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Régis Debray. 70 anni fuori dal coro

di Giorgio Ballario - 07/09/2010


Può piacere o meno, essere simpatico o no, ma nell’arco dei suoi settant’anni di vita Régis Debray di tabù ne ha infranti tanti. Talvolta seguendo la cresta dell’onda, molto più spesso andando controcorrente. Come quando ha sostenuto che «Israele, nato da una lotta per la decolonizzazione, è diventato il simbolo del colonialismo e ha reso l’insopportabile inevitabile, perché il suo “potere coloniale” non ha mai cessato di colonizzare, di espropriare e sradicare». E ancora: «Israele è crudele con i deboli. Se il mondo arabo è cieco all’Olocausto, Israele è accecato dall’Olocausto».  Parole forti che in Francia, presunta patria della libertà intellettuale, ad altri forse sarebbero costate il carcere.

Ma l’ex amico di Fidel Castro e Che Guevara, nonché consigliere politico di Mitterrand, se l’è cavata solo con qualche insulto da parte degli esponenti della cultura più schierata con Gerusalemme e con gli strali delle vestali della “gauche caviar”, come Bernard Henri Levy, Jean Daniel e Philippe Sollers.  Le stesse vestali che ha sputtanato una decina d’anni fa definendole I.T., ovvero “intellettuali terminali”, diventate nel corso degli anni da «persone coraggiose, colte e amiche del popolo, ad esseri abbietti, parassiti, volubili, venduti, narcisisti, avidi solo di comparsate in tv e della firma su Le Monde». Un bel quadretto, non c’è che dire. Chissà se fischiano le orecchie a qualcuno anche in Italia?

Il 2 settembre Régis Debray ha compiuto 70 anni. Vissuti pericolosamente e soprattutto liberamente. Passando con una certa disinvoltura dalla guerriglia sudamericana al palazzo dell’Eliseo, dalla frequentazione di Che Guevara nella selva boliviana ai pranzi con Chirac, con il quale ha simpatizzato a metà anni Novanta. Del resto l’ex giornalista, ora convertito alla “mediologia” (cioè lo studio di come i media modificano e trasformano il messaggio), si è definito un gollista di sinistra, molto più vicino a politici un po’ eccentrici come il gollista nazionalista e populista Philippe Séguin e il socialista antieuropeista Jean-Pierre Chevénement, piuttosto che ai vecchi compagni di strada degli anni Sessanta e Settanta. Non a caso si è schierato con Seguin e Chevénement contro il Trattato di Maastricht e contro l’intervento occidentale nella prima e seconda Guerra del Golfo.

La divergenza con i vecchi compagni si è fatta virulenta sul finire degli anni Novanta, quando l’intellighenzia socialista e di sinistra si è apertamente schierata per l’indipendenza del Kosovo e per i bombardamenti della Nato su Belgrado, mentre Debray ha preso le difese dei serbi, sfidando il “pensiero unico”, negando l’esistenza di una politica di pulizia etnica da parte della Serbia e sottolineando le responsabilità, nel conflitto civile del Kosovo, delle azioni terroriste dell’Uck.

Certo, sono lontani i tempi in cui il giovane giornalista parigino simpatizzava per la causa castrista partecipando alle campagne di alfabetizzazione di Cuba; o quelli in cui girava per l’America Latina descrivendo gli obbrobri del capitalismo neo-colonialista americano nelle miniere della Bolivia o nelle piantagioni di Panama. E ancora, di quando partecipava in prima persona alla folle rivoluzione guevariana in Bolivia, finendo in carcere per quattro anni. Sia pur senza rinnegare nulla, Debray non ha timore, a distanza di tanto tempo, ad ammettere l’illusorietà di quelle sollevazioni più o meno spontanee. Così come confessa l’ingenuità della teoria del “fochismo”, da lui stesso elaborata a metà degli anni Sessanta per descrivere la nascita dei fuochi spontanei di guerriglia. Ma a suo modo continua a condurre la sua piccola battaglia di cultura contro alcuni degli obiettivi di sempre: il pensiero unico, lo strapotere americano, il dominio delle lobby (economiche e culturali)  sulla volontà popolare, l’Europa degli oligarchi che soffoca quella dei cittadini (e anche un po’ dei popoli…). Joyeux anniversaire, monsieur Debray!