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Atlantici o mediterranei?

di Caterina Resta - 08/09/2010

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Venti di guerra
Quali mari stanno solcando le nostre veloci imbarcazioni? Quali venti di guerra ne gonfiano le vele spiegate? In quale mare stiamo naufragando? Ancora una volta le acque del Mediterraneo si tingono di rosso, un colore antico, come la porpora dei Fenici. Mediterraneo: mare che da sempre s’infiamma, ma anche capace, da sempre, di spegnere i suoi incendi, di trasformare lo scontro in incontro, il fronte in confronto, il polemos in dialogos, di scorgere, al culmine del contrasto più teso, l’invisibile e più potente armonia che, al fondo di ogni contesa, trattiene i contendenti (1). Saprà ancora una volta trovare la misura che gli è propria, trovare quell’equilibrio che gli è proprio, tra terra e mare, iscritto nel suo nome? Ma i venti di guerra mediterranei soffiano anche più lontano, attraversano e scavalcano i Balcani, fino a giungere in terre remote e quasi dimenticate dalla storia, come l’Afganistan. Impossibile non riconoscere come una guerra sia figlia dell’altra, come l’una sia, dopo lo schianto delle Torri gemelle, la conflagrazione dell’altra, forse, addirittura, la verità dell’altra. Da mediterranei, ci eravamo forse illusi di poter trattare il conflitto arabo-israeliano come una guerra “moderna”, una guerra di terra, nata per questioni di confine, di frontiere, di terre da conquistare. Anche se le frequenti azioni terrostiche suggerivano la difficoltà crescente di una messa in forma di questa guerra, tuttavia essa ci appariva limitata, arginabile, governabile, e la pace sembrava ormai vicina. Ma il radicalizzarsi dello scontro ha mostrato quanto fragile fosse l’illusione di riuscire a “mettere in forma” una guerra nell’epoca della mondializzazione. Dopo lo scatenarsi di questa terza guerra mondiale, non ci è concessa più alcuna illusione circa la possibilità di arginare i conflitti, di localizzare la guerra, di chiare delimitazioni spaziali. L’altra guerra, quella che stiamo combattendo in Afganistan, non fa che mostrare ed esplicitare sino in fondo quello che il conflitto mediterraneo già cominciava a tradire: la radicalizzazione di una guerra post-moderna che ha ormai definitivamente sepolto non solo ogni idea di jus publicum Europaeum, ma, con questo, anche l’illusione di una possibile delimitazione dei conflitti. Carl Schmitt aveva con straordinaria lucidità e lungimiranza previsto tutto questo, ripercorrendo con acutezza di sguardo le stazioni di quella via crucis che sposta gradualmente il baricentro della storia del mondo dall’Europa e dal ‘suo’ mare, il Mediterraneo, all’America e a quella sterminata distesa oceanica che non solo la circonda, ma che ne costituisce l’intima essenza (2). Se già Hegel ricordava che «in Europa […] quel che conta è proprio il rapporto col mare» (3); se, inseguendo un motivo ricorrente (4), essa è potuta sembrare un piccolo promontorio, un capo, una penisoletta del grande continente asiatico, ed il Mediterraneo un mare interno, tutto circondato di terre, l’America, d’altra parte, è, rispetto alla vecchia Europa, il Nuovo mondo e ancora Hegel la salutava come «il paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi futuri, forse nella lotta fra il Nord e il Sud, si rivolgerà l’interesse della storia universale» (5). Grande Isola, rispetto a quella piccola isola Inghilterra che l’ha partorita, essa non conosce la misura di un mare mesógeos, né quella del póntos, di un mare come strada e ponte da attraversare per congingere terre. Ciò che la circonda è Oceano, infinita distesa d’acque a perdita d’occhio, spazio s-confinato dell’illimite e della dismisura. Dell’irresistibile richiamo dell’oceano essa è stata infatti risposta.
Su quali rotte abbiamo preso il largo? A quali crociere o crociate stiamo prendendo parte? Venti di guerra e un cielo di burrasca rendono cupa l’azzurra profondità di quel Mare Nostrum entro la cui trasparenza cristallina si sono specchiati da costa a costa, da sponda a sponda, popoli, lingue, civiltà diverse, misurandosi, certo, anche attraverso il conflitto, ma, più spesso, confrontandosi nel dialogo e nella conoscenza dell’altro, sedimentando, col tempo, anche parole comuni, come quella di “ospitalità”, che attraversa tutto lo spazio del Mediterraneo, dalla filoxenia greca, al Dio ebraico e cristiano che ama lo straniero, al rispetto dovuto all’ospite nella latinità. È ancora, nonostante tutto, su questo mare che l’Europa si affaccia, un mare in continuo dialogo con la terra che lo confina, lo costeggia, lo tiene a freno, lo contiene, insinuandosi in esso con i suoi promontori, frastagliandolo con le sue insenature e i suoi golfi, disseminandolo di isole e penisole – «un mare circondato da terre, una terra bagnata dal mare» (6) lo ha definito Matvejevic – o non ci siamo piuttosto imbarcati, senza neppure saperlo, per un viaggio ben più arrischiato, oltre ogni limite e misura, verso l’infinito, illimitato spazio omogeneo e vuoto della distesa oceanica, là dove nessuna terra è all’orizzonte, né davanti, né dietro di noi? A quale mare pensa di appartenere l’Europa, a quel Mediterraneo che, non senza una certa inflazionata retorica, continuiamo a chiamare culla dell’intera civiltà occidentale, o a quell’Oceano che trascinò Colombo oltre ogni limite sino ad allora conosciuto, alla scoperta di un Nuovo Mondo (7)? Quella “scoperta” rivelò una volta per sempre le due anime che lacerano l’Europa, il suo perenne essere in krísis tra esse, la necessità, ormai improrogabile, di una de-cisione tra due sponde, tra due mondi, tra due mari. Siamo Atlantici? Siamo Mediterranei?

Sulle rotte di Ulisse
Nessuno meglio di Ulisse, questo viaggiatore infaticabile, incarna, nella sua doppia versione omerica e dantesca, tale dilemma al cuore dell’Europa.
Odisseo è un uomo del Mediterraneo non solo perché ha i tratti del polýmetis, di un ingegno così multiforme da rasentare il raggiro, tanto che Virgilio potrà definirlo scelerum inventor. Mediterraneo è anche il suo viaggio, nel quale nóstos ed éxodos continuamente si contraddicono, come la terra alla quale si deve infine tornare ed il mare che continuamente seduce e strappa via. Non semplice figura del ritorno-a-casa, come vorrebbe Lévinas, contrapposta a quella di Abramo, uomo della partenza senza ritorno e di una terra che è solo promessa (8), ma homo viator, figura di un’erranza, di una continua dilazione, seppure sempre sulla via del ritorno. L’Odissea non è solo il poema della nostalgia della Heimat e della sua pace domestica, né, d’altro canto, Odisseo assomiglia al capitano Achab di Moby Dick. Lo spazio della sua azione non è la vastità smisurata dell’Oceano, ma lo spazio misurato, seppure irto di insidie, di un mare interno. La prua della sua nave è certo diretta sempre verso casa, ma la sua chiglia scivola leggera sul pelo dell’acqua, incapace di approdi definitivi. Nessuna fretta, nessuna particolare ansietà incalza Odisseo in questo lento viaggio di ritorno di spiaggia in spiaggia ed ogni porto non è porta d’entrata soltanto, ma anche porta d’uscita, tappa, sosta, per nuove partenze. E le soste possono essere più o meno lunghe, l’intrattenersi più o meno dolce, più o meno dimentico di quel richiamo alla terra e agli affetti domestici che lo costringono a tornare, perché altrettanto seducente, come il canto delle sirene, è il richiamo che viene dal mare, la voglia di partire, anche solo di andare. Il viaggiare di Odisseo sarebbe incomprensibile senza questo andare spesso alla deriva, questo smarrire la strada, questo oblio della meta ultima, senza le continue digressioni che costringono a rimandare la fine del viaggio. Tra terra e mare il viaggio di Ulisse è davvero mediterraneo, una grandiosa epopea delle sue coste frastagliate e dei suoi promontori, delle sue insenature e dei suoi stretti, della straordinaria fioritura di isole, da Ogigia, l’isola di Calipso, a Scheria, la terra dei Feaci, alla Sicilia o alla stessa Itaca, per citare le più note.
Ben diverso appare invece il viaggio dell’Ulisse dantesco, rievocato nel XXVI canto dell’Inferno (9). L’invenzione poetica di Dante che, nell’ignoranza dell’Odissea omerica, tuttavia si nutre di fonti latine (10), ci mostra un volto ben diverso di Ulisse, quello che potremmo definire ‘atlantico’, non mediterraneo. Rifacendosi a Cicerone e Seneca, ora Ulisse appare sapientiae cupido e animato da innatus cognitionis amor. Non è più l’eroe del ritorno in patria, seppure dilazionato da innumerevoli soste, ma è l’eroe della conoscenza, colui che incalza i suoi compagni a non vegetare, ma a «seguir virtude e canoscenza». E per conoscere non si può restare, ma bisogna andare, bisogna salpare, levare le ancore, spingersi oltre i limiti ritenuti ancora invalicabili, volgere «la poppa nel mattino», partire alle prime luci del giorno, secondo alcuni interpreti, per questo viaggio “al termine della notte”, oppure, secondo altri, invertire la consueta direzione del viaggio e puntare la prua a Occidente, “di retro al sol», inseguendo il sole nel suo cammino declinante, procedere verso il tramonto, fino al naufragio e al «folle volo».
L’Ulisse dantesco non conosce viaggi di ritorno, rimane sordo al richiamo dell’oíkos, dove gli affetti familiari invano lo attendono e potrebbero trattenerlo; solo l’ardore della conoscenza, di esperire il mondo («l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto») lo spinge sempre oltre «per l’alto mare aperto». Invecchiato, insieme ai pochi compagni rimasti, tra le sponde del Mediterraneo, avverte ormai troppo angusti e limitanti i suoi confini, troppo ristrette le sue vedute. Oltre le colonne d’Ercole, oltre il perentorio Termine che esse rappresentano per il mondo antico, si apre lo s-terminato spazio oceanico, l’infinito mare di una conoscenza senza più vincoli. Oltre quell’estremo limite, lo divora un’ansia tutta moderna di provare, di tentare, di saggiare, di sperimentare, infine, l’ignoto. Egli è tra i primi moderni a non saper resistere al canto di sirena dell’Oceano, a subire la distruttiva seduzione dell’Illimite. «Nova terra» solo intravista rimarrà la montagna del Paradiso terrestre, isola utopica galleggiante su di uno spazio ormai assolutamente de-localizzato, che emerge e appare solo per un momento, dopo un viaggio ‘notturno’ nel cuore delle tenebre, nell’istante che precede il naufragio, prima che nel mare si inabissi la squassata imbarcazione con il suo carico umano. Ulisse atlantico, quello di Dante, incapace ormai di sentire la misura mediterranea che continuamente frena il mare con la terra, uomo che ha smarrito ogni senso della dimora, per il quale l’erranza è divenuta l’unica, la sola forma di vita, senza più neppure il ricordo di una casa ove tornare, senza più neppure il piacere della sosta. Precursore di pirati e balenieri, precursore di quel grande navigatore oceanico che fu Colombo, questo Ulisse, fratello del capitano Achab, è tragica figura della volontà di potenza di una conoscenza senza più limiti o freno.

Nietzsche pensatore oceanico
E proprio a Colombo, nell’estate del 1882, dopo un inverno trascorso a Genova, Nietzsche dedicherà una poesia dal significativo titolo Columbus novus: «Là voglio essere io: e confido / In me, d’or innanzi, e nel mio timone. / Aperto è il mare: nel suo cupo azzurro / si spinge la mia prora genovese. / Tutto sempre più nuovo mi diventa, / Alle mie spalle è Genova. / Coraggio! Se la mia nave guidi, / Carissima Victoria!» (11). Benché, come molti tedeschi, sentisse il fascino del Sud, del sole e del mare Mediterraneo, sulle cui rive amava svernare, non c’è dubbio che Nietzsche sia il filosofo che più di ogni altro abbia compreso la sfida del mare aperto e sentito il richiamo dell’Oceano. Con lui, i filosofi diventano «aerei naviganti dello spirito» (12), «arditi uccelli che spiccano il volo nella lontananza, nell’estrema lontananza» (13), spingendosi sempre più oltre nel mare della conoscenza, «in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare, mare!» (14). Nel loro andare «al di là del mare», essi sono animati da una «possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio» (15), l’inesausta sete di un sapere finalmente libero, senza più vincoli. Un medesimo ardore sospinge l’Ulisse dantesco e questi aerei naviganti, che confidano solo in se stessi e nel proprio timone, una medesima brama di sapere ne stabilisce la rotta, una stessa audacia li accomuna. Anche loro, come quell’Ulisse e come Colombo, si dirigono «laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità […] volgendo la prua a occidente» (16), anche loro inseguono il sole che declina, sono disposti al tramonto, purché sorga l’aurora di un nuovo mattino, consapevoli di correre il rischio di «naufragare nell’infinito» (17). E mai così “dolce” apparve naufragare in questo mare!
Ma chi sono questi temerari avventurieri del pensiero, per i quali irresistibile è il richiamo dell’oceano? Sono i nuovi filosofi, coloro che si sono liberati di Dio, accogliendo la sua morte senza rimpianti, ma anzi con la baldanza di chi ha il presagio di una nuova aurora. Scrive Nietzsche nell’aforisma 343, che apre il quinto libro della Gaia scienza, intitolato significativamente Noi senza paura:
«finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”» (18).
Non mare interno, mesógeos, questo mare nostrum è ormai un mare sconfinato, libero, aperto; nessuna sponda può più contenerlo, nessuna terra delimitarne i bordi. L’ampia distesa equorea che si spalanca davanti a questi intrepidi naviganti non dispiega il suo spazio tra terre conosciute, non lambisce alcuna costa, né alcun porto può offrire sosta e riparo. La nave che veloce solca questa liscia superficie si lascia risolutamente alle spalle ogni ormeggio come ogni molo; nessun’áncora potrebbe ormai ancorarla né giungere a toccare il fondo: «mai sino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari» (19) e perciò bisogna andare sempre avanti, spingersi sempre oltre, tenere «la mano salda sul timone» (20), poiché non ci sono più stelle fisse a orientarci nel cammino, ma solo la fissità di uno sguardo che conosce una sola direzione, quella del continuo superamento. Ulisseide progenie, quella dei nuovi filosofi, dei filosofi dell’avvenire, essa condivide con l’eroe greco una certa capacità dissimulativa, sebbene messa ormai del tutto al servizio di quell’ardente desiderio di conoscenza, di quella curiositas che è propria piuttosto dell’Ulisse dantesco: «il nostro coraggio di avventurieri, la nostra curiosità accorta e raffinata, la nostra più sottile, più dissimulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che vaga e aleggia cupida intorno a tutti i regni dell’avvenire» (21).
Un innatus cognitionis amor che lo rende sapientiae cupido apparenta il nuovo filosofo nietzscheano all’Ulisse di Cicerone, tra le probabili fonti di Dante. Ma questa bramosia di conoscenza è divenuta ormai volontà di sapere, Wille zur Macht come conoscenza (22) che nessun ostacolo può ormai fermare nella sua corsa sfrenata. Nessun «folle volo» la intimorisce, poiché davvero ha completamente obliato ogni senso del limite. Novus Columbus, il filosofo dell’avvenire non avverte più neppure il Termine imposto al suo viaggio e ormai completamente distrutte nel loro valore simbolico appaiono le Colonne d’Ercole, fedeli guardiane di una misura mediterranea ormai obsoleta. «Via sulle navi, filosofi!» (23): è questo il perentorio invito a prendere il largo che Nietzsche lancia ai pensatori dell’avvenire, incitandoli a scoprire più di un nuovo mondo nell’«oceano del divenire» (24); li sollecita a trasformarsi in «avventurieri e uccelli migratori» (25), dallo sguardo vigile e accorto, pronto a carpire «con la maggior fretta e curiosità possibili» tutto ciò che cade sotto lo sguardo. Insieme a loro brama di avventurarsi «lontano sull’oceano, non meno superbi di lui stesso» (26). Uomini oceanici, atlantici, questi temerari eroi della conoscenza sono quegli «aerei naviganti dello spirito» che dalla Vecchia Europa sciamano, come uccelli migratori, spiccando il volo alla volta di nuovi più ospitali lidi, pur sapendo che nessun terreno potrà essere d’ora innanzi sicura dimora, ma solo esiguo punto d’appoggio per volare ancora più lontano. Forse nessun passo nietzscheano riesce a cogliere con maggiore efficacia il senso di questa pericolosa traversata come il celebre aforisma 124 della Gaia scienza, dal titolo Nell’orizzonte dell’infinito:
«Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nella pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!» (27).
Lungi dall’essere nóstos, il viaggio cui pensa Nietzsche è davvero éxodos, un salpare senza ritorno. Non più póntos, questo mare costringe a tagliare tutti i ponti, a cancellare anche la terra che ci si lascia definitivamente alle spalle. Ora la nave diviene unica e sola precaria dimora per chi sente d’essersi imbarcato, lasciandosi indietro solo un’incerta scia disegnata sull’acqua. Ovunque è oceano, smisurata distesa d’acque senza più terre all’orizzonte e lo sguardo è sempre confitto in avanti, nell’incessante avanzamento della prua che si fa strada su rotte sconosciute. Infinito è l’oceano, illimite e senza riconoscibili confini, spazio sterminato e privo di misura, ma, proprio per questo, proprio perché omogeneo e vuoto, straordinariamente disposto ad accogliere le misure che l’uomo vorrà imporgli. Un horror vacui, uno sgomento di fronte al Niente potrebbe allora sorprendere questi audaci naviganti, poiché non c’è nulla di più spaventoso che sentirsi scivolare in questa liscia distesa priva di nómos. Qui, nell’Aperto spalancato dal mare, potrebbe assalire i naviganti il dolore del ritorno, una struggente nostalgia per la terra cui hanno voltato le spalle, dalla quale, con una suprema de-cisione, hanno preso congedo. Ma sarebbe vano cedere a questa estrema, regressiva tentazione, come se la terra potesse ancora garantire con i suoi nomoi maggiore libertà di quanta non possa invece offrirne, adesso, lo spazio infinitamente libero del mare. Non è possibile tornare indietro a quella terra, sommersa dall’onda oceanica che investe ormai ogni dove. Essa, come l’oceano, è ormai soggetta ad una Ent-ortung, ad una delocalizzazione e ad una deterritorializzazione che, nel segno del nichilismo, non consente più radicamento e dimora. Come tornare a quella terra, come tornare a quel mare mediterraneo che la lambiva, se tutto ormai appare uniformarsi alla tabula rasa di una infinita distesa oceanica?

Tornare al mediterraneo
Nietzsche, da pensatore postumo e inattuale quale amava definirsi, era consapevole di parlare non per i suoi contemporanei, ma per i posteri, per coloro che avrebbero vissuto almeno due secoli dopo di lui. Per noi, dunque, da poco entrati nel XXI secolo. Nessuno con maggiore chiarezza ha saputo descrivere il nostro presente, l’ineludibile decisione che ci attende. Siamo ancora, possiamo essere ancora mediterranei, o questo mare su cui soffiano venti di guerra che lo spazzano via ha perso ormai definitivamente la sua centralità storica? Oppure stiamo forse ormai per diventare, se non lo siamo già, Atlantici, impavidi navigatori oceanici, in un mondo che, a partire dalla scoperta dell’America e dalle prime circumnavigazioni del globo, ci ha introdotti in quella che, schmittianamente, possiamo chiamare la globale Zeit? Da dove arriva, infatti, il processo di mondializzazione, se non da quel richiamo potente, quanto provocante, proveniente dal primo spalancarsi dell’Oceano nell’era delle grandi scoperte geografiche? Fu il tempo non solo di Colombo, ma anche di pirati e balenieri, liberi tutti, come grandi cetacei, di intraprendere rotte mai prima tentate nell’aperto di un mare senza più confini, refrattario ad ogni nomos. Fu a causa di questo stesso richiamo che l’Isola Inghilterra, abitata da rustici allevatori di pecore, come ci racconta Schmitt, si de-cise per il mare: «allora l’isola distolse il suo sguardo dal continente e lo alzò sui grandi mari del mondo. Si disancorò e si trasformò nel veicolo di un oceanico impero mondiale» (28). Come una nave che salpi, il disancoraggio [Entankerung] portò l’Isola a navigare lungo le rotte oceaniche, fino a fondare, su questa malferma distesa, il suo mobile impero. Ma solo l’America, il Nuovo Mondo, seppe davvero incarnare quello spirito oceanico che l’Inghilterra aveva inaugurato. Il grande continente fece in grande quello che la piccola isola aveva solo cominciato. Fin dal suo nascere, divenne straordinario laboratorio della pratica dell’Illimite, fin dall’inizio incapace di tracciare confini, di segnare frontiere, altrimenti che come una mobile linea di avanzamento, sempre sul punto d’essere spostata più avanti.
Ora questo oceano è divenuto universo, si è fatto mondo, nel segno di un universalismo piatto e uniforme come la liscia distesa di un mare che non conosce terra, che ha cancellato confini, ma, con questi, anche ogni possibilità di confronto e di dialogo rispettoso delle differenze. Questo mondo ormai unificato e uniformato dell’era globale, questo impero mondiale oceanico, lungi dal garantire una pace perpetua, come un’onda d’urto, produce guerre e conflitti sempre più ingovernabili, poiché altrettanto informi e smisurati si fanno i tentativi di riterritorializzazione, come la difesa ad oltranza di identità e appartenenza, finisce con l’assumere modalità sempre più regressive e arcaiche.
Il Mediterraneo è però memoria di un’altra storia: esperienza, unica al mondo, dell’incontro tra mare e terra, spazio di condivisione che separa e divide, ma anche collega e unisce, favorendo gli scambi tra identità che, nell’incessante confronto, vogliono restare differenti. Nella sua pluralità di confini e frontiere, è stato spazio di scontro, ma anche di straordinario incontro, di inesauribile confronto con l’altro, impedendo, moderando ogni drastica reductio ad unum. Da questo mare di differenze è nata l’Europa, pluriverso irriducibile di popoli e lingue, costretti a dialogare tra loro, costretti alla fatica incessante della traduzione e della distanza. Saprà questo antico mare circondato di terre essere ora modello per una configurazione non universa, ma pluriversa del mondo? Sapremo diventare tutti, non solo noi europei, ancora una volta mediterranei e ritrovare, infine, un nuovo nomos, una nuova misura, tra cielo, terra e mare?

Note:     
1. Come ci ricorda Eraclito, D-K 22B 54: «harmoníe afanès fanerès kreísson».
2. Tutta la riflessione dello Schmitt internazionalista, a torto a lungo trascurata, si rivela invece, a mio avviso, indispensabile strumento di analisi per comprendere l’intrico di questioni dell’era globale giunta, dopo la caduta del muro di Berlino, al suo massimo dispiegamento. Cfr. soprattutto C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», tr. it. di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 e in particolare per il discorso che qui stiamo svolgendo Id., Terra e mare, tr. it. di A. Bolaffi, Giuffré, Milano 1986. Per una più approfondita trattazione dei temi relativi alla fine dell’ordinamento globale eurocentrico e della forma stato su cui si fondava e all’annunciarsi dello spettro di uno Stato mondiale, mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999.
3. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova italia, Firenze 1994, I, p. 271.
4. Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1993, p. 59, af. 52: «si andrà meditando tristemente sull’antica Asia e sull’Europa, la sua penisoletta avanzata, che vorrebbe rappresentare a tutti i costi, rispetto all’Asia, il “progresso degli uomini”». La stessa immagine ritorna in uno scritto di P. Valéry, Crise de l’esprit, del 1919: «L’Europa diventerà forse quello che è in realtà, e cioè un piccolo capo del continente asiatico? Oppure l’Europa rimarrà quello che appare, e cioè la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo?», e ancora: «Ma che cos’è dunque quest’Europa? È una specie di capo del vecchio continente, un’appendice occidentale dell’Asia. Essa guarda naturalmente verso Ovest» (P. Valéry, La crisi del pensiero e altri “saggi quasi politici”, a cura di S. Agosti, il Mulino, Bologna 1994, pp. 35 e 44). La prima di queste due citazioni di Valéry viene ripresa e commentata in una conferenza del 1959 da M. Heidegger, Terra e cielo di Hölderlin, in La poesia di Hölderlin, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 211. Su di essa, infine, si esercita il paziente lavoro di decostruzione di J. Derrida, Oggi l’Europa, tr. it. di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991.
5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 233.
6. P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, tr. it. di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1991, p. 22.
7. Sulla perdita di misura nel passaggio da un mare interno alla dimensione oceanica e per una più profonda comprensione del complesso delle questioni sollevate in questo mio saggio mi preme rinviare una volta per tutte alle fondamentali analisi di M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994 e Id., L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997. Interessanti spunti si trovano anche in F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996 e Id., Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza, Roma-Bari 1998, dove, tra l’altro, leggiamo: «L’Europa invece diventa una potenza mondiale quando il suo baricentro si sposta dal Mediteraneo all’Atlantico, quando, come ha notato Carl Schmitt, il mare rompe a suo favore il rapporto con la terra, non tollera più confini, diventa oceano. La rottura e l’eclisse del Mediterraneo coincidono con il tramonto della misura, con l’avvento del fondamentalismo del mare, il contrappasso assoluto del fondamentalismo della terra. L’andare del mare fuori di ogni confine, la sua assolutizzazione, sono la nascita dell’economia, lo scatenamento della tecnica, lo sradicamento universale, il nomadismo integrale, la perdita di ogni ritorno, il fare di ogni uomo una nave in eterna navigazione e senza più ormeggio. È la fine della costa, del porto, dei punti in cui mare e terra si toccano, si fanno confine l’uno all’altro e quindi si conoscono e si limitano» (ivi, p. 81).
8. La contrapposizione tra Ulisse e Abramo, emblematica anche di quella tra grecità ed ebraismo, rimanda per Lévinas a quella tra una filosofia del ritorno a sé e del Medesimo, della quale La Fenomenologia dello spirito hegeliana è certamente la versione più rappresentativa, ed una filosofia della “fuoriuscita” e della precedenza dell’Altro sul Medesimo: «Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre suo figlio al punto di partenza» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 1998, p. 219).
9. Al viaggio dell’Ulisse dantesco e al suo concludersi nel «folle volo» ha dedicato splendide pagine M. Cacciari, L’Arcipelago, cit., pp. 63-71. Cfr. anche R. Giglio, Il volo di Ulisse e di Dante. Altri studi sulla Commedia, Loffredo, Napoli 1997 e i riferimenti bibliografici ivi contenuti.
10. In particolare Ovidio, Virgilio, Stazio, Orazio, Cicerone e Seneca.

11. F. Nietzsche, Frammenti postumi Estate – Autunno 1882, in Idilli di Messina. La gaia scienza. Scelta di frammenti postumi 1881-1882, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971, F.P. 24 [1], p. 408.
Nella stessa prospettiva nietzcheana si inscrive anche il Colombo di Spengler, incarnazione dello spirito faustiano e della sua «oscura nostalgia per l’illimitato» (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1981, p. 502). Come Copernico, Colombo avrebbe realizzato una analoga rivoluzione dello spazio, decretando «la vittoria dell’infinito sulla limitatezza materiale del presente e dell’afferrabile» (ivi, p. 417), sospinto «dal desiderio di avventura e dall’impulso verso lontananze sconfinate» (ivi, pp. 502-503), da un’irrefrenabile tensione al dominio di spazi sempre più vasti. Anticipando alcune considerazioni di Schmitt, secondo Spengler proprio dalla stagione delle grandi scoperte geografiche prese l’avvio quella civiltà faustiana che avrebbe condotto l’Occidente ad inglobare in sé il mondo intero: «Le scoperte di Colombo e di Vasco de Gama ampliarono incommensurabilmente l’orizzonte geografico: l’oceano andò a contrapporsi al continente secondo lo stesso rapporto con cui lo spazio cosmico sta alla terra. E solo allora si scaricò la tensione politica della coscienza faustiana del mondo. Per i Greci l’Ellade fu e rimase la parte essenziale della superficie terrestre; con la scoperta dell’America l’Occidente divenne una provincia di un tutto gigantesco. A partire da tal momento, la storia della civiltà occidentale assume un carattere planetario» (ivi, p. 504). Cominciò allora, con Copernico e Colombo, nel segno di una sconfinata volontà di potenza, a definirsi il tratto essenziale di questa civiltà, quello spirito faustiano caratterizzato dalla brama di espansione e dal desiderio dell’illimitato: «la rappresentazione degli spazi siderali nella quale si è sviluppata l’immagine del mondo di Copernico, il dominio della superficie terrestre da parte dell’uomo europeo in seguito alla scoperta di Colombo, […] la passione degli uomini della civilizzazione per i trasporti veloci, il dominio dell’aria, le spedizioni ai poli e la scalata di cime quasi inaccessibili – in tutto ciò affiora il simbolo elementare dell’anima faustiana, lo spazio illimitato, e le forme puramente euro-occidentali del mito dell’anima, cioè la “volontà”, la “forza”, l’“azione”, vanno concepite come particolare derivazioni di esso» (ivi, p. 508).
12. Così si intitola l’aforisma 575 che conclude F. Nietzsche, Aurora, in Aurora. Scelta di frammenti postumi (1879-1881), a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Mondadori, Milano 1971.
13. Ivi, pp. 257-258.
14. Ivi, p. 258.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Ibidem.
18. F. Nietzsche, La gaia scienza, in Idilli di Messina La gaia scienza Scelta di frammenti postumi 1881-1882, cit., p. 195.
19. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 29.
20. Ibidem.
21. Ivi, p. 135.
22. Per questa interpretazione di Nietzsche appare decisiva ovviamente la straordinaria lettura di Heidegger (cfr. M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994).
23. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 289, p. 160.
24. F. Nietzsche, Aurora, cit., af. 314, p. 317.
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 124, p. 125. È da notare la posizione strategica di questo aforisma, che Nietzsche ha voluto premettere a quello, ancor più celebre, dell’annuncio della morte di dio.
28. C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio (1958), in Terra e mare, cit., p. 99.