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Reportage dall’Australia

di Mario e Giulio Cornelio Grossi - 07/09/2010


Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera…

F. Guccini

IL VECCHIO
Mario Grossi

Victoria Bitter, Carlton draught, XXXX Gold, Cooper, Boags, Cascade, Emu, Foster’s, Pure Blonde.

Volevo fare un resoconto puntuale sul mio viaggio in Australia (in realtà, a parte Sydney, solo Queensland del Nord e Northern Territory) e sono qui a elencare tutte le birre che ho bevuto in ventotto giorni di peregrinazioni. Volevo fare un resoconto puntuale e dettagliato per raccontare lo stupore che ho provato e mi trovo a iniziare con il più classico dei luoghi comuni sull’Australia (vero a metà): gli australiani grandi bevitori.

Tutta colpa dell’ultima sera in territorio australe. Serata indimenticabile che mi ha fatto vivere in poche ore un concentrato di luoghi comuni sulla “terra sottosopra” che hanno rischiato di uccidermi come la più micidiale delle overdose.

Il luogo è un pub in un oscuro campeggio di Alice Springs in cui mi ero attendato, o meglio dove avevo parcheggiato un arnese che nelle intenzioni doveva essere un van attrezzato ma che nella realtà si è rivelato un pezzo di ferro arrugginito con tre materassini dentro.

Non c’è un buco in città, incredibile in un posto sfigato, al centro dell’Australia, in cui transitano quei turisti che proseguono per Uluru (meglio conosciuta come Ayers Rock). Alla fine riesco a convincere il gestore a darmi un pezzo di spazio residuo tra due macchine in un parcheggio all’interno del recinto.

Sono incappato nel raduno annuale dei camionisti e quest’anno in diecimila si sono riversati qui per una tre giorni di bagordi. In effetti la cittadina sembra un grande accampamento zingaresco con camion enormi, furgoni attrezzati, tende in ogni spazio occupabile.

Nel pub del campeggio ci arrivo quando tutti i tavoli sono già stracolmi di colossi irsuti già intenti a tracannare birra. Tutti indossano un cappellino con visiera, canotta o camicia a scacchi. Di rigore le infradito o pesanti Australian boot, lo scarponcino da lavoro che è una specie di orgoglioso emblema della locale working class. Un cartello sopra il bancone avverte che, trattandosi di un ristorante, dopo le sette di sera non si può circolare a torso nudo, cosa invece usuale e da me praticata abbondantemente in quasi tutti i pub frequentati.

I luoghi comuni sono tutti lì. C’è un camionista alto due metri, con una pancia enorme, che ha in mano una caraffa di birra che dovrebbe portare al tavolo e invece se la scola di un fiato al banco direttamente. Scherza con un compagno di bevute e intanto adocchia la grassona truccatissima con scollatura mozzafiato sulle grandi tette e con minigonna inguinale che inguaina due cosce che sembrano colonne e che sta dietro il banco a servire incessantemente birre e whiskey. A un lato della sala Darts e Pool (freccette e biliardo) di rigore in questi locali che nessuno usa questa sera.

C’è musica dal vivo. Country naturalmente e Chris Callaghan con un chitarrista di supporto sciorina canzoni malinconiche con voce baritonale alternate a ritmi accelerati ricamati su un finger picking di buona caratura. È la copia di Richard Branson, il patron della Virgin, e quando glielo fanno notare dal pubblico, lui tira fuori una battutaccia che scatena le ilarità della platea già alticcia. Si beve una bottiglia di birra ogni volta che passa alla canzone successiva e se ci aggiungete qualche bicchierino iniziale, tanto per scaldare l’ugola, non si capisce come faccia non solo a cantare (e bene) ma a stare in piedi. Il suo compagno è un chitarrista attempato e sovrappeso che ricorda molto da vicini il Van Morrison invecchiato di oggi, ma ha dita esperte e quando a un certo punto parte con un assolo pizzicato la folla grida e fischia in una baraonda indicibile. Il pezzo è noto, è il famoso Duelling, la battaglia di chitarra e banjo, resa famosa da una scena ormai di culto di Un tranquillo week end di paura. La serata sembra la fotocopia dei “Blues Brothers” in terra australiana, tanto che con mio nipote per scherzare decidiamo che come bis chiederemo a gran voce Rowhide, ma poi non se ne fa niente.

È il pub tipico dell’outback frequentato dalla working class, orgogliosa del suo status tanto che con irridente malizia parla dei colletti bianchi come di “pushers pencils” quelli che sono capaci solo a spingere una matita col culo schiacciato su una sedia (io me la rido perché i casi della vita mi hanno portato solo a spingere matite).

Per completare l’opera mancherebbe solo la “cane toad race” la corsa dei rospi cui avevo assistito in un altro pub a Port Douglas, prima di cominciare la mia traversata verso Sud.

È da questo condensato di luoghi comuni che mi si fa strada con sempre maggiore chiarezza quella che penso essere l’essenza di questo paese o l’immagine di quello che io ci vedo.

Un paese diviso esattamente a metà, vissuto esattamente a metà. Due metà giustapposte che non si mescolano se non in rarissime occasioni.

Mi rendo conto di questo ripesando al “Three monkies” un pub nel centro di Sydney in cui un buttafuori scrupoloso chiede la carta d’identità a mio figlio che di anni ne ha ventitré (e santoddio è “accompagnato dai genitori”). L’interno è illuminato da luci soffuse i banconi e l’arredo sono rigorosamente di legno ma tirato a lucido. La fauna è costituita da gente in giacca e cravatta, talvolta col nodo allentato in segno di massima trasgressione. È un locale frequentato dalla middle upper class, rigorosamente bianca, anglosassone, blasè.

Tutta l’Australia è così. Una giustapposizione di due stili immiscibili.

A Sydney si predilige il cibo fighettone. Multietnico rivisitato con un tocco di nouvelle cousine. Niente a che vedere col cibo del centro, fatto di bistecconi e patate fritte o incredibili hamburger. Come quello sontuoso che ho trangugiato in una roadhouse a Erldunda (pieno Red Center) che prevedeva polpetta di manzo, fetta di formaggio, foglia d’insalata, pomodoro, fetta di patata dolce, cetrioli sottaceto, fetta di rapa rossa, cipolla, uovo al tegame in cima coronato da una fetta di ananas, accompagnato da una porzione di patatine fritte servite in una scodella che poteva facilmente contenere un chilo di spaghetti.

Anche nel bere esiste una sottile, invalicabile linea di demarcazione. In città la classe media bianca e anglosassone beve birra con moderazione ma si atteggia con il vino, peraltro di ottima qualità, tentando di scimmiottare uno stile presunto europeo. Nel centro la working class tracanna birra come una locomotiva e se ne frega di centellinare il vino.

Popolata sulle coste del Sud, completamente priva di qualsiasi segno di antropizzazione al Centro.

La costa è bianca, il Centro è aborigeno. Anche etnicamente la giustapposizione è visibile. È come se le due etnie vivessero separatamente, tanto che s’ignorano vicendevolmente. Quando s’incontrano lo spettacolo è pietoso. In genere gli aborigeni sradicati che hanno deciso di vivere in città di sussidi statali sono ubriachi, molesti, nullafacenti. Assolutamente non integrati, almeno come vorrebbero i cittadini bianchi. L’integrazione infatti è cosa fatta per tutti coloro che hanno accettato le regole anglosassoni. Italiani e greci prima, polacchi, arabi e asiatici poi, occupando i posti che gli australiani via via hanno disdegnato, si sono integrati bellamente. Ma chi, come gli Aborigeni, non ha mai accettato questo stile di vita vive ai margini in condizioni degradate.

Diverse sono le comunità autoctone che sono disseminate nel centro in cui possono condurre una vita povera ma vicina al loro stile di sempre.

È come se fosse rimasta una frattura primigenia anche tra i bianchi stessi alle prese con un doppio ch si scoglie nelle scelte di vita. Anglosassoni ma pronipoti di galeotti, portati qui per non infastidire, devono fare i conti e scegliere tra ipocrisia e genuinità. La costa, le città hanno scelto l’ipocrisia, l’individualismo e uno stile da middle class: morigerati, bacchettoni, fintamente tolleranti, ricolmi di pregiudizi.

Il Centro ha scelto quel tipico, umano, caloroso solidarismo che s’instaura tra perdenti, tra galeotti o avanzi di galera. Te ne rendi conto quando sulla strada, da ogni veicolo che incontri, il guidatore ti fa un cenno di saluto, o quando accosti, magari per una foto, e ti accorgi che chi passa t’interroga con un pollice alzato. “Tutto ok?”. A me che in un indiavolato rally su uno degli sterrati infiniti del Centro (altro luogo comune vero sull’Australia) ho perso la targa del furgone mi è capitato di farmi accompagnare su un pick up alla sua ricerca per chilometri senza che il guidatore si preoccupasse per nulla di aver dovuto fare una lunga deviazione e perdere tempo per aiutarmi.

Nelle città della costa, bianche, anglossassoni, individualiste, frettolose poi il saluto è formale “Good morning, sir” ti senti dire. Niente a che vedere con il più coinvolgente “G’day mate” (sincopato per Have a good day mate) che ci si rivolge al Centro e che mio figlio traduttore ed esegeta dei nuovi linguaggi riproduce, credo correttamente, col nostrano “Bella, zì” in uso nel gergo giovanile.

Poi c’è tutto il resto: l’uomo è sulla costa, la natura domina il Centro. Le luci delle città inquinano la costa. I cieli, la croce del Sud, la via lattea, i coccodrilli, i voli di cacatua, gli scenari immensi a perdita d’occhio sono nel Centro.

Alla fine è la stessa linea d’ombra che separa, dentro ognuno di noi, il lato civile da quello selvaggio, il lato solare da quello lunare. È benefico vedersela in carne e ossa davanti agli occhi perché ti costringe, al di là delle finzioni quotidiane a fare una scelta estetica di campo che rappresenta però una volontà di esplicitarsi.

E allora birra o vino? T-shirt o polo? Barba incolta o pelle rasata? Moderazione o radicalismo? Individualismo o solidarietà? Costa o Centro dell’Australia?

Torno a casa sulle note dei Dropkick Murphys “Which side are you on?”.

Tu! Da che parte stai?

IL BAMBINO
Giulio Cornelio Grossi

È notte fonda al Novotel di Taipei; le luci della moderna città illuminano tenuemente la mia stanza, mentre il rumore degli aerei in partenza fa da sottofondo, una musica new age che accompagna il mio jet leg. Attendo che la notte passi lentamente, temendo che il fuso orario si faccia sentire il giorno seguente, quando il sole sarà alto in cielo. Mi aspetta una giornata intensa, una lunga attesa per il prossimo volo, l’ennesimo, che finalmente mi porterà dall’altra parte del mondo. Odio il clima di questa città. Mentre cammino per le sue strade affollate di tratti mongoli, disseminate di templi buddisti, un vento caldo, come l’aria che esce da un asciugacapelli, invade le mie narici. Qui l’umidità è alle stelle; le gocce di sudore scendono dalla mia fronte grondante; non sto neanche camminando. Mentre anche l’ultimo sprazzo di liquidi del mio corpo evapora via, penso che tutto sommato è una cosa bella sperimentare un clima diverso da quello delle coste del Mediterraneo, a cui sono abituato; è un diverso modo di vivere quotidianamente, una diversa cultura; mi sento più ricco e più forte. “Questo mi aiuterà a superare altre ore di aereo che mi separano dal nuovo continente”,  penso prima di cadere nel sonno, sul sedile 19J dell’airbus 330 che mi depositerà a Sidney,  la città cosmopolita che si affaccia su un mare a me sconosciuto, remote sponde a cui sono approdato. Pure il sole qui è diverso; anche se è inverno nell’emisfero australe, esso descrive comunque cerchi troppo stretti nel cielo, cosicchè le dieci del mattino mi sembrano le quattro del pomeriggio e quando fa buio alle sei sembra sia mezzanotte. Forse è ancora qualche rimasuglio di jet leg, oppure sono solo i miei occhi che si devono abituare al sole di così basse latitudini. Mentre cammino sulle sue strade pulite, piene di gente in abito da lavoro, sono comunque convinto che non vorrei vivere in una città del genere: troppo europea, troppo inglese per i miei gusti; L’Australia che ho in mente è diversa: i grattaceli sono di roccia e l’Opera House è scolpita in arenaria, invece di esser costruita con mattonelle bianche smaltate, che assomigliano a quelle di un bagno. Cerco la terra rossa in mezzo al mare di asfalto, ma mi convinco che è meglio pazientare; il mio viaggio è ancora lungo e questo continente è immenso. Mi rendo subito conto della diversità di paesaggi e di climi di questo paese, a conferma del fatto che i miei sogni di suoli rossastri e immense distese di arbusti, sono solo una fotografia nella mia mente, quella che potrebbe stare su un volantino del CTS per convincerti a volare dall’altra parte del globo. Le zone tropicali del nord offrono temperature più alte anche di inverno; calzoncini, infradito e petto nudo sono d’obbligo. La vegetazione è strana: le piante sono pluviali e le colline sono ricoperte da un color verde scuro che ti aspetteresti di trovare in Nuova Guinea, non da queste parti. I frutti sono esotici: mango, papaia,passion fruits qui sono la quotidianità, come le arance siciliane in Sicilia, mentre per me il loro sapore è nuovo nel suo genere. Mi sembra veramente di aver scoperto un nuovo mondo, di non conoscere nulla di queste terre; quando mi sveglio la mattina, aspettandomi di udire il solito fringuello cinguettare, la musica non è la stessa, una sinfonia suonata da diversi strumenti, da pappagalli coloratissimi e cacatua bianchi. È pieno di serpenti e coccodrilli; ad ogni billabong che incontro ,in ogni pozza in cui mi imbatto, oltre alla miriade di uccelli che la popolano, trovo sempre un cartello “beware of crocodiles”; mentre mi immergo in uno di questi specchi d’acqua, non curandomi dell’ammonimento “swim at your own risk”, un terrore mi assale: la paura atavica del predatore che diventa preda. Decido di non mettermi a nuotare, quasi come se i muscoli fossero bloccati e incapaci di ogni tipo di sforzo; non sono più in cima alla catena alimentare, io non domino queste terre. Questa è la paura più affascinante che abbia mai provato; grazie ad essa inizio a riscoprire la mia dimensione di uomo, che abita la terra insieme alla natura, non più protetto dai muri della città in cui abito e del lusso di cui mi contorno. Tuttavia cerco ancora la terra rossa che non trovo, i canguri che saltellano su zampe a mò di molle, il cielo blu che copre tutto fino all’orizzonte. Penso sia ora di scendere più a sud, nel cuore dell’Australia, verso la roccia sacra. Mentre il mio “van” scivola sull’asfalto dell’unica strada che conduce al centro, la vegetazione ai lati inizia piano piano a diradarsi. La presenza di nessuna casa e centri abitati permette di apprezzare il cambiamento di paesaggio chilometro dopo chilometro, un dipinto di verdi paesaggi che sembra dissolversi lentamente, per lasciare spazio all’indurirsi della roccia, all’arrossarsi del suolo, alla proliferazione di piccoli arbusti. Il cielo si apre al di sopra dei miei occhi, il suo blu intenso si dispiega sovrastando il paesaggio, come una grande vela, un vessillo di terre incontaminate. La grande roccia si staglia sullo sfondo; è imponente. Un gigantesco blocco di pietra rossa smussato e levigato da anni di usura; lei esiste dall’alba dei tempi, prima che ogni uomo nascesse. Forse adesso riesco un po’ di più a capire come gli abitanti di questo luogo riescano a vivere in armonia con la natura, a rendere sacri questi luoghi. Lo capisco guardando in alto durante la notte. Non esiste l’inquinamento luminoso e si può percepire tutta la bellezza del cosmo: la profondità dello spazio, la curvatura del cielo, la via lattea. Non percepisco più la solitudine che ogni tanto provo in mezzo alla gente, e le stupide paure che solo un essere borghese, un po’ accecato dagli usi della società moderna, può provare. È grazie alla bellissima solitudine che si ha stando da solo con cielo e terra, che un uomo può tornare a camminare tra la gente con qual cosina in più. Sono pronto, posso tornare a casa adesso.