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Dove è finita quella lieta, sorridente complicità fra uomo e donna?

di Francesco Lamendola - 02/09/2010

Eppure, bisognerà ricominciare.

Uomo e donna non potranno andare avanti così, indefinitamente, lungo strade che li allontanano sempre più, che li vedono sempre più estranei, diffidenti o, peggio, del tutto indifferenti l’uno verso l’altra.

Verrà il tempo in cui l’uomo rientrerà in se stesso; riprenderà coscienza di sé, del proprio ruolo, della propria virilità, senza arroganza ma senza ambiguità. E si chiederà, come dopo una lunga malattia: «Mio Dio, ma dove sono stato in tutto questo tempo? Che cosa ho fatto, che cosa mi è successo?».

Anche la donna rientrerà in se stessa; riscoprirà il piacere della propria femminilità, senza troppi languori, ma anche senza più la folle ambizione di scavalcare l’uomo in fatto di aggressività: ritroverà la dolcezza perduta e ritornerà a vedere nella maternità non un peso e un inconveniente, ma una gioia e una profonda realizzazione.

Torneranno a guardarsi negli occhi con simpatia, con affetto, con desiderio, con stima e ritroveranno l’emozione e la gioia di una sottile, sorridente complicità.

«Complice» non ha un bel significato, nella lingua italiana (né in quella latina, da cui la parola deriva): si è complici di qualcuno in un delitto, in una scelleratezza. La mamma che firma la giustificazione alla figlia che non va a scuola perché non ne ha voglia, si rende complice di un comportamento scorretto e antieducativo.

Insomma, sembrerebbe che non si possa essere complici di un’altra persona senza essere orientati ad agire contro una terza, a danneggiarla, ad ingannarla.

Eppure si può essere complici anche in un senso positivo: quando ci si capisce al volo, ci si intende senza bisogno di tante parole, si sa quali siano le cose che fanno star bene l’altro e non ci si fa pregare per metterle in pratica.

In questo caso, il «terzo» escluso non è una persona fisica, ma il mondo in generale; e non lo si esclude per tramare contro di esso, ma semplicemente per godere pienamente di una intimità a due che non tollera intrusioni di alcun genere.

Un rapporto sentimentale senza complicità finisce per diventare freddo, burocratico, prevedibile e soprattutto noioso. Nella complicità c’è sempre una leggera ma necessaria vena di pazzia o, almeno, di sregolatezza: appena un poco, quanto basta per dare un po’ di pepe alla relazione e per impedirle di impantanarsi nella routine.

Nella complicità fra uomo e donna, poi, entra in gioco anche l’elemento sessuale, ma in forma sottintesa, allegra e scherzosa. Due amici dello stesso sesso, per quanto affiatati, non potranno mai essere complici nel modo che è proprio dell’uomo e della donna. La complicità, infatti, è un capirsi istintivamente fra diversi, non fra simili.

Da quando l’uomo e la donna hanno smesso di essere complici, di porsi l’uno rispetto all’altra con una certa dose di sensuale complicità?

Da così tanto tempo che, forse, l’hanno perfino dimenticato; certo prima del femminismo, e anche prima del dilagante consumismo, che tutto appiattisce ed omologa, facendo sparire la diversità (salvo poi vederla rientrare, ospite indesiderata, dalla finestra, ad esempio nelle vesti della donna mascolinizzata, o dell’uomo svirilizzato).

Forse tutto è cominciato con l’avvento della rivoluzione industriale e del suo inevitabile corollario, la società di massa, che ha provocato un autentico sovvertimento antropologico.

Da allora, l’uomo non è stato più del tutto uomo e la donna non è stata più interamente donna; e, in mezzo a tanta confusione, i figli hanno cominciato a non capirci più nulla, a perdere ogni punto di riferimento e ogni senso di identità.

Sia come sia, il fatto è quello: l’uomo e la donna si sono persi di vista; l’omosessualità, il travestitismo, perfino il cambiamento di sesso, si sono diffusi al punto da rivendicare - ora con modi insinuanti e quasi garbati, ora con sfrontata arroganza - la patente della “normalità” o, quanto meno, della perfetta parità con le relazioni eterosessuali.

L’uomo, ormai, ha paura della donna: la sua aggressività lo intimidisce; la prospettiva del salasso economico cui andrebbe incontro in caso di divorzio (come capita a tanti suoi amici) lo scoraggia dal tentare la via del matrimonio. Vivacchia a casa dei genitori, concedendosi al massimo qualche storiella sentimentale senza importanza o, squallore ancora più grande, qualche incontro sessuale asettico e sporadico con donne altrettanto insicure e complessate, al di fuori di una relazione affettiva qualsivoglia.

La donna, da parte sua, disprezza l’uomo: lo vede debole, inaffidabile; cerca di provocarlo in tutti i modi, di sedurlo, ma solo per sentirsi ancora più forte: e si accorge che non ci riesce più, che le sue armi sono spuntate. Allora si rifugia nel narcisismo, cade nell’idolatria di se stessa come una realtà chiusa e autosufficiente (in fondo, è il vecchio sogno delle femministe arrabbiate) oppure si butta anima e corpo sul lavoro o magari sui figli, povere creature. Se sono maschi, riuscirà a svirilizzare anche loro; se sono femmine, cresceranno all’ombra di un modello materno nevrotico e frustrato, anche se apparentemente determinato e “vincente”.

Ma l’unica vera vittoria degna di questo nome, nella battaglia della vita, è trovare la pace con se stessi e con il mondo; imparare a sorridere delle proprie e delle altrui debolezze, pur non rassegnandosi al peggio, anzi, lottando sempre per il meglio.

Chi non sta bene con se stesso non è un vincente, è un perdente; e chi non sta bene con la propria identità sessuale, non troverà mai la pace e la serenità, per quanti successi possa cogliere nell’ambito lavorativo e professionale e per quanta ammirazione possa destare in quelli che lo vedono solo da lontano e che giudicano secondo le apparenze.

Con se stessi, però, è difficile mentire. Il nervosismo, la scortesia, l’aggressività sempre pronta a balzar fuori sono altrettante spie di un malessere profondo, che ha le sue radici - spesso - proprio nella solitudine affettiva e nella incertezza di genere. Il piacere di sentirsi uomo e di sentirsi donna è indispensabile per godere dell’equilibrio interiore; e non si può provarlo se non si nutre un sentimento di attrazione, di rispetto, di simpatia per il sesso opposto.

L’uomo che vede nella donna una nemica o una possibile rivale non è veramente uomo; né la donna che disprezza l’uomo e ostenta superiorità nei suoi confronti, è realmente donna. Entrambi sono in conflitto con se stessi e riversano tale conflitto interiore in un atteggiamento di timore o di aggressività verso l’altro per eccellenza: il genere sessuale opposto.

Le cronache e le statistiche ci dicono che i delitti all’interno della coppia sono in aumento vertiginoso; che gli uomini, in particolare, non riescono più ad accettare il trauma di essere lasciati dalle donne.

La violenza fisica cui gli uomini si abbandonano non è che il segno tangibile della loro impotenza, della loro inadeguatezza virile. Talvolta consumano la violenza su se stessi, ad esempio uccidendosi sotto gli occhi della loro ex moglie, amante o fidanzata; ma in effetti è un omicidio per interposta persona - la propria.

Però anche le donne che prendono e gettano via l’uomo come si fa con una camicia sporca, non dimostrano una grande padronanza della propria femminilità. Gli uni si aggrappano come naufraghi, con ferocia, a qualcosa che dia loro sicurezza; le altre scappano, come isteriche, da ciò che temono di non poter più controllare.

In questa commedia degli equivoci ci scappano le minacce, poi le botte e alla fine ci scappa il morto; e la commedia finisce in tragedia.

Due debolezze non fanno mai una forza; un uomo insicuro e una donna maschile non riservano che lacrime e sofferenza l’uno all’altra. Una coppia del genere è destinata a disgregarsi o a sopravvivere sulle ceneri di se stessa: in entrambi i casi, con quasi certa infelicità degli adulti e con grave, continuo turbamento dei bambini, se ve ne sono.

Ma allora, che cosa dovrebbero fare l’uomo e la donna per ritrovarsi, per ritornare amici, per ridiventare complici?

In primo luogo, sforzarsi di essere veramente se stessi, di fare chiarezza dentro di sé: ritrovare il proprio equilibrio, vuol dire anche ritrovare la propria identità di genere.

Tale identità, negata dalla cultura femminista degli anni passati, che l’aveva ridotta ad un semplice prodotto culturale, esiste, che piaccia o no ai sostenitori di una astratta «uguaglianza» la quale, in nome di un malinteso democraticismo, vorrebbe anche negare, ad esempio, l’esistenza di differenti razze umane; anche se non può certo essere ridotta alle meschine proporzioni di un maschilismo becero e arrogante e di una femminilità passiva e sottomessa.

In secondo luogo, bisogna trovare in sé quel tanto o quel poco di coraggio necessario per confessare, francamente e senza trucchi, il bisogno reciproco dell’uomo e della donna: perché nessuno basta a se stesso; e la pretesa di essere perpetuamente ammirati e desiderati, ma senza mai concedersi ad alcuno, è una autentica forma di perversione sessuale. E a tale forma di perversione sono in molti ad indulgere, oggi, specialmente nel sesso femminile.

In terzo luogo, bisogna riscoprire il piacere di capirsi, aiutarsi, sostenersi e incoraggiarsi a vicenda: questo è il segreto della complicità; ed è un piacere che si addice alle persone forti e mature, le quali non temono di ammettere di essere bisognose dell’altro. Solo i deboli si credono del tutto autosufficienti; è una maschera, quella che indossano, la quale dovrebbe proteggerli dal rischio di dover chiedere, di doversi aprire, di doversi esporre.

Ma chi non è abbastanza forte e abbastanza umile da esporsi, non merita di uscire dalla propria solitudine; al massimo troverà qualcuno simile a sé, che non lo aiuterà a superare le sue paure, ma vi aggiungerà le proprie: con quanto vantaggio e giovamento reciproco, poi, è sin troppo facile profetizzare.

Solo chi trova la franchezza di riconoscersi indigente e, quindi, di aprirsi alla richiesta dell’incontro con l’altro, finirà per trovare un compagno o una compagna di strada, nel senso più vero di questa espressione: qualcuno che sia diverso da sé , l’uomo per la donna, così come la donna per l’uomo; ma, al tempo stesso, in quanto essere umano, anche abbastanza simile da poterlo capire, apprezzare ed amare.

Non c’è niente da fare; non vi sono scorciatoie.

Chi non ha fatto i conti con se stesso, non troverà mai l’affettuosa complicità dell’altro; e, in particolare, non troverà mai la gioia dell’incontro vero, profondo, con il sesso opposto, che gli schiuderà nuovi e meravigliosi orizzonti esistenziali.

È quasi divina la forza che l’uomo e la donna possono donarsi reciprocamente, allorché siano in reale sintonia e, invece di diffidare l’uno dell’altra, di temersi e aggredirsi, uniscano le loro energie vitali, la loro sensibilità, la loro capacità di accoglienza e comprensione, per formare una entità nuova e diversa, che non sarà più la semplice somma delle due componenti, ma qualcosa di molto più vivo e profondo.

Questo non significa che ci si possa o ci si debba annullare l’uno nell’altra; sebbene una esperienza del genere sia certamente possibile ed anche auspicabile, almeno in alcuni momenti di particolare intensità emotiva, quando realmente essi medesimi non saprebbero più distinguere dove finisca l’uno e dove incominci l’altro.

Essere compici non significa annullarsi, ma rimanere distinti e tuttavia solidali, uniti da mille vincoli di simpatia, di calore, di desiderio della felicità reciproca.

Diversi, appunto, ma anche un po’ simili: abbastanza diversi da costituire un grande mistero l’uno per l’altra; e tuttavia abbastanza simili, da potersi spingere almeno fino alle soglie di un tale mistero, se non altro per godere tutto l’ammirato stupore che esso merita.

Il segreto, in fondo, è tutto qui: riscoprire la meraviglia dell’incontro che rende i diversi un po’ meno diversi, un po’ più simili, pur rimanendo distinti.