spuntano fuori come funghi velenosi in una società malata, in una società dominata dalla menzogna e dall’ingiustizia; in una società dove il mito del Progresso accende folli appetiti e dove ci si aspetta che ogni sorta di conquiste materiali e intellettuali crescano in progressione geometrica, solo perché questa sarebbe una legge della Modernità.
In una società fondamentalmente sana, non ce ne sono e non se ne avverte minimamente la mancanza. La funzione di coscienza critica è svolta, e sia pure in diversa misura, da tutti e da ciascuno, ma specialmente dai padri e dalla madri di famiglia e dagli educatori; come avveniva, del resto, nelle società pre-moderne.
La figura dell’intellettuale compare là dove tramonta lo spirito critico del singolo individuo; allora si sente il bisogno di demandare a qualcun altro, che lo faccia per professione, quello spirito critico cui la quasi totalità degli individui ha deciso di abdicare.
È un po’ quello che avviene nel campo della medicina, dove si è passati da una società in cui quasi tutti sapevano come vivere in modo sano e come curarsi, eventualmente, con metodi naturali, a una società in cui solo una casta ristretta ed esclusiva detiene la conoscenza per tutelare la salute pubblica; e adopera i gendarmi per reprimere quello che essa chiama l’abuso della professione medica da parte degli estranei alla casta.
Di nuovo, qualcuno potrebbe obiettare che in nessuna società lo spirito critico potrebbe mai svilupparsi in tutti e che c’è bisogno, pertanto, di qualcuno che lo eserciti in permanenza, per “illuminare” gli altri (ecco che anche il linguaggio tradisce le origini di tale credenza: che sono, ancora e sempre, quelle della «Encyclopédie»). Ma questo è un modo di pensare aristocratico, nel seno peggiore della parola: strano che sia stato appannaggio, nella modernità, del partito dei “progressisti” - si chiamassero giacobini, carbonari, mazziniani, marxisti, leninisti, maoisti o in qualsiasi altro modo.
Certo, solo in pochi lo spirito critico può dare frutti vistosi; ma non è affatto utopistico immaginare una società in cui esso sia discretamente diffuso anche tra le persone comuni. Chi lo dice che un calzolaio, un fornaio, un contadino non possono sviluppare un buon grado di spirito critico? Opinare diversamente, vuol dire pensare da signorotto feudale.
Prendiamo l’esempio dei nostri vecchi e, in modo particolare, di quelli che vivevano in campagna: chi ne ha fatto l’esperienza, fino a una quarantina d’anni fa, crediamo che capirà perfettamente cosa vogliamo dire.
Prima che la modernità appiattisse e omologasse ogni forma di vita sociale, specialmente in campagna, ma anche nei quartieri delle piccole città, esistevano delle figure di capifamiglia, di lavoratori, di religiosi, che incarnavano l’ideale dello spirito critico, pur non avendo grossi titoli di studio da esibire e pur non sognandosi nemmeno di considerarsi degli “intellettuali”.
Più che di spirito critico nel senso odierno dell’espressione, essi erano ricchi di buon senso: di sano, realistico, contadino buon senso; e scusate se è poco. Davanti a un problema, a una domanda, a una situazione nuova o difficile o ambigua, essi facevano appello, istintivamente, alla loro esperienza di vita, alla loro saggezza, alla loro umanità: e il più delle volte trovavano la parola giusta, il gesto azzeccato, la” medicina” che risana.
E godevano di autorevolezza; perché la società nel suo complesso, non ancora impazzita dietro le chimera del Progresso, non guardava al loro diploma di terza elementare e non badava al fatto che adoperassero male i congiuntivi; meno ancora imputava loro come un difetto il fatto che avessero le mani callose o non si curassero di abbinare il colore dei calzini con quello dei pantaloni.
Ecco: nella società organica, tutti i componenti sono organici - tutti, anche i “marginali”, come i malati cronici o gli handicappati: perché tutti i componenti hanno conservato qualche grano di buon senso, e alcuni ne hanno conservato parecchio; mentre in una società caotica, dispersiva e distruttivamente conflittuale (perché vi è anche un conflitto positivo) si sente il bisogno di qualcuno che faccia da coscienza critica e supplisca al buon senso venuto a scomparire in tutti gli altri, troppo presi dal meccanismo alienante di produrre e consumare all’infinito.
Il buon senso, che non va confuso con il senso comune (il quale può anche essere stupido), è una dote preziosa, “contadina” - certo - nel senso più bello della parola: per suo mezzo, l’individuo si pone davanti al mondo in un atteggiamento di apertura, di riflessione, di ascolto, di elasticità e di creatività.
È una dote in parte innata e in parte acquisita attraverso un determinato stile di vita ed un sobrio, onesto, paziente abito mentale. Uno scienziato può esserne totalmente privo; non parliamo poi di un “intellettuale”. La maggior parte dei libri scritti dagli intellettuali non potrebbero essere letti da una persona di autentico buon senso, come lo erano i nostri nonni: questa si fermerebbe, crediamo, alle prime pagine, scoraggiata dalle loro gratuite assurdità, dalle parole vuote, dal narcisismo sfrenato che trasuda da ogni frase, da ogni riga.
Soprattutto, la persona di buon senso non è afflitta dal male comune a tutti gli intellettuali: la smania di mettersi in mostra, di sembrare superiore, di apparire originale, profondo, meglio se addirittura incomprensibile.
La persona di buon senso è naturalmente modesta: è modesta perché sa di esercitare una facoltà assolutamente normale, che tutti possono avere o dovrebbero avere; e non si sogna nemmeno di considerarsi speciale per il fatto di averla sviluppata, meno ancora ritiene di doverla difendere gelosamente, per distinguersi dagli altri e fare colpo su di essi.
Ma la società in cui viviamo, la società di massa della tarda modernità, non è una società nomale, perché non è una società organica: è un coacervo disordinato e disarmonico di individui (peggio: di “cittadini”: di nuovo, si rifletta al peso ideologico dell’etimologia), di interessi contrastanti, di ambizioni illimitate, di prevaricazioni sistematiche.
Nella società in cui viviamo, il buon senso è diventato una merce estremamente rara; e dobbiamo aspettarci che lo divenga ancora di più, sempre di più.
Per fare solo un esempio (ma ne potremmo fare a milioni): è una prova di buon senso questo correre dietro ai marchi, pagando le merci dieci o venti volte il loro valore reale, solo per sfoggiare una “firma” prestigiosa?
E dunque si dirà che, in una società abbrutita e impazzita, come la nostra, bisogna rassegnarsi alla “necessità” degli intellettuali, che facciano da coscienza critica collettiva.
Follia: affidarsi alle loro male arti, è come mettersi in balìa degli apprendisti stregoni. Sarebbero capaci di trascinare all’Inferno l’intera società, solo per inseguire la loro ambizione, il loro fanatismo, le loro allucinazioni.
È bene guardarsi da loro, sia che facciano la ruota come pavoni nei salotti televisivi, oppure che covino i loro rancori nelle mansarde, in attesa della vendetta.
Che fare, allora?
Coltivare la mente, per renderla sempre più lucida; e ascoltare il cuore, per renderlo sempre più generoso. E poi, basta.