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Risalendo la valle, tra i boschi, sul filo di pensieri sereni e dolci ricordi

di Francesco Lamendola - 07/09/2010

 

ALL’AMICA IOLE

 

La lunga strada diritta si addentra nella valle in mezzo ai boschi, ancora adornati con il verde mantello estivo, mentre un fresco venticello che scende dalle montagne porta il profumo dell’erba e il gradito mormorio del torrente che scorre là, dietro le siepi.

Una poiana si leva nell’aria e vola lentamente verso la testata della valle, trasportata dalle correnti come se fosse senza peso.

Alle spalle rimane il minuscolo paese affacciato intorno alla piazza, con la chiesa dalla facciata classicheggiante, le colonne bianche e il campanile che svetta alto e sottile nel cielo; con la fontana gorgheggiante al centro dell’aiuola e, poco distante, l’antica vera da pozzo; con le case dai muri di pietra a vista ingentilite dai vasi di fiori alle finestre e con gli archi che immettono nei cortili interni, nei quali s’intravedono i ballatoi di legno.

Qualche facciata è perfino affrescata: arte popolare, povera e ingenua, e tuttavia estremamente commovente.

All’interno della parrocchiale, poi,  i numerosi altari in legno intagliato e dorato richiamano la caratteristica architettura sacra delle zone alpine di questa pare d’Italia, aperte all’influenza culturale germanica; impressione rafforzata dalle caratteristiche dei dipinti che abbelliscono la chiesa e specialmente dall’uso del colore: dipinti che sono dovuti, quasi tutti, al pennello di un artista austriaco, di Graz, piovuto fin qui nel tardo Rinascimento e rimastovi, poi, sino alla fine della sua giornata terrena.

Gli ardori dell’agosto sono già un ricordo e in questa mattina di settembre, con il cielo grigio e la temperatura decisamente fresca, sembra che l’estate sia volata via di colpo, senza commiati malinconici, per cedere il passo ad un autunno che non sembra ancora tale, perché solo pochissime foglie sono già cadute e il giallo e il bruno del fogliame non hanno nemmeno incominciato a fare capolino tra gli alberi.

Dovunque si volga lo sguardo, il paesaggio si presenta vigorosamente verdeggiante: tutte le pendici dei monti intorno sono ammantate da una rigogliosa vegetazione di carpini neri, robinie, pioppi tremoli, e, più in alto, da pini neri, roverelle, castagni; più in alto ancora, faggi e abeti rossi, mentre i sentieri del sottobosco sono fiancheggiati da cornioli, viburni, maggiociondoli, ginepri, rose canine e vivacissime macchie di ciclamini, spuntati come per incanto dopo le piogge abbondanti dei giorni scorsi.

In una sola direzione le pendici dei monti non sono coperte di boschi, ma appaiono nude e spoglie: verso il passo che s’inerpica in fondo alla strada e che le scavalca aprendosi la via nella viva roccia, con una serie di tornanti spettacolari, alcuni dei quali in gallerie a cremagliera. Quest’opera audacissima d’ingegneria stradale venne realizzata dal comando austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, dopo Caporetto, utilizzando prigionieri russi e bambini, ragazzi e donne del posto; venne chiamata “la strada dei cento giorni”, perché realizzata in poco più di tre mesi, fra il febbraio e il maggio del 1918: appena in tempo, dunque, per trasportare i cannoni pesanti destinati all’inutile ma sanguinosissima battaglia del Solstizio.

Ora tutto intorno è pace e silenzio e si stenta a credere che, ormai quasi un secolo fa, di qui sia passata la tragedia della guerra, portando lutti e rovine e gettando un intero continente nella dissoluzione morale e materiale; ora questo luogo ameno, tranquillo, attraversato da una strada che raramente è percorsa dalle automobili, suggerisce soltanto pensieri sereni e dolci ricordi, in una atmosfera addirittura fuori dal tempo.

Due anziani, dal viso rugoso e dallo sguardo penetrante, chiacchierano sul bordo della strada come facevano i loro nonni ed i loro bisnonni: qui non vi è il rumore del traffico a coprire i loro discorsi e tutti si conoscono, sono appena cinquecento anime che vivono ancora secondo un ritmo naturale, per quanto possibile nella nostra società convulsa.

Pensieri sereni e dolci ricordi…

Sì, ero già passato di qui, molti anni fa; in bicicletta avevo risalito il passo e le gallerie, per poi ridiscenderle a tutta velocità, col vento delle giovinezza che mi soffiava in viso e mille sogni indistinti che si affacciavano alla mente, come quando il sole fa capolino in una giornata nuvolosa, si nasconde timidamente, poi torna e di nuovo sparisce, più e più volte.

Inoltre, quassù abita una cara amica, che forse non rivedrò tanto presto; ha perso il posto di lavoro e se n’è andata in punta di piedi, lasciando in quanti l’hanno conosciuta il ricordo del suo sorriso mite.

Forse la sua casa è proprio questa davanti alla quale sto passando, col suo giardinetto ed i gerani alle finestre: l’ultima del paese.

Il vuoto che lasciano le persone di valore, quando se ne vanno, è tanto più grande, quanto più la loro discrezione ci aveva abituati alla loro presenza benevola, senza strepito: ed è il silenzio della loro assenza che fa poi tanto rumore.

 

*  *  *

 

«Tra me e uno che non conosco, anche se stiamo seduti accanto, c’è in mezzo l’oceano dell’ignoranza e dell’indifferenza.

Se un giorno questi diventa amico intimo, vuol dire che io ho attraversato quell’oceano.

Allora la distanza dello spirito sparisce, né resta la distanza del corpo, e anche la separazione della morte non crea una distanza.

L’orgoglio, che alza muri tra gli uni e gli altri di noi pur vicini, ci allontana; se si mette da parte per dar posto a qualcuno, questi diventa intimo. […]

Infatti le cose, come ci sono vicine, così sono anche ad una distanza terribile. È la ragione per la quale, se noi allontaniamo un amico, questi diventa più altro degli altri. Non percepire colui che ci è tanto vicino, è una freddezza più glaciale della morte. […]

Quanto è vicina la riva per la quale versiamo lacrime nell’attraversare l’oceano? È più vicina di questa nostra stessa riva. Lo dice semplicemente chi ha capito chiaramente . Ad ascoltare ci meravigliamo: credevamo tanto lontane  le cose così vicine. Dicevamo: Impraticabili, impossibili!

Che cosa dicono coloro che hanno passato l’oceano?  Colui che è davanti, vicino, accanto, è il nostro ultimo destino. E nulla può essere lontano da Colui che è il suo ultimo destino. È così vicino che non c’è neppure bisogno di chiamarlo. È Lui, eccolo! Più di così non ci si può aspettare. Egli qui è tutto: Egli è di qui e di là.

Egli è l’ultimo destino! Chi ci fa camminare? Colui che è davanti, vicino. Noi pensiamo: i nostri soldi, la fama, gli uomini. Chi attraversò l’oceano dice: “Egli è il Destino”!

Il Destino ultimo on è lontano: Egli, in mezzo a tutti i miei piccoli destini disprezzabili, è il Destino Supremo; come nella mela che casca a terra c’è la forza d’attrazione di tutto l’universo. In tutto il cammino del mio corpo, in tutti gli sforzi della mia mente, c’è Colui che è il Destino Supremo: “Eccolo, è Lui”! Il centro di questo destino non è lontano: è qui.

Colui che è tutta la nostra proprietà, il nostro ultimo rifugio, la nostra gioia sprema, è la proprietà di ogni nostro momento, è in mezzo a tutte le nostre gioie di ogni istante. Colui che è per noi tesoro e compagnia, nostro rifugio, in mezzo a tutte le nostre soddisfazioni: “Eccolo, è Lui, è qui”!»

 

Così annotava Rabindranath Tagore, il grande mistico indiano, il 27 dicembre 1908 (in: Tagore, «Santinicheton», a cura di Marino Rigon, Vicenza, Esca, 1978, pp. 81-83), parlando di due rive della vita, così vicine eppure così lontane; così lontane, eppure così vicine.

Tale è il mistero di Dio; tale è il mistero dell’altro.

Gettare un ponte per arrivare fino all’altro è come attraversare l’oceano; ma, una volta che ciò sia stato fatto, è come aver trovato anche Dio e, al tempo stesso, la parte più vera e più profonda di noi stessi.

Noi viviamo come in esilio, confinati sulla riva della solitudine: l’oceano ci fa paura con la sua vastità sconfinata, ci sembra che sia impossibile attraversarlo.

Pure, quando riusciamo a compiere il movimento - o forse non noi, ma quella Forza che è in noi e che trae da noi le Sue note divine, come da uno strumento musicale -, proviamo un senso di profonda meraviglia: come, era tutto qui?

E sentiamo di essere tornati a casa.

In pace, finalmente.

 

*  *  *

 

L’acqua scorre sul muschio a lato della strada e scende giù dal muretto di pietra, come una gioiosa, minuscola cascatella, con un canto sommesso e melodioso.

Viene voglia di allungare le mani e di immergerle nel muschio bagnato, per rinfrescarsele e per bagnarsi il viso e la fronte.

È così limpida che la si potrebbe tranquillamente bere.

Se anche la nostra anima fosse altrettanto limpida, allora potremmo sostenere qualunque imprevisto, qualunque difficoltà, con animo sereno e fiducioso.

È il torbido delle nostre passioni disordinate, delle nostre brame inesauribili e delle nostre paure paralizzanti che ci impedisce di vedere il fondo, di attraversare l’oceano.

L’oceano del rammarico, dell’impotenza, degli amari rimpianti è dentro di noi, non fuori; ed è esso che ci impedisce di vivere in comunione con il mondo.

Mettersi in comunione con il mondo, con le cose, con la vita, vuol dire abbassare le difese dell’orgoglio e rimuovere i cancelli dell’indifferenza; vuol dire lasciarsi afferrare dolcemente dal flusso dell’armonia cosmica, riconoscersi parte di questo Tutto.

Vuol dire sentirsi solidali ed armoniosamente uniti alla poiana che vola silenziosa sulla valle, al ruscello che scende gorgogliando dietro la siepe, alle fronde dei carpini e delle robinie che stormiscono alla brezza lieve di settembre.

Vuol dire ritrovarsi nei ricordi del passato, nei pensieri del presente e nei sogni del futuro, facendo cadere le barriere del tempo e dello spazio e riconoscendo se stessi anche in ciò che non si è più ed in ciò che non si è ancora.

Vuol dire sentire qui accanto a sé gli amici e quanti ci hanno corrisposto, anche se materialmente non sono presenti; anche se alcuni di essi hanno lasciato questa vita terrena e sono partiti per un viaggio straordinario, dal quale non si torna indietro.

Questi ultimi ci hanno preceduti e, adesso, ci stanno aspettando.

Ci hanno preparato la strada.

Una strada affascinante, lunga e diritta, come questa che sale verso le montagne in mezzo ai boschi e pare perdersi incontro al cielo.

Non fa paura.

È la strada del ritorno.