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Fisco italiano. Al peggio non c’è mai fine

di Fabrizio Fiorini - 31/08/2010


Ciccopeppe e Frescobaldo sono due cittadini italiani, residenti nella medesima città, di analoga situazione familiare e in buone condizioni di salute. Entrambi percepiscono il medesimo reddito: diecimila euro annui. Su tale cifra il primo si trova a dover pagare meno di mille euro di imposte e il secondo circa duemila. Detta così sembrerebbe un’ingiustizia, una mancanza del più elementare senso di equità. Ma potrebbe non essere così. Esempio: Ciccopeppe è un dipendente di un’impresa di pulizie presso un ospedale, ogni mattina è tenuto a recarsi sul posto di lavoro non oltre le sei del mattino, e colà deve restare fino a mezzogiorno, salvo straordinari; è sottoposto al potere disciplinare del datore di lavoro, e se questi gli comanda: “disinfetta il lavandino del reparto tubercolotici”, lui è tenuto a farlo. In cambio di questo tempo che vende al datore di lavoro percepisce nel corso dell’anno quattordici mensilità da 714 euro e quindi: 10.000 euro per anno.

Frescobaldo invece si alza alle dieci del mattino, si reca nel suo bar preferito e legge i giornali del mattino. Lo tengono impegnato al massimo un paio di telefonate, poi torna a fare i suoi comodi. E’ però proprietario di un grande appartamento nel centro della città, ideale per gli studenti fuori sede cui lo ha concesso in locazione. Percepisce un canone suddiviso in dodici rate mensili da 833 euro, per un totale di 10.000 euro per anno.

Senza essere Greenspan o Marcinkus, è facile capire chi dei due si trova in relativa condizione di disagio: è per questo che l’ordinamento – ai sensi del principio costituzionale di proporzionalità e progressività dell’imposizione fiscale e ai sensi delle disposizioni del Tuir (Testo unico sulle imposte sui redditi) – ha previsto un istituto tecnicamente denominato detrazioni per redditi da lavoro dipendente, che altro non è che una detrazione d’imposta che va ad agire, diminuendola, sull’imposta fiscale (Irpef) sui redditi inferiori ai 55.000 euro. Tale detrazione spetta di diritto a tutti coloro che percepiscono un reddito in ragione di un rapporto di lavoro dipendente, e varia in misura inversamente proporzionale al reddito: per i redditi molto bassi (inferiori agli 8000 euro l’anno) essa va a coprire l’intera imposta, configurando una sostanziale detassazione in seno alla cosiddetta “no tax area”, via via fino a tendere a zero per i redditi alti (oltre 55.000 euro annui) per i quali viene applicata puramente l’aliquota d’imposizione, senza diritto a detrazione alcuna.

Un esempio chiarificatore. Per i redditi inferiori ai 15.000 euro, l’aliquota fiscale applicata è il 23%. Il nostro Ciccopeppe, quindi, in virtù di un reddito di 10.000 euro annui, si troverebbe a dovere alle casse dello Stato un’imposta di 2300 euro. Trattandosi di un lavoratore dipendente, invece, tale imposta si trova ad essere diminuita (“detratta”) della suddetta detrazione per lavoro dipendente, che attraverso una macchinosa formula algebrica determinerà un tributo che il lavoratore dovrà versare pari a circa 700 euro.

Frescobaldo invece, come abbiamo visto, è un privilegiato. Altro che andare a battere il chiodo sotto padrone, il suo lavoro è bere un Campari Soda a metà mattina e passare ogni tanto per la sua sede bancaria a verificare la ricezione dei bonifici che gli studenti che vivono nel suo appartamento gli inoltrano. I suoi 10.000 euro quindi sono tassati diversamente: sempre soggetti all’Irpef, sono tuttavia privi delle agevolazioni delle detrazioni per dipendenti e possono beneficiare solo di una deduzione (che non agisce sull’imposta, ma sulla base imponibile cui l’imposta stessa viene applicata) del 15%. Pagherà quindi le tasse, con la medesima aliquota del 23%, sugli 8500 euro (10.000-15%) provenienti dal canone di locazione percepito. L’imposta netta finale sarà quindi di circa 2000 euro.

Quella del signor Frescobaldo è tuttavia un’ipotesi accademica. I casi di contribuenti che possono contare su un reddito da canoni di locazione  quale unico reddito percepito sono eventi statisticamente rari: spesso, nella maggior parte dei casi, i titolari di tali redditi fondiari sono soggetti ad alto reddito, persone che comunque si avvalgono di altre entrate (ricchi pensionati, professionisti, grossi proprietari), cui pertanto vengono applicate le più elevate aliquote di tassazione, che arrivano fino al 43%. Ecco quindi l’ipotesi Frescobaldo-bis, che anziché Campari al bar dello sport sorseggia un manhattan al caffè Florian, ex dirigente titolare di una pensione di 60.000 euro annui e intestatario di numerose proprietà immobiliari. Per via della continuità fiscale dei suoi redditi in seno alla medesima forma di imposizione (l’Irpef, appunto), sui suoi 10.000 euro percepiti come affitto l’Agenzia delle entrate reclamerà un conto salato: il 43% di 8500, più di 3600 euro che – sommati a quelli richiesti in virtù dell’Ici – faranno in modo che il nostro pover’uomo vedrà sei delle dodici mensilità percepite sparire nei meandri vorticosi del fisco.

Bene. Dopo tanto argomentare siamo incredibilmente riusciti a descrivere quello che potrebbe ancora sembrare un Paese normale. Ma così non è. E tralasciamo, per carità di patria, la questione degli affitti in nero o in semi-nero. E’stato lo stesso ordinamento, quello di una Repubblica così attenta alla conservazione dei privilegi delle fasce ad alto reddito quale è la nostra, a prevedere delle scappatoie. La legge 431 del 1998 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo) ad esempio, al comma 3 del suo art.2, ha coniato la truffa dei cosiddetti canoni concordati. Il funzionamento è grossomodo il seguente: il proprietario si reca nella sede di un Patronato o in un’agenzia immobiliare e dice di voler destinare alla locazione un immobile; comunica la sua metratura, il numero di finestre, la tipologia di impianto di riscaldamento e l’età del fabbricato, e gli viene detto che può richiedere un canone di affitto compreso, ad esempio, tra i 500 e i 600 euro. Opta – fatta salva qualche anima pia – per l’importo maggiore e stipula un contratto di locazione a canone, appunto, concordato, o convenzionale.

Il risparmio per l’inquilino è tuttavia irrisorio: le tariffe stabilite dalle tabelle dei contratti suddetti sono oramai il linea con quelle consuetudinarie dei canoni di locazione ordinari, o di mercato; statisticamente sono inferiori di una cifra che nella migliore delle ipotesi può raggiungere i cinquanta euro mensili. Altro vantaggio di piccola entità di cui può beneficiare il conduttore di un’abitazione locata a canone convenzionale è quella della maggiore detrazione cui può usufruire, in sede di dichiarazione dei redditi, per il fatto di essere intestatario di un tale contratto di locazione: 500 euro anziché i 300 previsti per chi paga un affitto rientrante nella categoria giuridica ordinaria. Nel migliore dei casi, quindi, 800 euro all’anno graveranno in meno sulle spese per la casa dell’inquilino. Di altro tenore il risparmio su cui può contare il proprietario. Riprendiamo l’esempio del nostro benestante signor Frescobaldo. Si trovava a pagare il 43% di imposte su 8500 dei 10.000 euro percepiti (3600 euro) cui occorre sommare l’Imposta Comunale sugli Immobili (Ici) che per le case concesse in locazione prevede l’aliquota massima del 7 per mille e che quindi difficilmente sarebbe inferiore – per una abitazione di medio livello – ai 500 euro annui. Totale: oltre 4000 euro nelle casse dello Stato. Con un contratto di locazione stipulato ai sensi dell’art.2 comma 3 della L. 431, egli invece trarrebbe beneficio da un duplice vantaggio: l’abbassamento di 1/3 della base imponibile su cui applicare la tassazione, che da 8500 euro passerebbe a circa 5700, e l’abolizione (o drastica riduzione: dal 7 allo 0,5 per mille) dell’Ici prevista dalla quasi totalità dei Comuni per le abitazioni su cui grava questo specifico contratto di locazione. In conclusione, pagherebbe all’erario circa 2400 euro, quasi 1500 in meno che nell’ipotesi di canone di mercato. Un istituto giuridico presentato come vantaggioso per gli inquilini comporta quindi per i proprietari un vantaggio economico quasi doppio rispetto a quello degli inquilini stessi. Altro che canone concordato, qua siamo al limite del complotto plutomassonico.

Chi abita questa nazione è ormai avvezzo all’adagio: “al peggio non v’è mai fine”. E infatti. E’ proposito del governo tramutare a breve in legge quella che è assurta agli onori delle recenti cronache col nome di cedolare secca sugli affitti e che verosimilmente assumerà il nome di Imu (Imposta Municipale Unica), che svincolerà i redditi provenienti da canoni di locazione e dalla progressività degli scaglioni Irpef e dell’imposizione dell’Ici. L’aliquota (fissa e quindi indipendente dal reddito) dovrebbe essere fissata al 20%. Pertanto, il ricco proprietario immobiliare vedrà applicata alle proprie cospicue rendite una tassazione separata oltremodo vantaggiosa, tecnicamente inferiore alla più bassa aliquota lorda applicata ai redditi da lavoro dipendente.

Se non ci fosse da piangere, susciterebbero una certa ilarità i proclami e i buoni propositi inerenti l’emergenza abitativa. Se la memoria non ci inganna, è stato proprio questo il governo che più volte ha proposto le più ‘bolsceviche’ risoluzioni per agevolare l’accesso alla stabilità abitativa dei giovani cittadini, sono stati proprio loro a spingersi fino alla proposta della costruzione di nuove città ai margini di quelle esistenti. Evidentemente deve essere stato un sogno: visioni oniriche di stato sociale che al risveglio si concretizzano in un incubo con vampiri e sanguisughe. Eppure non occorreva essere dei rivoluzionari barbudos: Amintore Fanfani, col piano Ina-Casa ci riuscì, e in tutte le nostre città fanno ancora bella mostra di sé delle dignitosissime abitazioni popolari con la targa di ceramica “Ina” vicina alla porta d’ingresso, a ricordare che lo Stato non abbandonava i suoi cittadini.

Sembrano passati secoli anziché pochi lustri. E oggi, dal profondo del baratro in cui è sprofondata l’amministrazione statale, riusciamo a scorgere solo milioni di famiglie costrette alla povertà, guardiamo con rabbia impotente la paterna tutela che l’ordinamento giuridico offre al patrimonio del capitalismo nazionale e alla grande impresa fornendo loro ogni genere di appiglio tecnico-legale e fatichiamo, immersi nel crepuscolo dello Stato, a vedere uno spiraglio di luce. Tanto da rimpiangere addirittura Fanfani.