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Due o tre cose che so di Renato Vallanzasca

di Achille Saletti - 08/09/2010

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Pare che il film di Michele Placido sulla vita del bandito Vallanzasca sia stato accolto in sala e in conferenza stampa in maniera gelida. Non so se sia vero e se lo fosse mi domando perché. Mi è, al contrario, abbastanza chiaro del perché le associazioni delle vittime di reato contestino un film su un personaggio che ha disseminato morti anche se non condivido in toto le loro argomentazioni. A maggior ragione dopo avere conosciuto Renato Vallanzasca, averci lavorato, averci parlato, avere colto in lui una reale voglia di rivisitare la propria esistenza più che in termini di pentimento, in termini di palese ammissione di errori, di fatto, non più sanabili.

Lo spessore criminale di Vallanzasca è indubbio: gravità e numero di reati commessi, assenza ( per sua stessa ammissione ) di elementi sociali o culturali che collocassero tali scelte in un contesto a lui più favorevole, condotte processuali irresponsabili e spesso odiose. Questo il Vallanzasca di 35 anni or sono. Ma sono passati 35 anni e le persone, a maggior ragione quando una detenzione è stata del tenore della detenzione di Vallanzasca (per lunghezza sacrosanta e violenze subite non altrettanto sacrosante ), cambiano. E forse questi cambiamenti meritano un racconto che sia di ausilio non tanto ad una facile pedagogia liberalizzante per noi ma, al contrario, per una più diffusa capacità di comprensione del bene e, soprattutto, del male.

Vallanzasca, in questo, pare essere esempio da manuale: è persona che non conosce il calcolo utilitaristico tipico di tantissime storie criminali e di tantissimi pentimenti. Nell’Italia di oggi se lo fosse stato avrebbe raggiunto lo status di uomo libero molto prima. E’ persona, in ciò aiutato sicuramente da un ego sovra-abbondante, in cui la dicotomia bene-male presenta una complessità di sfumature che hanno fatto sì che su di lui e non su altri criminali si decidesse di fare un film.

Ed allora se il film potesse aiutarci a comprendere meglio, chiaramente mi auguro non in termini agiografici, la complessità di un uomo del terrore si potrebbe rispondere più compiutamente alle critiche delle associazioni che non vorrebbero tali pellicole, e condividere alcuni suggerimenti che le stesse associazioni porgono in termini di contributo alla discussione. In tal senso ciò che afferma Emanuela Piantadosi nella sua veste di Presidente delle “ Vittime del dovere “ mi sembra del tutto condivisibile e auspicabile: chiede, in buona sostanza, di fare una legge affinchè i diritti per una opera letteraria o cinematografica siano destinati alle vittime o ad un fondo per le vittime e non al detenuto che sulla propria storia finirebbe per guadagnarci.

Dissento al contrario da chi non vorrebbe che queste vite venissero rappresentate e raccontate. A maggior ragione quando, come nel caso di Renato Vallanzasca, la pena scontata come raramente capita in Italia, debba, anche se in parte, rispondere alla legittima richiesta di una vittima di reato che chiede certezza in merito al fatto che la commissione di un fatto penalmente rilevante sia punita severamente.