Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Bianciardi e la la rivoluzione permanente risorgimentale

Bianciardi e la la rivoluzione permanente risorgimentale

di Valerio Zecchini - 06/09/2010

http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcR_XhepuRAckQTdVF67aAKFH2lP5K6BMb86E03defMC5GPriQ0&t=1&usg=__REyz4TGbusW2JzFhPn_qyKSHibw=

Luciano Bianciardi (Grosseto 1922-Milano 1971) rappresenta una delle figure fondamentali della cultura italiana degli anni  ’50 e ’60. Dopo un’attività di insegnante e bibliotecario nella sua città, unita a una fervida promozione della cultura popolare (bibliobus, cineforum), nel 1954 si trasferisce a Milano dove inizia a lavorare come  redattore nella nascente casa editrice Feltrinelli, con l’intenzione di compiere lì, nella capitale economica italiana, quella “rivoluzione culturale abortita in provincia”. Insofferente della disciplina aziendale e desideroso di rompere gli schemi culturali del tempo, viene però licenziato da Giangiacomo Feltrinelli, e inizia una vita di stenti ai margini della società milanese, sostentandosi con oltre cento traduzioni dall’inglese (H.Miller, J. Steinbeck, W.Faulkner). Dopo alcuni romanzi giovanili (“Il lavoro culturale”, 1956; “L’integrazione”, 1960) nel 1962 esce il suo romanzo più noto:”La vita agra”; improvvisamente diventa famoso e la sua situazione economica tenderebbe a diventare florida, se accettasse qualche compromesso con la società e la cultura del tempo. Così non è, e lo scrittore viene respinto ancora una volta ai margini. Si chiude sempre più in sé stesso, imboccando anche la via dell’alcool, che lo condurrà a morte prematura nel 1971. Più passa il tempo, più viene riscoperto e apprezzato dalla critica e dai lettori, come anticipatore lucido e inesorabile dei mali e del declino della società occidentale.

Cultore dell’epopea del Risorgimento, Bianciardi oltre che scriverne spesso e molto, ce l’aveva fisso nei suoi pensieri; era come se ci vivesse dentro, e lo dimostrano questi due volumi editi da Stampa Alternativa e curati dal figlio Ettore, da tempo impegnati in un ampio progetto di rivalutazione e rilancio dell’opera del grande scrittore toscano:”Ai miei cari compagni” è una selezione di scritti di Bianciardi sul Risorgimento (peraltro riccamente illustrati con stampe d’epoca); alcuni erano stati pubblicati sui molti volumi che dedicò all’argomento, altri erano apparsi su riviste e pubblicazioni meno in vista, altri ancora sono completamente inediti. “Le cinque giornate” è la versione originale dell’ultimo romanzo di Bianciardi, scritto nell’esilio finale di Rapallo; allegato al libro viene proposto su DVD un film del primo capitolo del romanzo, nonché i restanti capitoli come audio-libro in MP3 letti dal figlio: un esperimento interessante che rende giustizia alla potenza evocativa della parola bianciardiana, oltre che un’occasione per scoprire un nuovo, anzi antico, modo di leggere. In appendice, un racconto lungo di Guido Gianni, sindaco di Magliano in Maremma e scrittore di talento, stessa generazione di Bianciardi e di lui grande ammiratore. Gianni segue Luciano nel suo gioco di mischiare il passato con il presente e inserisce lo stesso Bianciardi in una realtà che lui avrebbe certamente gradito: dopo gli eventi della rivoluzione milanese, ora è l’ufficiale di ordinanza di Garibaldi nella spedizione dei Mille in Sicilia e con lui si ferma a caricare munizioni e rivoluzionari a  Talamone. In tal modo, Luciano prende il posto dell’ispiratore dei due scrittori: quel Giuseppe Bandi, maremmano anche lui, che alla spedizione in Sicilia partecipò davvero e ne scrisse la cronaca più vera e più affettuosa.

La geniale idea che accomuna i due libri  è infatti quella del finto diario risorgimentale: Bianciardi, che conosceva a menadito il tortuoso tragitto che portò all’unità nazionale, vi si infila dentro come protagonista, provocando nella narrazione sorprendenti (e divertenti) salti temporali e logici, perché l’autore è convinto che il presente che sta vivendo non sia poi così tanto diverso dalla realtà di cent’anni prima. E’ insomma un Io narrante che viaggia avanti e indietro nel tempo, se non col corpo, con la mente e il cuore.

Bianciardi vedeva il Risorgimento italiano, o almeno una parte importante di esso, come un movimento spontaneo e rivoluzionario di popolo. Cosa che non era stata (perlomeno in Italia), l’insurrezione del ’68 a lui contemporanea – come Pasolini, aveva capito che si trattava di una rivoluzione intra-boghese. Per lui invece il Risorgimento (in particolare la spedizione dei Mille e le Cinque Giornate di Milano) non era solo una celebrazione paludata di battaglie e mezzibusti, ma una vera epopea popolare, una rivoluzione che scoppiò, insieme a tante altre in Europa, anche  in Italia, e anche a Milano, quella città dove si era rifugiato nel 1954 e che non gli era mai piaciuta, dalla quale si sentiva emarginato e che gli avvenimenti e le persone a lui vicine avevano costretto ad abbandonare senza nemmeno aver prima consumato una sua vendetta.
La sua descrizione del clima inebriante delle Cinque Giornate di Milano ricorda molto da vicino il resoconto della Barcellona del 1936 in mano agli anarchici che fece George Orwell in “Omaggio alla Catalogna”. Ma anche le testimonianze sulla Comune di Parigi o l’occupazione di Fiume… stessa eccitazione collettiva, stesso sentimento di fratellanza tra sconosciuti, stesso entusiasmo per la scomparsa dei freni inibitori e l’amore libero. E soprattutto, il verificarsi di cose altrimenti impossibili: eserciti forti e ben armati soccombono e arretrano, la popolazione intera insorge compatta e unita, una nuova forma di vita sociale si afferma, problemi considerati endemici ed irrimediabili scompaiono come d’incanto: “Garibaldi è riuscito, con ottocento settentrionali scalzi e tremila picciotti arrembanti, a prendere Palermo, una città difesa da ventimila uomini, perché è un dilettante. Luigi Cadorna, generale professionista, riuscirà a perdere tredici, dico tredici, battaglie dell’Isonzo, con morti a decine di migliaia”. Ma, allorché la rivoluzione cessa di esistere e viene sostituita da una nuova forma di governo e da un nuovo ordine, tutto ritorna come prima. E infatti tutto tornò come prima: nel 1848 a Milano tornò il Radetzky, con il suo buongoverno oppressivo e alla vittoriosa spedizione dei Mille del 1860 seguì l’ottusa repressione piemontese che creò prima il brigantaggio e poi l’ormai secolare “questione meridionale”.

Comunque, secondo Bianciardi la lezione della rivoluzione permanente la si può comunque trarre dal nostro Risorgimento, senza dover ricorrere a modelli stranieri ed eroi lontani: “Carlo Pisacane è un illustre precursore del dottor Guevara, anzi è molto meglio”. L’ errore fondamentale delle Cinque Giornate di Milano (e delle rivoluzioni precedenti e successive) fu quello di attaccare obiettivi-simbolo del potere (prefetture, caserme, università) e non gli obiettivi veramente nevralgici: le banche e le televisioni.

Ma oggi, a quarant’anni dalla morte di Bianciardi e dopo aver assistito nel frattempo a rivolte e insurrezioni di qualsiasi foggia, sappiamo che le rivoluzioni semplicemente non ce la fanno ad essere permanenti, prima o poi implodono su sé stesse. Esse arrivano comunque ad esprimere il bisogno innato nell’animo umano di gerarchia, ordine e disciplina autentici, cosa però di assai difficile realizzazione in società di massa che vivono praticamente alla giornata, in un caos organizzato alla meno peggio.

“Le Cinque Giornate” è un vero e proprio testamento spirituale concepito nell’esilio di Rapallo, che nella sua fervida immaginazione risorgimentale era dovuto alla partecipazione a quella vera rivoluzione delle Cinque Giornate che era scoppiata a Milano, poco importa se un secolo prima. La cifra stilistica dominante è quella dell’automatismo psichico di stampo surrealista venato di un torrido umorismo nero (così raro nella letteratura italiana), del flusso di coscienza originalissimo, infarcito di toscanismi bizzarri e neologismi di sua invenzione. Ecco una previsione delle conseguenze nefaste della liberazione sessuale: “Già lo sento, io, quel che diranno sociologi e sindacalisti fra una cinquantina d’anni. Diranno che il sesso è un bene, di cui la fruizione dovrebb’essere garantita a tutti, come il tetto, il vitto, l’automobile e tre biglietti settimanali per il cinema (seconda visione) e ciascuno deve avere i mezzi per procurarsela, ‘sta maledetta fruizione, e insieme liberarsi dalla nozione medievale, che la si debba ottenere, sempre la fruizione si capisce, grazie alla malmascherata forma di carità che continua a chiamarsi, con parola desueta, amore. Abbia dunque il lavoratore di che pagarsi, oltre il vestiario, lo svago, la scuola superiore fino all’università (titolo dottorale escluso), anche tre copulazioni settimanali. Sempre col pagare”. E ancora, sull’incontenibile proliferare di cinesi: “Ma quanti cinesi ci saranno a questo mondo? Lo sento chiedere in giro. Fra via Canonica, Chinatown, Taiwan, Hong Kong e la Cina propriamente detta, quanti saranno più? Settecento, ottocento milioni, presto un miliardo. Ogni due minuti, tac, nasce un cinese, nasce mezzo cinese al minuto, dicono, tutti impauriti. Ma furrrbi, dico io, i contatori di cinesi! Hanno paura del pericolo giallo, che dilaghino da via Canonica alla Cina propriamente detta, per venire sin qui a Nesci a vendere cravatte e collanine e a mangiare il belìn de mae cucinato in umido, più qualche cane caramellato, qualche serpente sbucciato, qualche uovo dell’anno scorso, e magari anche la razza, ghiotta anch’essa di marittimi belìni, l’immonda”.

Sicuramente una voce fuori dal coro da mettere il più possibile in evidenza, nella montante foga retorico-celebrativa del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia in chiave revisionista.