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In che senso ci sta interrogando la crescente diffusione degli sport pericolosi ed estremi?

di Francesco Lamendola - 14/09/2010



La diffusione della pratica sportiva amatoriale è aumentata a vista d’occhio, in questi ultimi decenni, ad un punto tale che, forse, non sarebbe stato neppure immaginabile solamente due o tre generazioni or sono.
Oggi è quasi impossibile uscire di casa senza imbattersi in uomini e donne di ogni età che corrono, chiediamo scusa, che praticano jogging, magari non tanto per il piacere del movimento in se stesso, ma per dimagrire e rassodare le gambe. Ed è quasi impossibile uscire di città senza imbattersi in gruppi, più o meno numerosi, di ciclisti, ci quali, perfettamente equipaggiati e forniti di biciclette da corsa quasi professionali, sfrecciano sulle strade e affrontano le salite con piglio ammirevole, incuranti della fatica e del sudore.
Non parliamo, poi, delle palestre e dei vari centri di benessere, chiediamo scusa di nuovo, di fitness, oppure dei corsi di aerobica, e senza dimenticare il culturismo o body-building, sia maschile che femminile; delle piscine comunali sempre affollatissime e frequentate da nutrite squadre di bambini nonché da principianti più stagionati; delle piscine private, specialmente quelle degli alberghi in località balneari, ove istruttrici atletiche e sudate fanno muovere volonterosi clienti al ritmo, più o meno convinto e convincente, dell’acquagym.
Sui laghi prealpini, poi, mentre fino a qualche anno fa non c’era che qualche ristorantino per famiglie e qualche giardinetto attrezzato per i giochi dei più piccoli, adesso pullulano decine di coloratissime vele di surfisti, ben decisi a sfruttare ogni folata di vento che scende dalle vallate, anche se non dovranno mai mettere alla prova la loro abilità con delle onde colossali come quelle dell’Oceano Pacifico, croce e delizia dei loro più fortunati colleghi australiani, neozelandesi e californiani, né - d’altra parte - dovranno vedersela con i voracissimi pescecani che infestano quei mari tropicali.
Ed è sempre più difficile fare una gita in montagna senza vedere il cielo animarsi dei vivaci colori di qualche deltaplano lanciato nel vuoto e che si libra, come un falco o una poiana, con le grandi ali aperte a cogliere e sfruttare al massimo le correnti d’aria ascensionali.
Insomma, la grande novità è che non solo bambini e ragazzi, ma persone di mezza età e anche piuttosto anziane, si lanciano nella gioiosa avventura della pratica sportiva a livello amatoriale, anche senza la pretesa di accedere al livello dilettantistico e meno ancora a quello professionale; che è, al tempo stesso, la scoperta di uno stile di vita più salutare e anche, perché no, la riscoperta di potenzialità insospettate o dimenticate del proprio organismo.
In questo senso, la diffusione dello sport amatoriale fra le persone non più giovanissime fa parte di un fenomeno più generale, tipico delle società del benessere, che vede la riscoperta della propria corporeità (sessualità compresa) da parte di quarantenni, cinquantenni e sessantenni ancora desiderosi di piacersi e di piacere, i quali vogliono sentirsi in forma ed efficienti e non lasciarsi più relegare in casa, a badare quasi soltanto ai figli o ai nipotini; i quali vogliono vivere, insomma - con l’aiuto della cosmesi e di un abbigliamento ben curato, oltre che degli attrezzi ginnici - una seconda giovinezza.
Questo è ormai un fenomeno largamente diffuso e, diciamolo pure, presenta alcuni aspetti indubbiamente simpatici e apprezzabili, non solo per i diretti interessati, ma per la società nel suo insieme: all’improvviso, è come se il mondo si fosse popolato di quarantenni, cinquantenni e sessantenni sportivi e attraenti, e nel plurale maschile includiamo anche e soprattutto il genere femminile, che sembra essersi gettato con una grinta e un entusiasmo tutti particolari in questo bagno di ritrovata gioventù.
Al tempo stesso, un fenomeno collaterale a quello in questione è stato il proliferare degli sport pericolosi e anche di quelli cosiddetti estremi, nei quali non si gareggia per ottenere un risultato, né ci si cimenta per il piacere di una prestazione atletica soddisfacente, quanto per provare le forti emozioni legate al pericolo: in particolare paracadutismo acrobatico, volo con il parapendio in condizioni di particolare difficoltà, discesa di un rapido torrente di montagna a bordo di una canoa o, magari, salto da un ponte di notevole altezza, con le gambe assicurate da una cinghia elastica che tratterrà il corpo a pochi centimetri dal fondo del burrone (bungee jumping, imitato da una tradizione degli indigeni delle Nuove Ebridi).
Un posto a parte merita l’arrampicata libera sulle pareti rocciose o, magari, sulla superficie di qualche edificio pubblico, ad esempio un grattacielo: senza chiodi e moschettoni, né corde, il praticante o la praticante di questa disciplina (impropriamente chiamata free climbing) rischia letteralmente la vita, per il puro piacere di sentire le scariche di adrenalina ad ogni metro che riesce a conquistare in altezza, privo (o priva) com’è di qualunque protezione.
C’è poi la pratica del tuffo da altezze ben superiori a quelle olimpioniche, sul bordo di precipizi a picco sul mare o su fiumi (famoso era quello che si svolgeva dal ponte di Mostar, in Erzegovina); e quella del surf d’onda, che consiste nel cavalcare letteralmente le grandi onde oceaniche: e, ovviamente, più queste sono alte e maggiore è la spettacolarità della prestazione.
L’elenco completo sarebbe lungo, né questa è la sede adatta per esaurire l’argomento sotto il profilo tecnico; a noi interessa, invece, sviluppare una breve riflessione sul significato che tale fenomeno riveste nel contesto della società attuale.
In primo luogo, l’accostamento della rapida e impressionante diffusione degli sport pericolosi ed estremi a quella dello sport amatoriale, potrebbe sembrare ingiustificato e arbitrario; ma non crediamo che sia così. Si tratta di due facce della stessa medaglia: la scoperta che è possibile spostare sempre un poco più in là il limite di ciò che si è capaci di fare con la propria forza fisica, con la propria resistenza e, in generale, con la padronanza del proprio corpo.
Del resto, la stessa pratica degli sport estremi viene espressa per pura comodità in un’unica categoria concettuale; in realtà, bisognerebbe considerare ogni singolo sport come un qualcosa a sé; e, all’interno di esso, valutare ogni singolo praticante ed ogni singola prestazione, tenendo nel debito conto le notevoli differenze che sempre esistono, non solo nel grado di difficoltà tecnica, ma anche nelle condizioni psicologiche.
Vogliamo dire che, così come non esiste soluzione di continuità, se non sulla base di valutazioni strettamente personali, fra una “normale” pratica sportiva, amatoriale o professionistica, ed una pratica sportiva volutamente pericolosa ed estrema, ugualmente non ne esiste fra arrampicarsi a mani nude e senza protezioni su una parete di roccia di pochi metri, oppure a strapiombo su un abisso di centinaia di metri.
Ugualmente non si dà una vera differenza tra il tuffarsi dall’alto di una roccia a picco sul mare, a trenta metri d’altezza, badando a non cadere sugli scogli sottostanti, e tuffarsi dalla finestra al terzo piano di un albergo per “centrare” la piscina sottostante, evitando di misura di cadere sul pavimento di cemento o sui bordi della stessa.
Senza dubbio molti arricceranno il naso a questo paragone e obietteranno che si tratta di cose completamente diverse, quanto possono esserlo una pratica sportiva altamente acrobatica, ancorché pericolosissima, ed una semplice bravata da ubriachi o da incoscienti. E la critica, se ci si ferma alle apparenze, è sicuramente pertinente.
Tuttavia, se si considerano le motivazioni psicologiche e il gusto estremo del rischio, spinto fino alle soglie dell’autodistruzione, bisognerà riconoscere che le differenze sono più formali che sostanziali e che un tratto comune associa le due pratiche. Gli incidenti con gravi conseguenze, anche mortali, si verificano sia nell’una che nell’altra e ciò conferma che, quanto alla sostanza, esse hanno in comune la cosa principale: il gusto, o forse bisognerebbe dire il bisogno compulsivo, di mettere a rischio la propria vita, giocandola tutta sul filo della propria destrezza e della propria bravura atletica.
Quando si spinge il livello di rischio oltre la soglia minima della prudenza e dell’istinto di conservazione, l’unica differenza rispetto a quanti praticano la cosiddetta “roulette russa”, così come descritta nel film di Michael Cimino «Il cacciatore» (puntarsi alla tempia una pistola in cui è stato inserito un solo proiettile e premere il grilletto, dopo aver fatto ruotare a caso il tamburo) è solo esteriore.
Nello sport estremo, infatti, il filo sottile che separa la vita dalla morte è ancora, fino ad un certo punto, nelle mani del soggetto, poiché dipende dalle sue capacità, dalla sua prontezza di riflessi, dalla sua forza muscolare; nella “roulette russa” non vi è più nulla di sportivo, e il caso domina incontrastato: però in entrambe le situazioni si mette volontariamente a rischio la propria vita per il piacere di provare delle emozioni forti.
A questo punto, l’interrogativo che la pratica degli sport estremi pone alla società è per quale ragione un numero crescente di uomini e donne, di solito in giovane età e quindi con gran parte della vita ancora davanti, si sentano spinti a sfidare la morte con tanta facilità e senza uno scopo vero e proprio, come potrebbe essere la conquista di una vetta inviolata per l’alpinista o la dimostrazione della navigabilità di un fiume, per un esploratore.
Notiamo per inciso che, fin dagli esordi del cinema americano, è nata una nuova figura professionale, quella del “cascatore”, sia come controfigura degli attori principali di un film, sia in veste di semplice comparsa: colui che deve compiere pericolosissime acrobazie, ad esempio saltando da un treno in corsa o affrontando le rapide di un fiume su una fragile imbarcazione; figura professionale che dovette fare subito la tragica contabilità degli incidenti gravi o gravissimi, con la invalidità permanente o con la morte dei suoi praticanti.
Questo fatto è interessante perché ci ricorda che l’amore del pericolo è insito nella natura umana e, per quanti non hanno il coraggio (o la follia) di sperimentarlo in prima persona, esiste la possibilità di farlo per interposta persona, standosene comodamente seduti sulla poltrona di un cinematografo o anche su quella di un circo. E già Lucrezio, nel «De Rerum Natura», parlava apertamente del piacere che si prova, standosene al sicuro sulla terraferma, nel guardare una nave che sta lottando disperatamente contro il mare in burrasca, quando essa è ormai in procinto di naufragare sugli scogli o di scomparire nei flutti.
Che altro significa, infatti, per il pubblico, lo spettacolo di un domatore di tigri o di leoni, che inserisce la propria testa nelle fauci aperte della belva, se non il piacere piuttosto sadico di aver paura del rischio mortale affrontato da un altro essere umano, non osando sperimentarlo direttamente su di sé?
Né si obietti che il pubblico, in quei momenti, spera ardentemente che tutto finisca bene; perché esso è cosciente che così potrebbe anche non essere, e ha pagato il biglietto d’ingresso proprio per godere di questa eventualità o, quanto meno, di questa incognita. Il fatto che il domatore, e sia pure in casi rarissimi, perde realmente la vita durante lo spettacolo, o il trapezista precipita durante una esibizione senza rete, o il torero viene incornato a morte dal toro infuriato, ebbene tutto ciò sta a dimostrare che la curiosità di quanti assistono volontariamente a tali spettacoli non è priva di una segreta componente sadica e che il loro piacere non è poi così innocente come essi medesimi, forse, vorrebbero credere.
Si ama il rischio, dunque; si ama il rischio di morire o di veder morire qualcuno. Discorso analogo si può fare per certe esibizioni di volo acrobatico e anche per certe gare automobilistiche; spettacoli nei quali è possibile non solo la morte dei piloti, ma anche - e sia pure come fatto altamente improbabile, non però da escludersi del tutto - quella degli spettatori.
Solo pochi giorni fa un toro, quasi come un gladiatore furibondo dell’antica Roma, è riuscito a scavalcare le recinzioni ed è piombato, durante una corrida, in mezzo al pubblico, seminando il terrore e ferendo diverse persone prima dell’inevitabile conclusione (di cui i suoi aguzzini possono andare ben poco fieri): la sua uccisione. “esemplare”.
L’«homo ludens» di cui parlava Huizinga gode particolarmente del rischio, che si tratti del proprio o di quello altrui: questo è un fatto spontaneo, cioè di natura; e con i fatti di natura non si discute e non li si giudica, ci si limita a prenderne atto.
Piuttosto, la società potrebbe e dovrebbe interrogarsi, o meglio lasciarsi interrogare, dalle proporzioni che questo gusto del rischio sta prendendo negli ultimi tempi, proprio quando il concetto del “diritto alla vita” è stato talmente inculcato dalla filosofia dominante, che si giunge a considerare la morte come una ladra allorché essa si porta via, dopo una grave malattia, una persona, la quale magari ha potuto godere di una vita lunga e piena.
Da un lato, quindi, ci s’indigna se una malattia, una eruzione vulcanica, un terremoto o perfino una bestia feroce, causano la morte di esseri umani e si giunge a parlare di “montagna assassina” quando bisognerebbe incolpare solo e unicamente l’imprudenza e l’incoscienza umane; dall’altro, si rivendica il diritto, in nome di una libertà concepita nel modo più individualistico, di giocare a piacere con la propria vita, mettendola deliberatamente a rischio, oppure si paga il biglietto per assistere al pericolo della vita altrui.
Da che cosa dipende questa apparente contraddizione, se non dal fatto che la cultura odierna è talmente imbevuta dal pregiudizio antropocentrico, che ormai riteniamo un po’ tutti di avere solo diritti, primo fra tutti quello di non morire a causa di eventi esterni, ma, semmai, di giocarci la nostra stessa vita per un brivido di emozione che riempia il desolato vuoto spirituale delle nostre esistenze?