Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Lo sfondamento della Cina in Asia centrale

Lo sfondamento della Cina in Asia centrale

di Alessio Stilo - 07/09/2010


Lo sfondamento della Cina in Asia centrale

Con la fine dell’Unione Sovietica è emerso nell’area centrasiatica un nuovo spazio geopolitico indipendente, la cui importanza strategica ed economica è risultata ab ovo accresciuta dalla presenza di abbondanti riserve energetiche e naturali. In una fase di mutamento globale tendente verso un ordine multipolare, l’Asia centrale funge da scacchiere cruciale sul quale si giocano le sorti del pianeta e questo in virtù sia delle ricchezze energetiche del sottosuolo dello Heartland sia grazie alla sua posizione geopolitica.

L’emersione dell’Asia centrale nello scenario internazionale ha condotto gli osservatori a parlare, oltre che di novello “Grande gioco”, anche di “Grande scacchiera” – conformemente alla definizione di Zbigniew Brzezinski –, o di allusione all’area in qualità di luogo nel quale possa avere genesi lo “scontro delle civiltà” (Samuel P. Huntington); vi è persino chi ha inquadrato l’Asia centrale alla stregua di un lebensraum cinese (Zhongguo Dingwei), vista la rilevanza strategica che le risorse locali rivestono per l’espansiva economia dagli occhi a mandorla.

Il Grande gioco per conquistare l’influenza su quest’area determinante – il cui controllo, nella visione mackinderiana, implicherebbe il dominio del blocco afro-eurasiatico (il “mondo antico”) e quindi del mondo – si è arricchito grazie al ritorno sulla scena della Russia e all’ascesa perentoria della Cina, senza contare gli interessi ascendenti di altre potenze regionali o mondiali come Turchia, India e Iran.

La longa manus di Pechino nella macroarea è frutto di una paziente tessitura delle relazioni con le repubbliche ex sovietiche atta, in primo luogo, a nutrire la fame energetica di un Paese dalla crescita economica poderosa. La potenza estremo orientale opera sfruttando le ingenti liquidità possedute, attraverso investimenti diretti per l’acquisto di giacimenti centro-asiatici, acquisizione di quote di società locali operanti nel settore degli idrocarburi, contratti di fornitura a lungo termine, costruzione di infrastrutture volte all’estrazione e al trasporto di gas, petrolio e carbone. La strategia di diversificazione adottata si rivela necessaria al fine di limitare la sua vulnerabilità energetica, riducendo l’impatto di eventuali crisi politiche che potrebbero coinvolgere uno o più Paesi fornitori.

Del resto i Paesi ai quali Pechino attinge risorse sono membri (ad eccezione del Turkmenistan) dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO). Lo stesso Turkmenistan, malgrado debba teoricamente assurgere a fonte-cardine di approvvigionamento per il progetto euro-atlantico del gasdotto Nabucco, nel 2009 si era giovato di 3 miliardi di dollari in prestito dalla Cina per avviare lo sfruttamento del giacimento gasifero Sud-Yolotan – uno dei più estesi al mondo – le cui riserve si aggirerebbero tra i 4mila e i 14mila miliardi di m³ di gas (1).

Garantendo un considerevole tasso di crescita alla sua economia dinnanzi al collasso dei mercati occidentali, la Cina è diventata una vera e propria calamita in grado di attrarre gran parte dell’Asia. Così appare ancor più allettante fare affari con i cinesi ed accettare i loro lauti investimenti, e ciò è particolarmente vero per i paesi produttori di idrocarburi che hanno dovuto fare i conti con il decremento della domanda da parte dei Paesi europei. Si è così aperto uno spiraglio nel quale la Cina si è inserita con prontezza.

Geopoliticamente parlando, nella zona si alternano una serie di alleanze e intese strategiche che sovente si sovrappongono, dal CSTO (Collective Security Treaty Organisation) al già menzionato SCO (Shanghai Cooperation Organization), sino all’odierna presidenza del Kazakistan all’interno dell’Osce (Organization for Security and Cooperation in Europe).

Secondo Dmitri Trenin, esperto del Carnegie Institute di Mosca, “la SCO per la Cina è sinonimo di Asia centrale: attraverso la SCO, Pechino può prendere parte alle discussioni e alla risoluzione dei problemi di sicurezza e di sviluppo in Asia centrale in modo legittimo rispetto ai paesi della regione, senza per questo rischiare l’antagonismo di Mosca”.

Peraltro nel giugno 2009 il presidente Hu Jintao, in una riunione della Shanghai Cooperation Organization a Ekaterinburg, in Russia, aveva promesso un fondo di 10 milioni di dollari quale futuro programma di assistenza per Kazakhstan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan. La Repubblica Popolare, avallando la sua posizione di partner strategico, sta anche cercando di edificare dodici nuove autostrade in maniera tale da rendere le economie dei suddetti Paesi dipendenti da una rete stradale moderna collegata al Xinjiang (2).

Da un punto di vista meramente strategico, alimentandosi dai limitrofi Paesi del cuore eurasiatico Pechino riuscirebbe a ridurre la propria dipendenza dagli approvvigionamenti via mare che dall’Africa e dal Golfo devono attraversare tutto l’Oceano Indiano e passare dalla delicata strettoia di Singapore: quest’ultima, in caso di crisi con una potenza talassica, sarebbe agevolmente strozzata con conseguenze esiziali per la Cina.

Nondimeno, il passatoio cinese d’accesso alle repubbliche centrasiatiche presenta altrettante vulnerabilità giacché l’area in questione (la regione dello Xinjiang) è nota per la sua latente instabilità. Lo Xinjiang diviene un’area cuscinetto attraverso i cui confini Pechino impianta stabilmente un cospicuo numero di lavoratori migranti nei Paesi attigui, seguendo il modello già sperimentato in Africa che punta all’inserimento nel tessuto sociale ed economico servendosi anche degli investimenti diretti.

Lo Xinjiang costituisce dunque per la Cina un’area ulteriormente strategica per l’attuazione della propria politica estera e di soft power nell’Asia centrale, ma anche un fertile bacino per l’approvvigionamento di intelligence e di esperti sulla mutevole situazione degli equilibri regionali nell’area (3).

Forte di un processo economico espansivo da sostenere, la Repubblica Popolare guarda da sempre con apprensione tutti i Paesi confinanti che dimostrino una recondita instabilità interna nonché la propensione verso conflitti etnici, i quali fornirebbero l’ispirazione per la minoranza turcofona degli uighuri presenti in maggioranza nello Xinjiang.

Kirghizistan

Attenendosi alle diffidenze cinesi nutrite nei confronti dei “vicini instabili”, il Kirghizistan reduce dalla fine della “rivoluzione dei tulipani” rientra indubbiamente nel novero degli Stati destanti una certa preoccupazione.  A tal proposito vale la pena rimarcare come, a seguito degli scontri interetnici tra kirghisi e uzbeki nella città di Osh, la Cina – e l’Uzbekistan – abbia sigillato le proprie frontiere onde evitare l’afflusso di almeno 200mila rifugiati uzbeki entro i propri confini.

Allo stato attuale, probabilmente, è la Cina la potenza più interessata al futuro politico del Kirghizistan, considerato che la linea di demarcazione di 850 km tra i due Paesi corre lungo la sensibile provincia dello Xinjiang, senza contare i circa 30mila cittadini cinesi presenti sul suolo kirghiso e i quasi 100mila kirhisi stanziati nello Xinjiang.

Sebbene consideri il Kirghizistan come fonte di materie prime e di energia a basso costo, è ragionevole credere che Pechino non intenda accennare ad entrare a pieno titolo in un’area da sempre entro la sfera d’influenza politica del vicino russo. Biškek, pur avendo già entro i propri confini una minoranza cinese han, deve altresì considerare la presenza di una consistente enclave russa, stabilitasi nel 1936, a seguito della politica sovietica di insediamento di russi nelle aree periferiche della confederazione. Nel contempo, il Dipartimento di Stato americano osserva con relativa preoccupazione il crescente ruolo geopolitico della Cina in relazione ai problemi di sovranità del Mar Cinese meridionale piuttosto che alle mire espansioniste di Pechino verso l’Asia centrale.

Turkmenistan, Kazakhstan e Uzbekistan

Il Turkmenistan possiede rilevanti riserve di gas naturale tali da proiettarlo al quarto posto tra i detentori mondiali (4), ragion per cui Pechino ha incrementato gli scambi con Aşgabat di 40 volte negli ultimi 10 anni. A tal riguardo, l’opera su tutti meritevole di menzione è il colossale metanodotto lungo 2580 km solo in Asia centrale con una capacità iniziale di 30 Mcm/anno teso a connettere i campi gasiferi dell’Amu Darya (Turkmenistan) con la Cina occidentale. Il gasdotto, i cui lavori sono finanziati pressoché integralmente da Pechino, ha preso avvio nel 2007 e dovrebbe entrare in funzione nel 2011.

Attualmente sono 35 le imprese con capitale cinese a lavorare sul suolo turkmeno, volgendo lo sguardo soprattutto nei settori dell’oro nero e del gas, non disdegnando tuttavia altri settori dell’economia locale quali telecomunicazioni, trasporti, agricoltura, industrie tessile, chimica e alimentare, salute e costruzioni (5).

In Kazakhstan, le esternazioni del presidente Nazarbayev lasciano trasparire la volontà di ammettere investitori stranieri che collaborino con il suo programma di industrializzazione, e non meramente interessati a sfruttare le ricchezze minerarie di Astana. Lo stesso metanodotto di 1833 km – che collega i giacimenti di gas turkmeni, uzbeki e kazaki alla regione cinese del Xinjiang – potrebbe essere integrato dal gas uzbeko nella città Gazli (regione di Bukhara), dove passa la conduttura principale che trasporta le preziose riserve dal Turkmenistan alla Cina.

Un oleodotto di mille km collega dal 2006 la città di Ataru in Kazakistan alla provincia cinese dello Xinjiang. In futuro si estenderà per tremila km attraverso la Cina. Vieppiù Pechino starebbe progettando la costruzione in Iran di un oleodotto di 400 km che si dovrebbe collegare a quello Kazakistan-Cina (6). I rapporti sino-kazaki si peculiarizzano per la crescente affidabilità che ciascun attore attribuisce al partner, a partire dal 1997, quando i due Paesi decisero di costruire un oleodotto di 3mila km.

Nel 2005, la CNPC ha pagato circa 4 miliardi di dollari per una quota del 33% della PetroKazakhstan. L’anno seguente, la Cina ha acquistato le attività del petrolio kazako, per un valore di circa 2 miliardi di dollari, nei giacimenti di petrolio e di gas di Karazhanbas (che ha riserve accertate di oltre 340 milioni di barili), ha deciso di acquistare 30 Mmc di gas in Turkmenistan (poi aumentato a 40Mmc), e ha impegnato 210 milioni di dollari per l’esplorazione di petrolio e gas in Uzbekistan, nel corso dei prossimi cinque anni.
Nel 2008, il Kazakistan e la Cina hanno stabilito lo sviluppo congiunto delle riserve di petrolio e gas nella cornice continentale del Mar Caspio, mentre la società cinese Guangdong Nuclear Power Co e l’impresa nucleare dello stato kazako, Kazatomprom, hanno deciso di accrescere sensibilmente la produzione di uranio nelle loro
joint venture.
Nell’aprile 2009, Pechino ha stipulato l’accordo per l’energia più grande di tutti i tempi, sobbarcandosi il pagamento di 10 miliardi di dollari al Kazakistan in un inedito “petrolio contro prestito”, e ha anche firmato un accordo con la compagnia statale KazMunaiGas per acquistare congiuntamente la compagnia petrolifera MangistauMunaiGas, per 3,3 miliardi di dollari (7).

Dal modus operandi di Pechino ben si comprende, pertanto, come siano limitate le possibilità di cooperazione Cina-Usa sulle risorse energetiche dell’Asia centrale, essendovi un sostanziale conflitto di interessi in termini geopolitici, e differendo ancorché riguardo alle metodologie di proiezione strategica nell’Heartland: soft power cinese di tipo economico/energetico contro ingerenza – non di rado manu militari – statunitense.

Conclusioni

L’importanza attuale dell’Asia centrale non è solo economica, ovverosia fondata sulle ricchezze naturali della regione, oggi valorizzate con colossali investimenti cinesi, ma anche europei. La regione è rilevante financo come via di transito, grazie al ripristino della vecchia “Via della seta” mediante corridoi multimodali che, attraverso il Mar Nero e il Caucaso, collegheranno l’Europa con la costa del Pacifico e aggirando a sud la Federazione Russa e la Transiberiana (8).

Nel “cuore della terra” si svolge pertanto un nuovo Grande gioco di influenza fra Cina, Russia, Stati Uniti e Unione Europea, benché quest’ultima vi sia entrata solo recentemente con l’accordo del gas turkmeno per il Nabucco, e malgrado negli anni passati fosse attiva la sola Germania, sia in campo economico che in quello delle forniture militari. Mentre attori meno appariscenti, ma non trascurabili, sono anche l’India, interessata ad accedere alle risorse energetiche e condizionare il Pakistan da nord, l’Iran, che mira a penetrare in un’area su cui l’Impero persiano esercitò un’importante presenza e nella quale vivono i tagiki di etnia persiana e gli azeri – che sono il 24% della popolazione iraniana e di cui Tehran teme il nazionalismo – e infine la Turchia, la quale può vantare le rivendicazioni panturaniche delle popolazioni della regione.

La diversificazione delle esportazioni, come opzione strategica delle ex repubbliche sovietiche, si è resa necessaria per i Paesi dell’Asia centrale, a seguito della crisi finanziaria, mentre la domanda europea di gas naturale nella regione è diminuita. In altre parole la cooperazione tra la Cina e l’Asia centrale riposa sulla base di una convergenza di interessi reciproci: l’enorme potere d’acquisto cinese in valuta estera, nonché la sua posizione geografica, sono alquanto vantaggiosi per i Paesi centrasiatici esportatori di materie prime. A detta degli analisti dagli occhi a mandorla, la cooperazione cinese in materia di energia incoraggerà per di più lo sviluppo delle industrie della regione non strettamente connesse con le riserve, come la chimica, l’agricoltura e le infrastrutture.

In ultima analisi, la partnership economica regionale consente a Pechino di rendere l’Asia centrale un mercato di sbocco per l’economia delle sue province interne, puntellare la strategia di diversificazione delle fonti energetiche e garantire la sicurezza dei confini, avvalendosi del proprio soft power per ottenere la progressiva estromissione dell’influenza statunitense nella zona. Rebus sic stantibus, tanto per avvalersi di una arguta intuizione dell’ex ambasciatore indiano Bhadrakumar, “la Cina ha modificato le condizioni di ingaggio occidentale in Asia centrale”.


1) Fonte: MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

2) Cfr. F. William Engdahl, La Chine et l’avenir géopolitique du Kirghizistan; in “Réseau Voltaire” del 16/06/2010

3) Cfr. Alessandro Arduino, Il trampolino di lancio del Xinjiang; in “Affari Internazionali” del 23/08/2010

4) Fonte: www.cia.gov

5) Cfr. MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

6) Silvia Tosi, Le risorse energetiche e le economie centroasiatiche, Milano, ISPI Working Paper No. 21, settembre 2007

7) Cfr. MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

8 ) Cfr. C. Jean, Il nuovo Grande gioco in Asia centrale; in “Limes online” del 07/07/2009

*Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)