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L' utopia del governo perfetto. Platone e l'idea del Bene assoluto

di Giovanni Reale - 23/08/2010



Credo che sia difficile trovare nella letteratura filosofica un testo più complicato da interpretare della Repubblica di Platone. Ha una ricchezza di idee innovative e addirittura rivoluzionarie e una varietà di componenti che si intersecano in vario modo (logos, mito e utopia), che si prestano a differenti e contraddittorie interpretazioni. Capisco quindi, pur non condividendola, la posizione assunta da Dario Antiseri (sul «Corriere della Sera» del 12 agosto) a favore dell' interpretazione di Karl Popper, che ha presentato Platone come uno dei fondatori dell' assolutismo. (Va ricordato che gli ambienti culturali con cui ha avuto rapporti erano fortemente condizionati dalla interpretazione nazionalsocialista in senso assolutistico). Con Antiseri sono d' accordo su molte questioni, ma su questa esegesi di Platone mi discosto da lui in modo radicale. Sono infatti del parere che Hans-Georg Gadamer non abbia del tutto torto nel considerare La società aperta e i suoi nemici di Popper ciò che di più brutto si è scritto su Platone nel Novecento: naturalmente, ciò che di più brutto è stato scritto comunque da un grande su un grande (questa tesi me l' ha ribadita nel 1996 e nel 2000, nelle discussioni preliminari che ho avuto con lui in occasione delle due interviste che gli ho fatto per il «Sole 24 Ore», e che sono state più volte riedite). Naturalmente, se si estraggono vari elementi dal loro contesto, la tesi di Platone assolutista sembra reggere; ma se si collocano nel quadro generale dell' opera, e si intendono nel loro giusto peso, la tesi regge assai male e in ultima analisi non regge affatto. In primo luogo va ricordato che nei libri VIII e IX della Repubblica Platone presenta una delle più belle e approfondite analisi dell' assolutismo nelle sue implicazioni e nelle sue conseguenze e in particolare una dettagliata descrizione e interpretazione della figura del tiranno nei suoi vari aspetti, con una condanna categorica: il tiranno e la tirannia rappresentano il peggiore dei mali per l' uomo. Naturalmente qualcuno può rispondere che l' assolutismo condannato da Platone non è quello suo, che è in realtà un tipo di assolutismo mascherato e pericoloso quanto e più di quello da lui criticato. Ma il messaggio platonico è in realtà ben diverso. La chiave per una esegesi corretta del grande capolavoro di Platone è contenuta nel finale del libro IX, dove si dice che uno Stato ideale come è stato presentato nel corso dell' opera non c' è da nessuna parte del mondo e forse non ci sarà mai. E si precisa: «Ma forse il suo modello si trova nel cielo a disposizione di chi desideri contemplarlo e, contemplandolo, in esso fissare la sua dimora. Non ha quindi importanza che una siffatta Città attualmente esista o possa esistere in futuro, perché comunque l' uomo potrebbe occuparsi di questa Città (ideale) e non di un' altra». Il vero Stato ideale l' uomo lo deve costruire nella sua anima, secondo quel modello. Werner Jaeger rilevava giustamente che molti interpreti hanno cercato dei corrispondenti dello Stato ideale platonico in forme politiche vigenti in tempi moderni. Ma questo è un errore (in cui Popper è caduto per intero), perché l' essenza dello Stato di Platone non sta nella struttura esterna, ma nel suo nucleo spirituale, ossia nell' Idea del Bene, che l' uomo deve cercare di realizzare: «Non è possibile realizzare la repubblica di Platone imitandone l' organizzazione esterna, ma solo adempiendone la legge di Bene assoluto che ne costituisce l' anima. Perciò colui che è riuscito ad attuare quest' ordine divino nella sua anima individuale ha portato alla realizzazione dello Stato platonico un contributo più grande di colui che edifica una città intera esternamente somigliante allo schema politico di Platone, ma priva della sua essenza divina, l' Idea del Bene, la fonte della sua perfezione e beatitudine». Jaeger rileva addirittura che nasce qui per la prima volta, senza dubbio, l' idea del «cittadino di due Città», ossia della città terrestre e di quella divina, un anticipo in nuce della Città celeste di Agostino. Fra le molte altre osservazioni che si potrebbero fare va richiamata soprattutto la seguente. L' uomo politico che dovrebbe essere al vertice dello Stato ideale, dovrebbe operare una radicale «conversione» spirituale, dovrebbe liberarsi dalla visione delle ombre della caverna per vedere la luce del sole, passando dal «divenire» all' «essere», come condizione necessaria per giungere a vedere l' essere nel suo massimo splendore, e quindi il Bene, che è il Principio di tutto. La communis opinio è convinta che il termine e il concetto di «conversione» siano di carattere prevalentemente (se non esclusivamente) religioso, e in particolare cristiano. In realtà, il termine «con-versione», e in particolare la metafora e il relativo concetto che essa esprime, sono soprattutto di carattere filosofico, e di conseguenza di carattere anche religioso. È stato proprio Platone che ha creato questa metafora, nel libro VII della Repubblica, indicandone anche in modo preciso i presupposti e le conseguenze che esso comporta. Ancora Jaeger scrive: «La natura dell' educazione filosofica è veramente "conversione" (periagoghé) nel significato spaziale ("volgersi", "voltarsi") originario di questa parola. Essa è il "voltarsi" di "tutta l' anima" alla luce dell' Idea del Bene, cioè all' origine del Tutto». Sono tesi, queste, che fanno ben comprendere come il messaggio della Repubblica di Platone trascenda radicalmente gli schemi riduttivi della politica moderna e delle esegesi ad essi legate. E il messaggio della «conversione dalle tenebre alla luce» sia valido per i politici di tutti i tempi, ma in modo particolare per quelli di oggi, e soprattutto per quelli italiani. Antiseri dice che «Popper ha ragione: filosofi e politici non possiedono la verità». Su questo sono perfettamente d' accordo con lui. Chi legge la Repubblica trae l' impressione che Platone fosse convinto di aver raggiunto, come filosofo, la verità in senso assoluto. Ma, in realtà, proprio Platone ha spiegato che il filosofo non è il «sapiente», ossia colui che possiede la sapienza e la verità, non è il sophos, ma il philo-sophos, e nel Fedro, opera posteriore alla Repubblica, scrive: «Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra troppo, e che tale nome convenga solamente a un dio», perché filosofo non è e non può essere un dio, e quindi non è colui che possiede, ma colui che indaga, che ama e ricerca la verità.