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Panama: ancora un imperativo strategico per gli USA?

di Carlo Cauti - 14/09/2010



Panama: ancora un imperativo strategico per gli USA?

Il 27 agosto scorso si è conclusa la Panamax 2010, una delle più grandi esercitazioni militari multinazionali del mondo. Svoltesi nelle acque del Canale di Panamá, le manovre sono durate 12 giorni, coinvolgendo oltre 2 mila persone, tra civili e militari, e più di 30 navi da guerra battenti bandiera degli Stati Uniti d’America e di 18 Paesi latinoamericani. La ragione ufficiale di questa esercitazione è “la lotta contro il terrorismo internazionale, il contrasto al traffico di stupefacenti e il coordinamento per azioni congiunte di assistenza umanitaria e protezione civile in caso di catastrofi naturali nella regione”.

Sponsorizzata dal governo panamense e dall’US Southern Command, la Panamax e’ un appuntamento che si ripete ogni anno dal 2003, e che ha visto col tempo aumentare il numero degli Stati partecipanti. Militari di Argentina, Belize, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Repubblica Domenicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panamá, Paraguay, Perù e Uruguay si sono addestrati insieme all’US Navy, in operazioni navali, aeree e terrestri, nelle comunicazioni strategiche e con le diverse forze speciali. Era presente anche una delegazione della Germania in qualità di osservatore.

Alla luce dell’imponente spiegamento di forze, della lunga durata e della cadenza annuale, la Panamax dovrebbe essere il sintomo di quanto il governo degli Stati Uniti, a prescindere dall’amministrazione, consideri il Canale di Panamá un obiettivo strategico di primaria importanza. La stabilità politica di Panamá e la libertà di navigazione del Canale sono sempre stati considerati fondamentali per il trasporto di merci, per lo sviluppo del commercio internazionale e per il rapido dispiegamento di unità militari tra i due oceani. E per queste ragioni che per tutto il XX secolo Washington ha dirottato ingenti risorse in questo piccolo lembo di territorio centroamericano.

Tuttavia negli ultimi anni molti elementi politici ed economici sono radicalmente mutati: la fine della guerra fredda; il dominio incontrastato americano degli oceani; il cambiamento del modo di concepire la guerra; lo sviluppo del trasporto aereo e lo spostamento del baricentro economico dall’Atlantico al Pacifico. Diventa naturale chiedersi: Panamá è ancora un pilastro della politica estera statunitense nelle Americhe? Washington può fare a meno del Canale?

Storia del Canale di Panama

Il Canale di Panamá è uno delle più grandi opere mai realizzate dall’umanità. Già durante il periodo della colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo si era teorizzato di poter tagliare in due lo stretto istmo che collega Nord e Sud America. Nel 1523 l’imperatore Carlo V aveva dato ordine di iniziarne la progettazione, spinto da due grandi ragioni che si ripeteranno costantemente durante i secoli: la guerra e il trasporto dell’oro necessario a finanziarla. In quegli anni il Sacro Romano Impero era in costante conflitto con gli altri regni d’Europa, in particolare con la Francia di Francesco I. Era necessario dispiegare in maniera rapida e veloce le possenti unità della marina imperiale, e permettere che l’oro del vicereame del Perù caricato sui galeoni spagnoli raggiungesse le casse imperiali senza impiegare i lunghi mesi necessari ad attraversare lo stretto di Magellano. I turbolenti avvenimenti politici europei e il livello tecnologico dell’epoca non permisero tuttavia la realizzazione dell’opera.

Oltre tre secoli più tardi il progetto del Canale tornò nuovamente a prendere forma, di nuovo per cause legate al metallo prezioso e a esigenze militari. Con la scoperta dell’oro in California a metà ’800, migliaia di avventurieri da tutto il mondo vennero attirati sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Per abbreviare il lungo percorso necessario a raggiungere il Golden State, e per velocizzare il trasporto di tutti i suppellettili necessari ai pionieri, venne ripresa l’idea di tagliare in due il continente americano. Inoltre in quegli anni gli USA iniziavano a far affluire truppe ad Ovest, per consolidare una sovranità territoriale non ancora del tutto certa, a causa dei continui scontri con il vicino Messico. Era quindi necessario un mezzo per permettere un rapido dispiegamento di soldati e di mezzi militari da una costa all’altra.

Nello stesso periodo l’Europa iniziava ad essere pervasa da un forte sentimento di ottimismo per il futuro, generato dalla sostenuta crescita economica della seconda rivoluzione industriale e dalla fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnologia come volani del progresso dell’umanità. Iniziarono a fioccare progetti di grandi costruzioni che avrebbero favorito lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita degli uomini. Fu in quel periodo che venne ideato e realizzato su iniziativa francese il Canale di Suez, e, sull’onda di tale successo, venne proposta la costruzione del Canale di Panamá. Nel 1869 a Parigi venne creata La Société internationale du Canal Interocéanique, una società per azioni che avrebbe avuto il compito della realizzare l’opera. A capo dell’impresa venne posto l’ex diplomatico Ferdinand de Lesseps, principale artefice dell’apertura del Canale di Suez.

Nel 1878 i francesi raggiunsero un accordo con la Grande Colombia (che comprendeva gli attuali territori di Ecuador, Colombia, Venezuela e Panamá) per l’acquisto dei terreni dove sarebbe sorto il Canale, e per lo sfruttamento esclusivo di quest’ultimo da parte della Societé per un periodo di 99 anni dal suo completamento. L’entusiastica leadership di de Lesseps e la sua grande reputazione permisero alla Societé di raccogliere finanziamenti per oltre 400 milioni di dollari, per la maggior parte provenienti da piccoli risparmiatori. Doveva essere il trionfo dell’ingegno umano sulla natura. Fu un disastro.

I lavori iniziarono nel 1881 ma si rivelarono ben presto molto più difficili di quanto si potesse immaginare. De Lesseps non era un ingegnere, e Panamá non è il deserto del Sinai. Per quanto l’istmo possa essere piccolo e stretto esso è attraversato da alte ed impervie montagne, ricoperte da una fitta selva amazzonica, ed è disseminato di laghi e pozze d’acqua, che rendono l’ambiente insalubre e malsano. Il costo economico per la prima fase dei lavori fu altissimo, e ancora più alto fu il costo in vite umane. Oltre 25 mila persone perirono durante le operazioni, quasi tutti operai locali, decimati da malaria e febbre gialla. Inoltre le frequenti esondazioni causate dalle forti piogge tropicali resero i lavori incredibilmente lenti.

Nel 1889 la Societé fallì, scoppiò il cosiddetto “Scandalo di Panamá” e De Lesseps fu processato in Francia con l’accusa di malversazione. Nel 1894 venne creata una nuova società per il completamento del Canale: la Compagnie Nouvelle du Canal de Panamá, che subentrò alla Societé. Pochi anni dopo fallì anche questa. A quel punto i francesi decisero di abbandonare definitivamente il progetto e di vendere i terreni di proprietà della Compagnie.

In questo epico fallimento, tuttavia, si intravede la longa manus degli Stati Uniti. Già nelle prime fasi dei lavori Washington aveva giocato sporco: la presenza di europei sul continente americano era contraria alla cosiddetta “Dottrina Monroe”, e il governo statunitense cercò in tutti i modi di ostacolare e rendere sempre più difficili i lavori per la realizzazione del Canale. Per l’establishment americano il Canale di Panamá era diventata un’opera di primaria importanza strategica, soprattutto dopo la guerra contro la Spagna del 1898, quando un corpo di spedizione statunitense era sbarcato a Cuba e come supporto era stata inviata la USS Oregon, di stanza a San Francisco, in California. L’unità navale dovette attraversare lo stretto di Magellano, circumnavigando il Cono Sud, e impiegando 67 giorni per raggiungere la destinazione. Se il Canale fosse stato aperto sarebbero bastate tre settimane.

Lo stesso presidente americano, Theodore Roosevelt, insediatosi nel 1901 aveva preso parte alla spedizione a Cuba, ed era quindi il più acceso sostenitore della necessità che gli USA prendessero il controllo dello Canale. Immediatamente dopo la ritirata francese gli Stati Uniti entrarono nell’affare, e nel 1903 il Congresso concesse l’autorizzazione ad acquistare i terreni di proprietà della Compagnie.

Il governo colombiano, tuttavia, decise di non autorizzare la transazione. In questa decisione Bogotà era appoggiata dalle altre repubbliche latinoamericane, preoccupate della crescente posizione egemonica di Washington a sud del Rio Grande. Per tutta risposta gli USA adottarono una tattica che si ripeterà costantemente nel corso dei successivi due secoli: fomentarono un Golpe. Il 1 novembre 1903 il parlamento colombiano mise il veto sulla cessione dei terreni agli Stati Uniti. Tre giorni dopo un’insurrezione armata proclamava Panamá indipendente, dopo che la flotta americana ne aveva bloccato tutti i porti impedendo qualsiasi reazione delle forze armate colombiane. Quindici giorni dopo, il nuovo governo panamense firmò il Trattato di Hay-Bunau-Varilla, che concedeva agli Stati Uniti la possibilità di costruire il Canale, la sua perpetua gestione e il possesso di una fascia di terreno adiacente al percorso del Canale per 10 miglia di estensione su ogni lato.

Il Trattato di Hay-Bunau-Varilla è stato un vero e proprio capolavoro di violazione del diritto internazionale: l’accordo più importante per il destino di Panamá non venne firmato da un cittadino panamense, in quanto venne siglato dall’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti, John Hay, e da Phillipe Bunau-Varilla, Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario del governo di Panamá, che però aveva passaporto francese. Il governo panamense aveva fatto le cose così in fretta, che non era riuscito a trovare nessuno da inviare a Washington per trattare con gli americani, dovendo ripiegare su Bunau-Varilla, importante azionista della Compagnie.

Gli americani avevano fretta di completare il Canale, e i lavori procedettero con rapidità, efficienza e disciplina militare. A dimostrazione del forte interesse delle forze armate USA per l’opera, il progetto venne assegnato al genio militare, sotto la responsabilità del colonnello George Washington Goethals, affiancato da una squadra di tecnici provenienti per la stragrande maggioranza dalle fila dell’esercito o della marina. I lavori vennero completati nel 1914.

L’Importanza del Canale

Per comprendere l’importanza del Canale bisogna analizzare il contesto geo-politico ed economico dell’epoca. Agli inizi del ’900 il trasporto merci veniva effettuato essenzialmente via mare. L’aviazione era ancora agli albori, al mondo circolavano pochissime automobili e le ferrovie non potevano sopperire i bisogni di una popolazione e di un’economia che crescevano a ritmi sostenuti. Inoltre era l’epoca dei grandi imperi coloniali, e gli oceani erano l’unico mezzo per comunicare e spostarsi tra la madrepatria e i possedimenti d’oltremare. Infine il mondo conosceva una rapida ed inesorabile corsa agli armamenti, che poco dopo avrebbe portato alla catastrofe della Prima Guerra Mondiale. La marina militare era la forza armata dove si concentravano i maggiori investimenti delle Grandi Potenze. La concezione strategica dominante dell’epoca era: “chi controlla i mari controlla anche la terra”, e l’apertura del Canale si inserisce perfettamente in questo tipo di mentalità, risaltando l’importanza che veniva conferita all’opera.

Per di più, da un punto di vista statunitense, il Canale era strategicamente vitale: gli USA sono un Paese bagnato da due oceani, e quindi devono necessariamente dividere la loro flotta, dislocando unità navali sia nell’Atlantico che nel Pacifico. In caso di guerra, se una delle due flotte fosse stata attaccata, danneggiata o distrutta, una parte dell’altra avrebbe dovuto rimpiazzarla, scongiurando l’eventualità che le coste americane rimanessero senza un’adeguata difesa.

Ed è esattamente quello che accadde il 7 dicembre 1941, quando l’aeronautica imperiale giapponese attaccò la flotta americana del Pacifico ancorata a Pearl Harbor, e alcune unità della flotta dell’Atlantico attraversarono il Canale. Ancora una volta Panamá acquisiva importanza strategica a causa della guerra.

Fin da subito gli Stati Uniti insediarono a Panamá un forte contingente militare a presidio del Canale. Con il boom economico mondiale dell’immediato dopoguerra il Canale divenne un’arteria pulsante del commercio internazionale, e fino agli anni ’50 le relazioni tra i due Paesi furono molto positive. Tuttavia l’illidio durò poco. A partire dagli anni ’60, nazionalisti panamensi iniziarono a vedere nel Canale e nei soldati che lo difendevano un simbolo dell’imperialismo statunitense. Il mondo era spazzato dal vento della decolonizzazione, e l’ingombrante presenza USA a Panamá era considerata come una sorta di dominio coloniale, al pari di quello degli europei in Africa e in Asia.

La situazione precipitò il 9 gennaio 1964, quando durante una manifestazione studentesca che rivendicava il diritto di issare la bandiera panamense al fianco di quella statunitense, la Polizia della Zona del Canale aprì il fuoco contro gli studenti, appoggiata da unità delle Forze Armate americane. Fu un bagno di sangue. Ventidue panamensi morirono, insieme a quattro soldati USA, e questo evento diede inizio ad una vera e propria mobilitazione popolare. Ancora oggi il 9 gennaio viene ricordato a Panamá come il Giorno dei Martiri.

Il giorno dopo il governo panamense ruppe le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, e minacciò di non ristabilirle fino a quando un nuovo trattato non fosse stato negoziato. Il presidente Lyndon Jonhson, impegnato sul disastroso fronte del Vietnam, dovette cedere, e ad aprile dello stesso anno iniziarono i negoziati per un nuovo accordo sul Canale. Nel 1968 il generale Omar Torrijos conquistò il potere attraverso un colpo di stato e i negoziati con gli Stati Uniti si fecero più ardui.

Torrijos proclamava idee nazionalistiche e socialiste, e diversi elementi di spicco della politica statunitense erano spaventati dalla possibilità di dover cedere un asset strategico che consideravano vitale ad un governo antidemocratico, tendenzialmente instabile, guidato da un generale potenzialmente ostile e nel bel mezzo della Guerra Fredda. Quando, alla fine degli anni ’70, i negoziati giunsero ad una svolta, il presidente Jimmy Carter inviò a tutti i membri del Congresso un telegramma in cui li aggiornava sul progresso delle trattative, chiedendo loro di non fare dichiarazioni esprimendo giudizi sul trattato finché non avessero avuto occasione di analizzarlo approfonditamente. Per tutta risposta quello stesso giorno il senatore Strom Thurmond rispose all’appello dichiarando in un discorso: “Il Canale è nostro, lo abbiamo comprato, abbiamo pagato per esso e dobbiamo tenercelo”.

Questa frase rende perfettamente l’idea di quanto il Canale fosse considerato un’opera irrinunciabile da gran parte dei politici americani. Tuttavia portando l’analisi in un ottica prettamente militare appare abbastanza chiaro come già all’epoca questa visione fosse superata.

La strategia adottata da Stati Uniti ed Unione Sovietica per tutta la durata della Guerra Fredda, infatti, si era sostanzialmente basata sull’accumulo di missili balistici a testata nucleare, con un potenziale distruttivo infinitamente superiore a qualsiasi arma di tipo convenzionale. E’ peraltro vero che gli americani avevano investito parecchio nella creazione di una mezza dozzina di flotte sparse per tutti gli oceani, dotate di portaerei e navi da battaglia, e che i sovietici avevano risposto con la costruzione di sottomarini. Ma in caso di confronto totale tra i due blocchi, l’arma atomica avrebbe annullato l’efficacia di qualsiasi tipo di armamento convenzionale. E pertanto il controllo del Canale diveniva perfettamente inutile.

Inoltre il trasporto su strada, quello su rotaia e quello aereo stavano lentamente guadagnando spazio all’interno del commercio mondiale, prendendo il posto del trasporto marittimo. Infine le grandi flotte militari delle potenze coloniali europee che solcavano i mari alla conquista del mondo erano ormai un lontano ricordo. Già allora, quindi, sia da un punto di vista militare che economico, non aveva molto più senso spendere risorse per Panamá, in quanto il Canale non aveva più la fondamentale importanza strategica che invece vantava al momento della sua realizzazione, cinquant’anni prima. La volontà americana di mantenere il controllo dell’area era legata più ad una questione di orgoglio e ad infondati timori di conseguenze politiche, che a freddi calcoli strategici ed economici, o a questioni di sicurezza nazionale.

Parte dell’amministrazione americana probabilmente lo aveva capito, e nel 1977 vennero firmati i Trattati Torrijos-Carter, due accordi distinti che prevedevano, il primo, il diritto permanente degli Stati Uniti di difendere il Canale da ogni minaccia che potesse interferire con la sua accessibilità continuata e neutrale alle navi in transito di tutte le nazioni, e, il secondo, un calendario per il passaggio di sovranità dal governo americano a quello panamense, che si sarebbe completato entro le ore 12.00 del 1º gennaio 2000, quando Panamá avrebbe assunto il pieno controllo delle operazione del Canale, diventando il principale responsabile della sua difesa.

Anche questa volta i trattati furono vere e proprie opere d’arte di opacità diplomatica. Oltre a differenze nella traduzione tra i testi in lingua inglese e spagnola, gli accordi presentano tesi opposte: il Canale di Panamá passava sotto il controllo del governo panamense, che deve garantire la sua difesa; ma allo stesso tempo la neutralità e la navigabilità del Canale erano prerogative assegnate agli Stati Uniti, che quindi teoricamente mantenevano il diritto di intervenire nell’area. Tali incongruenze non sfuggirono ai politici panamensi che più volte chiesero una revisione dei trattati.

Un nuovo assetto strategico

A dieci anni di distanza dal passaggio di consegne tra Washington e Panamá per la sovranità sul Canale, e alla luce dei radicali cambiamenti politici, economici e militari che hanno contraddistinto quest’ultimo decennio, è possibile tracciare un quadro su quanto sia importante il Canale oggi, e sulle reali dimensioni degli interessi americani nella regione.

La fine della Guerra Fredda e l’avvento della Guerra al Terrorismo hanno nuovamente mutato l’assetto strategico statunitense. La minaccia sovietica non esiste più, e di conseguenza la necessità percepita di contrapporre ad un nemico di pari grado contingenti militari di grandi dimensioni è cessata, anche se solo in teoria. Inoltre anche se oggi si è di fronte ad una Cina in forte ascesa che sta rinnovando il suo arsenale e la sua flotta, gli Stati Uniti dominano incontrastati i mari, con sei flotte attive, una dozzina di portaerei e centinaia di sottomarini. Anche nell’eventualità che tale trend continui costante negli anni, elemento assai improbabile, ci vorrebbero decenni affinché la Cina raggiunga tale potenziale bellico, e comunque l’ipotesi di un conflitto tra Washington e Pechino è inesistente. Infine è cambiato il modo stesso di fare la guerra: il confronto è diventato asimmetrico, e l’Iraq e l’Afghanistan hanno ribadito il concetto già espresso in Vietnam: con piccoli gruppi di guerriglieri armati e fortemente motivati si riesce a tenere sotto scacco per anni anche le forze armate più potenti del mondo.

La necessità di spostare agilmente grandi unità navali da un oceano all’altro è quindi molto ridimensionata, e di conseguenza l’importanza del Canale sotto una prospettiva strategica è drasticamente diminuita.

Per quanto riguarda la rilevanza economica, il trasporto di merci via mare ormai deve affrontare la forte concorrenza di quello terrestre ed aereo, che negli ultimi anni hanno raggiunto notevoli livelli di capacità di trasporto, rapidità ed economicità. Inoltre il baricentro del commercio internazionale si è spostato dall’Atlantico al Pacifico, e i giganteschi vascelli portacontainer provenienti dalla Cina possono agevolmente attraccare negli attrezzati porti della costa occidentale americana, senza dover attraversare il Canale.

L’aumento del tonnellaggio delle moderne navi da trasporto, peraltro, impedisce loro di attraversare il Canale. Per superare le difficoltà nella costruzione, dovute al terreno impervio, la costruzione del Canale avvenne attraverso un sistema di chiuse, con sei conche, che permette alle navi di superare il forte dislivello (27 metri) che separa i due oceani. Tali chiuse misurano 304,8 m di lunghezza, 33,5 m di larghezza e 25,9 m di profondità. Pertanto le dimensioni massime delle navi che possono passare attraverso il Canale sono di 294 m di lunghezza, 32,3 m di larghezza e 12,04 m di pescaggio. Le navi che rispettano queste grandezze sono chiamate “navi Panamax”, ma attualmente vengono considerate imbarcazioni di medie dimensioni.

Queste misure, infatti, rispecchiano le esigenze di trasporto marittimo degli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo: i realizzatori del Canale progettarono l’opera in base alla stazza delle navi dell’epoca e cercando di minimizzare i costi di realizzazione. Con il passare del tempo tali grandezze sono diventate obsolete, in quanto il tonnellaggio delle navi è fortemente aumentato.

Già durante la Seconda Guerra Mondiale le corazzate e le portaerei americane di stanza nell’Atlantico ebbero forti problemi ad attraversare il Canale per congiungersi con la flotta del Pacifico. Ad esempio le portaerei d’allora, classe Essex, erano così larghe che per passare attraverso le chiuse era necessario rimuovere tutti i lampioni lungo il Canale. (Per rendere l’idea, la Essex misurava 270 m di lunghezza, 34 m di larghezza e 11 m di pescaggio. La più anziana portaerei americana attualmente in servizio, la USS Enterprise, misura 342 m di lunghezza, 70 m di larghezza e 11,9 di pescaggio. Non passerebbe mai attraverso il Canale.)


Già durante la Seconda Guerra Mondiale le navi della marina militare americana ebbero serie difficoltà nell’attraversare il Canale di Panamá, ormai troppo stretto per la loro dimensione. In questa immagine del 1945 la USS Missouri, nave da battaglia classe Iowa, riesce a passare le chiuse Miraflores solo per pochissimi centimetri.

Le moderne navi militari e mercantili, come le portaerei, i portacontainer e le petroliere, sono state progettate per massimizzare il rapporto costo/efficienza, e quindi superano abbondantemente queste dimensioni, non potendo quindi passare attraverso il Canale. Tali vascelli vengono chiamati post-Panamax o super-post-Panamax. Di conseguenza, a partire dagli anni ’80 si è assistito ad un vero e proprio crollo delle merci e delle navi in transito per il Canale, e soltanto a metà anni 2000 si è tornati ai livelli di trent’anni fa.

La volontà di raddoppiare il Canale, approvata dalla stragrande maggioranza dei cittadini panamensi con un referendum nel 2006, è il tentativo di mantenere l’arteria competitiva per il trasporto delle merci. I lavori per l’ampliamento inizieranno nel 2011 e termineranno nel 2014, a cento anni esatti dall’inaugurazione. L’opera verrà realizzata da un consorzio guidato dall’azienda italiana Impregilo, e dovrebbe permettere alle navi di dimensioni superiori al Panamax di attraversare il Canale.

Tuttavia Panamá non ha perso completamente la sua importanza: continuano infatti a viaggiare via mare praticamente tutte le risorse naturali più importanti, come il petrolio, il grano e i minerali, e inoltre negli ultimi anni Paesi che fino agli anni ’90 erano ai margini del commercio internazionale, stanno attualmente attraversando una fase di boom economico, molto spesso trainata dall’esportazione di materie prime verso i mercati cinesi o nel nord del mondo. E’ il caso del Brasile, che ha trovato nella famelica necessità cinese di risorse lo sbocco naturale delle sue esportazioni, le quali transitano attraverso il Canale di Panamá. Il mantenimento di questa arteria di comunicazione sicura e navigabile è diventato, quindi, più un interesse delle nuove potenze economiche in ascesa che degli Stati Uniti. Di conseguenza toccherebbe a loro e non a Washington, spendere risorse per Panamá.

Da un punto di vista politico, tuttavia, gli avvenimenti degli ultimi dieci anni hanno fatto aumentare l’interesse statunitense per Panamá, all’interno di una nuova politica americana riguardante tutta l’America Latina. Nell’ultimo decennio, infatti, praticamente tutti i Paesi del Cono Sud hanno visto l’ascesa al potere di esponenti dei partiti di sinistra. Alcuni moderati, come Luiz Inacio Lula da Silva in Brasile o Michelle Bachelet in Cile, altri più radicali, come Hugo Chavez in Venezuela e Evo Morales in Bolivia. Questi ultimi hanno dato inizio ad un duro confronto politico con Washington, che, oltre a dover combattere il terrorismo internazionale in mezzo mondo, si è trovata improvvisamente a dover gestire la politica revisionista nel cortile di casa.

Da sempre una delle priorità della politica estera degli Stati Uniti è stata il mantenimento della stabilità politica nel loro backyard, e la risposta naturale all’avanzata delle sinistre nel Cono Sud è stata un aumento della presenza delle forze armate USA in America Latina. Esempi di tale reazione sono l’accordo con Bogotà per l’utilizzo delle basi militari sul territorio colombiano (recentemente bloccato dalla Corte Suprema colombiana) o la riattivazione della IV flotta, sciolta dopo la seconda guerra mondiale, con il compito di pattugliare il quadrante dell’Atlantico meridionale.

Ed è esattamente in questa prospettiva che va inserito la Panamax: più che la volontà degli Stati Uniti di riaffermare il loro dominio sul Canale, si tratta di un modo per mantenere saldi i rapporti con i partner regionali e un deterrente contro i Paesi considerati potenzialmente pericolosi. Ed infatti le forze armate venezuelane e boliviane non sono state invitate all’esercitazione.

Militarmente parlando la Panamax non ha alcun significato pratico per la difesa del Canale: basterebbe un singolo raid aereo o una bomba ben posizionata su una delle chiuse per rendere l’arteria inutilizzabile per anni. Far affluire truppe, navi e portaerei non riuscirebbe comunque ad evitare un tale disastro. Inoltre le ragioni ufficiali del Panamax sono assolutamente fallaci: nella zona del Canale non c’è ombra di terrorismo, i narcotrafficanti portano ogni giorno tonnellate di droga negli States attraverso il confine messicano e per quanto riguarda gli aiuti umanitari, se dopo sei Panamax gli americani continuano ad agire come nel caso del terremoto ad Haiti, cioè senza minimamente interpellare i partner regionali, è chiaro che queste manovre non si tradurranno in futuro in alcun tipo di cooperazione pratica.

In conclusione: la Panamax 2010 è stata l’ennesima mostra dei muscoli statunitensi. Inutile da un punto di vista pratico, molto importante sotto un aspetto politico. Durante il XX secolo il Canale di Panamá ha perso la fondamentale importanza strategica che aveva per gli Stati Uniti, sia per sotto un profilo militare che in un’ottica meramente commerciale, anche se buona parte dell’estabilishment di Washington non sembra essersene accorta. In termini strategici dirottare risorse verso Panamá è un sostanziale dispendio inutile: sia perché in tempi di guerra asimmetrica e di terrorismo internazionale la difesa del Canale e della sua navigabilità non è garantibile nemmeno da un possente schieramento militare come quello dispiegato durante la Panamax, sia perché la stazza attuale delle flotte americane impedisce l’attraversamento del Canale, e quindi non si vede l’interesse nella sua difesa.

In tempi di crisi economica, invece che bruciare milioni di dollari in inutili esercitazioni, gli USA dovrebbero fare pressioni politiche su chi ha reali interessi alla stabilità di Panamá, cioè le nuove potenze regionali e mondiali, e trasferire loro almeno parte della responsabilità del suo mantenimento. Tale collaborazione favorirebbe la nascita di un clima diplomatico molto più disteso, di una società internazionale più democratica, costringerebbe a comportamenti più seri i nuovi partner e contribuirebbe sicuramente ad appagare le loro ambizioni.

* Carlo Cauti è laureando in Relazioni Internazionali (Università di Roma LUISS G. Carli)