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Una riflessione sulla decrescita

di Daniela Salvini - 14/09/2010

 






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La decrescita è argomento che mi appassiona da quando ne ho sentito parlare per la prima volta, qualche anno fa, da Mauro Bonaiuti, un professore dell'Università di Modena, che naturalmente prendeva spunto dall'inventore di questo termine, ovvero Serge Latouche. Con il concetto di decrescita finalmente si riescono a mettere in discussione i pilastri dell'economia politica tradizionale che supportano e giustificano il sistema capitalistico e la sua necessità di svilupparsi dinamicamente, trasformando il denaro e gli altri strumenti finanziari da mezzi di scambio a fini ultimi per l'arricchimento. Poiché sappiamo a qual punto il volto attuale del sistema, così globalizzato, condizioni l'intera umanità senza che si riesca a venire a capo di qualche tentativo di superamento o cambiamento di rotta, la decrescita è un'eventualità che non equivale a crescita negativa, come avverrebbe per uno "sboom" economico, una recessione coatta. Allo stesso tempo sembra sfuggire ad una definizione precisa. E' però parola già familiare, e se pochi sono quelli che riescono ad immaginare come può essere messa in pratica, magari senza costrizioni, semplicemente indotti dal bisogno, materiale e morale, molti sono quelli che dicono che comunque andrà, non sarà serena, ma conseguenza di un processo violento e devastante.
Gira e rigira, quando si critica il sistema attuale e l'economicismo esasperato in esso presente, si cerca subito di immaginare un'alternativa, e non è facile.
Considero la decrescita una proposta veramente radicale e destrutturante, come hanno ben detto Badiale e Bontempelli, ma sono convinta sia anche un diverso paradigma culturale come pensa Pallante, o un modo per uscire dall'immaginario dominante come dice Latouche.
Recentemente queste persone si sono soffermate su decrescita e Welfare state. Nella prospettiva attuale della crescita, si dice, la spesa statale dovrebbe aumentare sempre, per consentire maggiori servizi sociali, e richiedere più entrate, le quali, a loro volta, essendo più o meno proporzionali al Pil, potrebbero salire automaticamente con esso. La visione di destra, liberal-liberista, sbandiera a gran voce la parola d'ordine  “più Mercato e meno Stato”, quella di sinistra, socialdemocratica, sostiene al contrario “meno Mercato e più Stato”. Pallante propone un diverso slogan: “meno Mercato e meno Stato”. Poiché le merci si differenziano dai beni, Pallante afferma che occorre concentrarsi su questi ultimi e ridurre le merci. Il Welfare state, che è stato il cavallo di Troia per estendere la mercificazione ai rapporti umani, non può continuare, va ridotto, riportando i servizi sociali nell'ambito del dono e della reciprocità. Nelle famiglie, con tre generazioni, i nonni possono essere rivalutati per la cura dei bimbi, e gli anziani assistiti senza il ricorso, o comunque con un minore ricorso, alle strutture pubbliche o alle badanti straniere. La famiglia allargata può assolvere molti compiti che oggi sono realizzati dai pubblici poteri.

Questa posizione è stata definita di decrescita reazionaria, da Badiale e Bontempelli. Encomiabile il loro sforzo di abbandonare la via della crescita e di trovare una diversa via per la decrescita, persuasi di poterla conciliare con il marxismo, e cercando di andare al di là della sinistra e della destra storicamente determinate. Vorrei che anche la destra abbandonasse discorsi fumosi sul recupero della tradizione per aiutarci ad affrontare una realtà per certi versi insopportabile.
Badiale e Bontempelli non sono del tutto convincenti. Essi pensano ad una diminuzione del Pil senza riduzione dei servizi sociali, possibile con una forte redistribuzione del reddito e maggiori entrate statali (come si fa ad ottenere l'applicazione di imposte patrimoniali, che presuppongono una manovra dall'alto, una presa del potere!), accanto ai quali far crescere un Welfare state “decrescista”, basato su rapporti di scambio volontari e gratuiti fra famiglie, di uno stesso condominio ad esempio, per ricreare una sorta di piccole comunità, di kibbutz all'italiana.
Riconosco che questo dibattito entra nel cuore del problema e credo che le due vie suggerite debbano essere prese in considerazione entrambe perché non esiste, non ancora almeno, un modello valido sempre e comunque. Se la decrescita s'imporrà forzatamente, per crisi economiche e in seguito a sconquassi planetari, le comunità locali potranno cercare di far fronte ai loro innumerevoli problemi, e tanto meglio se ci sarà qualcuno, con qualche linea guida in testa.
La costatazione che a fronte di una crescita della popolazione italiana del 25%, le case costruite sono aumentate del 250%, fa pensare, per esempio, che sia buono il suggerimento di Badiale e Bontempelli di consentire alle famiglie di occupare le case di proprietà altrui. Ma come, con quali criteri? E come farlo nel rispetto della legalità?
Forse non basterebbe poi un tetto sulla testa, forse occorrerebbe un modo più umano di abitare, che tenga conto delle esigenze delle persone d'oggi. Mi vengono in mente case con sistemi a vasi comunicanti, che permettano “lo stare insieme”, ma anche “lo stare soli”, come e per il tempo che si vuole.
Pallante recupera, per la realizzazione di servizi sociali gratuiti, la famiglia allargata premoderna, tout court. E' vero, ci sono delle famiglie nelle quali i nonni aiutano i figli e i nipotini, e viceversa, ma questo non basta. Si può tenere in conto, in contemporanea, l'osservazione di Badiale e Bontempelli, per la quale è indubbio che siamo abituati dalla Modernità a fondare i legami sociali sulla scelta responsabile e razionale, e che non possiamo tornare indietro idealizzando la famiglia patriarcale che sappiamo, anche solo indirettamente, essere piena di difetti? Per me sì.
Loro esaltano i rapporti spontanei. Non posso escludere che c'è del vero in questo. In alcune situazioni i rapporti di vicinato sono splendidi, e si potrebbero immaginare forme di collaborazione e di aiuto reciproco, ma trovo che siano casi rari. Se guardiamo alla realtà attuale prevalente e pensiamo ad un aumento costrittivo della scarsità, immagino di più che possa emergere gente pronta ad arraffare, perché la prepotenza sa vincere, nelle anonime città come nelle comunità locali dove tutti si conoscono.
Alla fin fine queste proposte costruttive, suggerite, appaiono difficili, astratte, quasi delle utopie. Mi pare che con la mentalità prevalente non ci si arrivi, che occorra un cambio forte, molto forte, affinché  famiglie assemblate a caso in un condominio possano organizzarsi in modo stabile e duraturo, come viene suggerito. In modo volontario poi. C'è ora un individualismo esasperato, che impera ed è ben coltivato da chiunque, destra, sinistra e centro, fra i ribelli e non.
Provo anche a pensare alle testimonianze di persone, anche lontane, legate da vera amicizia, che sanno aiutarsi. Mi piacerebbe sapere come fanno. Ben vengano i loro insegnamenti, le loro esperienze. Allora tutti i progetti, volontari o meno, modelli diversi, temporanei o duraturi, realizzati dalle circostanze o costruiti a tavolino, mi paiono avere dignità, essere utili, necessari, per dare la possibilità a chi vuole tentare, di provare. Se non abbiamo la verità in tasca c'è bisogno di consentire in anticipo la possibilità a chi si pente, a chi non vuole più, di abbandonare il percorso tracciato, di cambiare strada e provare qualcosa d'altro.
In conclusione vorrei dire che è il momento di affinare il nostro spirito di osservazione per recuperare ciò che è stato e che era buono, ma anche quel che c'è, o potrebbe essere, tenendo presente che cerchiamo risposte oneste e giuste, antimoderne, non premoderne.