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Visionari: Opicinus de Canistris. Questo sono io (che vi piaccia o no)

di Simone Bedetti - 07/09/2010

Fonte: area51publishing


Nel 1943 Carl Gustav Jung tiene un seminario informale di fronte ad alcuni studenti. È interessato a un mistico italiano del XIII secolo, quasi dimenticato per secoli, e in particolare agli affascinanti disegni che affollano le pagine di una sua opera altrettanto tralasciata, il Codex Palatinus Latinus 1993. Il fondatore della psicologia analitica nel corso di quel consesso di studiosi definisce alcuni di quei disegni dei veri e propri mandala – uno dei ‘pezzi forti’ del pensiero junghiano – segno del tentativo di superare un evidente disagio psichico: la dottrina religiosa, entro la quale l’irrefrenabile afflato espressivo e artistico del mistico doveva iscriversi, avrebbe dovuto nelle intenzioni – inconscie – sanare la lacerante scissione interiore di cui era affetto Opicinus. Il tentativo però non riuscì, e il nostro finì dilaniato dai sensi di colpa, se non peggio.

L’autore di questa singolare raccolta di testi e disegni che uno studioso come Aron Gurevich non esita a definire “autobiografia”, è Opicinus de Canistris, mistico e visionario, forse davvero affetto da disagio psichico, ma certo una delle personalità più suggestive del basso medioevo. Nato a Lomello, nei pressi di Pavia, il giorno prima di Natale del 1296 – segno questo che egli stesso ritenne sempre estremamente infausto – e vissuto per gran parte dell’esistenza da indigente, Opicinus fu chierico, cartografo, miniatore di rara potenza espressiva, capace di dar vita nel corso della sua breve e travagliata esistenza a una produzione stupefacente e singolare.

Sappiamo abbastanza di lui. Dopo alcuni tentativi di entrare nelle grazie del potere religioso, finalmente, grazie ad alcuni trattati “azzeccati” riesce a conquistare la benevolenza del papa Giovanni XXII, e a seguirlo nell’esilio di Avignone. Qui cerca di darsi da fare anche con la teologia, ma ciò che dice e scrive tradisce la sua traballante formazione, al punto da finire ostracizzato dagli intellettuali religiosi e cadere in disgrazia. Degno di nota è invece un trattato sulla patria che aveva dovuto abbandonare, Pavia, città che magnifica e riempie di lodi, e di cui cerca di dimostrare a suo modo la perfezione.

Ma l’opera che più affascina a sette secoli di distanza è senza dubbio proprio il Codex Palatinus Latinus 1993. La vita di Opicinus è disseminata di disgrazie. A quarant’anni, in seguito a una grave crisi, diviene muto, affetto da una paralisi parziale e da una perdita di memoria litteralis – che viene però generosamente compensata da una successiva visione della Vergine che gli concede speciali conoscenze spirituali. Di questa drammatica esperienza Opicinus sente il bisogno di raccontare a suo modo, in  pagine e pagine – a volte anche di formato notevole – di vibranti e spesso ossessive rappresentazioni, evidente segno di un’esperienza mistica assai conflittuale, tutta giocata entro i due pilastri della convinzione dell’irredimibile peccaminosità del mondo e il tentativo – persino goffo e tinto di una certa piaggeria, in alcuni casi – di ossequio all’autorità religiosa.

In questo spazio così delimitato l’opera di Opicinus può essere intesa come un tentativo di salvazione, di sé stesso come del mondo, secondo una logica di coincidenza progressiva di questi due elementi. Mettendo assieme l’arte medievale della cartografia, una viscerale passione per l’astrologia e un singolare talento per il disegno, Opicinus cerca ostinatamente di dare un senso anche grafico agli elementi che di fatto costituiscono il suo mondo psichico, producendo un flusso a suo modo metodico di allegorie della Chiesa, di rappresentazioni di profeti ed evangelisti, di episodi del nuovo e vecchio Testamento, di Cristo e della Santa Vergine e, naturalmente, di tratti personali.

La correzione, e in un certo senso anche il tentativo di rendere tutto coerente, si manifesta quasi sempre con la necessità di inscrivere le figure in cerchi, ovali o altre figure “date”, come appunto sono i contorni cartografici. Testi a volte completamente criptici commentano o ricoprono questi disegni, rendendo lo scorrere delle pagine una visione nella visione. Il numero quattro ricorre molte volte – quattro sono gli evangelisti, quattro i suoi autoritratti a dieci, venti, trenta e quaranta anni, fatto quest’ultimo davvero nuovo per l’iconografia medievale. Altri indizi più o meno esoterici disseminano i fogli in attesa di essere compresi.

Il bacino del Mediterraneo, in particolare, diviene oggetto del suo ossessivo interesse. Europa e Africa ospitano come creature racchiuse in bottiglie troppo piccole sembianze umane, a volte oscene, a volte di uomo e donna intenti a sfiorarsi le labbra in quel di Gibilterra, o di lui che le sussurra chissà quale segreto in un orecchio. La Corsica può diventare un escremento, Genova l’orifizio che l’ha prodotto.

La febbricitante identificazione dell’io di Opicinus con il mondo si spinge al punto che il suo corpo stesso diventa l’Europa. Come spiegare altrimenti che le sue costipazioni corrispondono ai problemi politici in Lombardia, “stomaco d’Europa” in un indistricabile sovrapporsi di diaristica spicciola, cronaca politica e quanto meno originale sensibilità estetica?

Accanto ad alcune tavole è scritto talis sum, ego interius, questo sono io internamente. Forse questo basta per arrestare indagini e tentativi più o meno psicoanalitici di interpretazione. Ciò che è lecito, invece, è ammirare il risultato di un talento prodigioso e originalissimo che merita indubbiamente di essere meglio conosciuto.

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