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Non potremo mai dirci liberali, perché non possiamo appagarci del presente com’è

di Francesco Lamendola - 09/09/2010

 

Il liberalismo è una ideologia politica dignitosa, una delle più dignitose fra quante emerse nel corso della modernità; ma non potrà mai essere la nostra: perché non ha nulla da dire a chi prova la sete dell’assoluto, a chi non si appaga del presente così com’è.
Il liberalismo codifica il conflitto di classe, lo inquadra in un sistema di regole, ma non fa assolutamente nulla per limitarlo o per risolverlo. Gli manca totalmente la dimensione utopistica: realista al cento per cento, dà per scontato che il conflitto sia inevitabile, che sia parte della società umana.
Forse ha ragione.
Tuttavia, arrendersi a una tale constatazione, fermarsi ad un tale livello di riflessione, significa, in pratica, misconoscere la dimensione più profonda dell’essere umano: il suo bisogno di sognare cieli nuovi e terre nuove, anche se - forse - non esistono; o, per meglio dire, se non sono esperibili nella presente condizione di esistenza.
Al liberalismo manca anche, in modo radicale, la vocazione profetica: ed è un’altra ragione per cui non potremo mai dirci liberali.
Senza la voce della profezia che la riconduce sulla strada della speranza, quando i suoi passi si perdono nella palude della contingenza, la società è come morta: una somma disordinata di individui, più che un complesso armonioso di relazioni.
Non c’è da stupirsi che il liberalismo si sia storicamente caratterizzato come l’ideologia della borghesia in ascesa e come, sul piano economico, si sia tradotto nella dottrina e nella pratica del liberismo.
Chi è soddisfatto di quanto ha raggiunto, come individuo e come classe, tende a riconoscersi in una dottrina politica che si limita a gestire l’esistente, a stabilire norme per consolidarlo e perpetuarlo, dimenticandosi che è solo un dato storico, e quindi relativo, per innalzarlo al livello di un destino immutabile.
Un grande maestro del pensiero del Novecento, Ugo Spirito, lo aveva compreso e aveva sempre additato il limite intrinseco del liberalismo, rischiando sulla propria pelle di battere altre strade, al tempo in cui l’idealismo crociano dettava legge ovunque e si poneva, appunto, come la filosofia borghese per eccellenza, tanto presuntuosa e compiaciuta, quanto egoista e incapace di porsi dal punto di vista del bene generale: del contadino e dell’operaio non meno che del banchiere e dell’industriale.
Di lui ci eravamo già occupati a suo tempo, per ricordare la sua acuta critica alla democrazia parlamentare, testimoniata, sul piano delle concrete scelte politiche, dal suo avvicinamento al fascismo prima, al comunismo poi (cfr., sempre sul sito di Arianna Editrice, «Le aporie della democrazia parlamentare nel pensiero politico di Ugo Spirito»).
Rimane qualcosa da dire, più in generale, circa la sua critica al pensiero liberale e al suo corollario in chiave di dottrina economica, ossia il liberismo.
Recensendo il libro di Danilo Breschi a lui dedicato «Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione», Antonio Saccà ha ricordato e giustamente sottolineato questa dimensione anti-liberale del filosofo toscano (sul numero di luglio-agosto 2010 della rivista  «Area», p. 69), non per altra ragione se non per la sua costante preoccupazione della dimensione plurale, relazionale dell’uomo, che il liberalismo sacrifica e comprime:

«… Spirito fu mosso da una “verve” mentale che gli faceva odorare, per dir così, il futuro. Non si appagava della realtà com’è. Non che fosse un utopista, tutt’altro, ma non era un acquiescente. Più che amministrare la realtà, anche se fu un “attualista” gentili ano, tentava forme nuove sia nel campo sociale, sia nel campo filosofico. Dell’Attualismo accoglieva il processo in avanti, il divenire. Celebre rimane la sua idea corporativa, il corporativismo proprietario capillarmente da Breschi, specie nel carteggio con Giuseppe Bottai. Spirito intuì che tra lavoro e impresa si doveva stabilire una collaborazione.  Non era per la borghesia che utilizza il proletariato ai propri scopi di profitto, né per un proletariato che pretenda di essere classe dirigente. Non era per lo scontro di classe, né dall’una né dall’altra parte, non era per il liberismo, il quale, tutto sommato, stabilisce le regole del conflitto, ma in ogni caso mantiene il conflitto. Liberista non fu, né in qualche modo liberale, se s’intende per liberale l’individuo che pone al centro di se stesso se stesso e la sua espansione indipendentemente da uno scopo comune con gli altri.
L’idea di coniugare l’esistenza personale con la società, con la comunità, fu l’ossessione di Spirito e questo lo rese a suo modo fascista, in quanto ritenne che il fascismo avesse il senso comunitario della nazione, o comunitario nella figura del Duce che riassorbiva la pluralità. Sono proposizioni su cui ora sarebbe troppo lungo fare considerazioni. Ma il senso di vuoto che gli dava ikl liberalismo, cioè in fondo l’appagamento nell’essere individualmente liberi, rimase un’ossessione in Spirito. Essere liberi, e gli altri? In economia intuì, dicevo, che il liberismo avrebbe condotto alla sopraffazione del capitale sul lavoro.
In campo filosofico visse con intensità e fermezza la disperazione di non trovare un approdo. Parlava e nominava Dio, ma come entità di una trascendenza così trascendente da restare soltanto una meta all’infinito, inesauribile e imprendibile, addirittura indefinibile. Mi disse in un colloquio citato in “Opera aperta” (1971): “Personalmente io da cinquant’anni vado in cerca di Dio, ma dopo cinquantenni non ho raggiunto alcun risultato. Ricerco ma non trovo. Eppure questo cercare e on trovare da cinquant’anni, non mi ha fermato nella ricerca, di modo che l’unica cosa ch’io rivendico come affermazione è     questa:  di educare alla ricerca, nonostante la delusine continua dei risultati”.»

L’attualità e, vorremmo dire, la perennità della critica di Ugo Spirito al pensiero politico liberale è un tema di estremo interesse, ora che la fine della Guerra Fredda e l’apparente vittoria del Pensiero Unico globalizzante, liberaldemocratico in politica e ultraliberista in economia, ha mostrato tutti i limiti e tutti i pericoli di una concezione del reale che non ha nulla da dire sul conflitto tra capitale e lavoro, tra libertà personale e bene comunitario, tra diritti dell’individuo e legittime esigenze della società; e che ignora pressoché totalmente le problematiche ecologiche, visto che nasce da una forma di antropocentrismo ad alto gradiente tecnologico.
Il che è come dire che il liberalismo non ha niente da dire sui temi più significativi, più scottanti e, al tempo stesso, più profondi della vita umana, sia come fatto individuale, sia come manifestazione collettiva.
Del resto, le sue basi filosofiche sono sempre state fragilissime, quasi inconsistenti: il suo padre nobile, John Locke, non ha fatto che scodellare alcune proposizioni rozze e banali, di una sconcertante povertà speculativa, basate sul senso comune nell’accezione peggiore del termine. Si tratta di un empirismo grossolano, che ci si meraviglia come possa trovare ancora tanto spazio nei manuali scolastici di filosofia, se non a titolo di mera testimonianza storica.
D’altra parte, criticare il liberalismo, mostrandone tutta la pochezza speculativa e tutta l’impotenza pratica a reggere le sorti del mondo attuale, non può essere che la “pars destruens” di un atteggiamento che voglia essere responsabile; bisogna, infatti, sforzarsi di oltrepassarlo, senza lasciarsi suggestionare dalle facili scorciatoie del totalitarismo, e sia pure di una qualche forma di totalitarismo “illuminato”, magari sulla falsariga della «Repubblica» di Platone.
Anche l’anarchia non è che una scorciatoia, sia pure orientata nella direzione opposta: mentre il totalitarismo afferma che lo Stato sta al di sopra di tutto e che l’individuo non conta se non come ingranaggio di esso, l’anarchia ribalta la prospettiva e sostiene che solo l’individuo conta, con i suoi diritti e la sua esigenza di assoluta libertà; ma ciò significa ignorare il dato di fatto che nessun uomo vive come Robinson Crusoe e nessun essere umano può prescindere dal dovere di accordare la propria libertà ed i propri diritti con la sicurezza, la pace e l’armonia della società in cui si trova a vivere, a lavorare, a sperare e ad amare.
Il liberalismo è una ideologia politica sostanzialmente egoistica, che si preoccupa solo di tutelare gli interessi di quanti hanno conquistato una posizione eminente e rispettabile nella società e possiedono già ampi strumenti - economici, sociali e culturali - per far valere i propri diritti; mentre ha ben poco da dire ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati; e niente del tutto per quanto riguarda gli animali, le piante e l’ambiente terrestre, di cui l’umanità si trova a condividere il destino, nel bene come nel male.
Il nostro problema era, ed è - quindi -, quello di tracciare una strada che offra qualche cosa di più e di meglio della democrazia liberale, non qualche cosa di meno e di peggio, come nel caso del totalitarismo; e neanche qualche cosa di velleitario e di fumoso, come l’anarchia, che non tiene conto della realtà della natura umana e si figura che tutti gli esseri umani, purché tempestivamente liberati da ogni forma di oppressione, diventino simili ad altrettanti angeli, rispettosi ed amorevoli verso tutti gli altri.
Non pretendiamo certo di fondare, qui ed ora, una nuova dottrina politica; cominciamo però col chiarire che ogni dottrina politica è figlia di una determinata concezione della realtà e che dovremmo partire, quindi, escludendo dal nostri orizzonte tutte quelle filosofie le quali, da un lato ignorano o sacrificano delle componenti essenziali della natura umana, dall’altra si mostrano indifferenti al valore dell’alterità e al rispetto di ogni forma di vita.
Di conseguenza, non solo il liberalismo, ma tutte le filosofie di impronta razionalista, materialista, meccanicista e riduzionista devono essere escluse, perché ignorano o sacrificano la dimensione trascendente dell’uomo, la sua esigenza di assoluto, il suo bisogno incoercibile di cercare in se stesso non solo e unicamente il proprio Ego, ma il centro propulsore di tutto il reale, non deificandosi da se stesso, ma riconoscendo in se stesso una scintilla o un frammento o una emanazione dell’Essere universale.
Vanno pure escluse tutte le filosofie a base antropocentrica, scientista, utilitarista e pragmatista, che considerano l’uomo come una monade isolata e che non tengono in alcun conto il legame profondo che lega le esigenze e le necessità dell’uomo con quelle di tutti gli altri viventi e dell’intero ecosistema terrestre, che non è qualcosa di inerte, ma un organismo vivente del quale l’uomo è solo un ospite e un inquilino temporaneo; ma che, al contrario, si pongono davanti all’ecosistema con un atteggiamento ottusamente predatorio.
Ed ecco che incominciamo a intravedere un po’ di luce in mezzo alle tenebre, a percepire un soffio d’aria fresca nella pesante atmosfera della cantina in cui da troppo tempo ci stiamo aggirando come ciechi o, peggio, come ciechi che credono di vedere lontano.
Il pensiero liberaldemocratico privilegia, come abbiamo detto, i più forti, ma lo fa dietro la maschera del rispetto assoluto della volontà popolare, la quale, invece, viene sistematicamente manipolata in una società ove ci si limita al controllo formale delle regole stabilite; e tale limite “formalistico” non è accidentale, ma connaturato all’essenza stessa del liberalismo, poiché esso non vede nell’uomo che la dimensione esteriore, materiale, economica.
Ma l’uomo è anche desiderio di amore, spinta alla trascendenza, capacità di compassione: non il peloso “conservatorismo compassionevole” dei repubblicani statunitensi, ma la compassione vera, profonda, universale, estesa ad ogni manifestazione della vita - come bene aveva visto Albert Schweitzer - e che scaturisce dalla consapevolezza che ogni essere vivente merita rispetto, amore, compassione e di essere considerato non solo per ciò che attualmente è, ma anche per ciò che potrebbe essere, per quel residuo ontologico che è in lui e che non si lascia afferrare da alcuno.
Ecco: di questo, soprattutto, c’è bisogno: di una concezione politica che tenga conto di tale “resto”, che guardi all’uomo ed agli altri viventi con quell’amore e con quella compassione che derivano dal vedere in essi molte più cose di quelle che appaiono; nel vedervi un mistero, un mistero sacro, che celebra le lodi dell’Essere infinitamente sapiente e provvidente da cui ogni cosa promana.