Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Fino a che punto siamo diventati schiavi del computer?

Fino a che punto siamo diventati schiavi del computer?

di Francesco Lamendola - 15/09/2010


Parlare del computer, della sua strapotenza, dei pericoli che la sua diffusione e il suo costante potenziamento presentano non solo per il singolo individuo, ma per l’intera civiltà mondiale, è un po’ come parlare delle razze umane: tutti sanno che esistono, ma non lo si può dire, per timore di essere bollati come razzisti.

Così, tutte le persone dotate di un minimo di buon senso e d’immaginazione sanno, perché lo vedono quotidianamente e perché lo intuiscono altrettanto facilmente, che l’informatica ci sta prendendo la mano, che ce l’ha già presa, che ormai non è il computer al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio di un calcolatore elettronico sempre più potente, sempre più complesso, sempre più capace di sostituirsi all’uomo medesimo; ma guai a dirlo apertamente: si passa per oscurantisti, retrogradi e nemici del Progresso.

Del resto, se ne può forse fare a meno? Ormai tutto, ma proprio tutto - mandare un’astronave nello spazio o mungere il latte di una mucca - si fa per mezzo del computer; non c’è convento di clausura in cui non sia arrivato; non c’è operazione, per quanto semplice - come effettuare un versamento di pochi euro tramite l’ufficio postale, o prelevare qualche soldo allo sportello della banca più vicina – che si possa fare senza di esso.

E dunque? Non è forse irrealistico, per non dire patetico, voler parlare della utilità e della effettiva necessità di uno strumento che è divenuto, alla lettera, insostituibile e irrinunciabile? Non è forse accademico, non è forse terribilmente ozioso? Non significa già, di per sé, che si è «fuori», che ci si è posti fuori dalla società reale e dai suoi problemi concreti, per divagare in una realtà fatta di pura astrazione intellettuale?

Ahimè, questo è precisamente il ricatto del Progresso: non ammette critica, non ammette dubbi, non ammette neppure la più piccola discussione; come ogni tiranno che si rispetti, vorrebbe essere servito ciecamente, senz’ombra di discussione, con la stessa fedeltà assoluta che Hitler pretendeva nel Bunker di Berlino, giungendo a far fucilare, a poche ore dalla fine di tutto, il suo stesso cognato per aver osato tentare di ricongiungersi alla famiglia, abbandonando la propria posizione nella capitale ormai condannata.

Già in questa semplice riflessione dovrebbe apparire chiara, se la si vuol vedere, la vera minaccia ed il reale pericolo insiti nella strapotenza della tecnologia: che essa si configura come un vero e proprio totalitarismo; peggio: che ammette una sola direzione di marcia: andare avanti, sempre più avanti, non importa dove e non importa come. Tornare indietro è impossibile; del resto, per i disertori non vi sono che il disprezzo e la fucilazione alla schiena.

I sostenitori più “democratici” e meno rozzi dell’imperante tecnocrazia, del resto, si degnano di spiegare al volgo profano che certi eccessi della tecnologia, che certi efetti collaterali, ad esempio l’abuso di essa da parte di persone poco mature e specialmente dei bambini, sono cosa transitoria e tale da non destare preoccupazione, né da inficiare gli enormi benefici che la tecnologia stessa non mancherà di portare a tutti indistintamente, solo che si siano messi a punto alcuni strumenti per dirigerla in maniera assolutamente razionale e benefica.

Né Hiroshima, né Chernobyl, né il disastro della British Petroleum nel Golfo del Messico, hanno insegnato alcunché; del resto, i danni più gravi causati da questa tecnologia disumana sono quelli che non si vedono, quelli che agiscono nella mente e nell’anima delle persone, e specialmente dei più indifesi dal punto di vista psicologico e morale.

Ma che vorreste dunque, replicano spazientiti i tecnocrati e tutti i cantori delle «magnifiche sorti e progressive», che tornassimo alla candela, all’uomo delle caverne? È questo che vorreste, voi profeti di sventura, voi terroristi psicologici, voi apocalittici reazionari: annullare il cammino trionfale dell’uomo verso la civiltà, verso il benessere?

E con ciò, ritengono di aver chiuso la discussione una volta per sempre, forti della supposta autoevidenza delle loro argomentazioni. Progresso, civiltà, benessere, sono infatti vocaboli che non si discutono nemmeno, se non si vuol finire nell’ingranaggio repressivo della tecnocrazia dominante: che non si serve più del braccio amato della legge, come ai tempi in cui c’era la pena di morte per i luddisti che danneggiavano i telai meccanici, ma dell’ultimo ritrovato della scienza in fatto di problemi originati dal dissenso: il trattamento psichiatrico.

Agli argomenti dei tecnocrati bisogna rispondere che la cosiddetta inevitabilità del Progresso, di questo modello di Progresso, è tutta da dimostrare; che una civiltà conscia di se stessa ha tutto il diritto di limitarsi sul piano dello sviluppo tecnico, ove lo ritenga opportuno, per concentrarsi sullo sviluppo spirituale; che costruire macchine sempre più potenti non risolverà affatto i problemi fondamentali dell’uomo e neppure la maggior parte di quelli contingenti e materiali, visto che ogni intervento invasivo sul mondo della natura, di cui l’uomo è parte, provoca immancabilmente una reazione a breve o lungo termine, della quale sappiamo pochissimo perché, nella nostra ignoranza e presunzione, non ci prendiamo neppure la briga di valutarne il possibile impatto.

Non si tratta, ovviamente, di distruggere i computer, ma di decidere se dobbiamo continuare a costruirne di sempre più potenti e di sempre più capaci di sostituirsi all’uomo, in tutte le sue funzioni; così come non si fa questione, ad esempio, di abolire l’automobile, ma di chiedersi se sia saggio continuare a distruggere il verde per costruire sempre nuove autostrade che consentano spostamenti sempre più veloci, inseguendo il miraggio di una velocità, e in ultima analisi di una potenza, che sono perfettamente fine a se stesse.

Occorre, quindi, un profondo ripensamento culturale, che passa attraverso una presa di coscienza di quali siano i veri valori in vista dei quali la società dovrebbe orientare il proprio movimento complessivo, ivi compresa quella teoria e quella pratica ormai pressoché cadute nel dimenticatoio, che un tempo andavano sotto il nome di educazione dei giovani. Vogliamo continuare a inseguire il progetto di una velocità sempre maggiore, di una comodità sempre maggiore, di una potenza sempre maggiore, oppure vogliamo costruire un mondo a misura d’uomo e di tutti gli altri viventi, senza il rispetto dei quali l’uomo stesso non potrebbe più vivere, perché si condannerebbe alla distruzione con le sue stesse mani?

Ha scritto Gregory J. E. Rawlins nel suo libro «Schiavi del computer?» (nel titolo originale manca il punto di domanda: «Slaves of the Machine. The Quickening of the Computer Technology», Cambridge, Mass.-London, The MIT Press, 1997; traduzione italiana di Giorgio Cini, Bari, Laterza, 1999, pp. 26-28):

 

«Oggi, soltanto due secoli dopo l’avvio della rivoluzione industriale, le cose sono sul punto di cambiare di nuovo, forse più radicalmente ancora, e certamente a un ritmo molto più frenetico. Perché?

In primo luogo, il surplus alimentare prodotto dalla rivoluzione industriale ha determinato una esplosione demografica, proprio come le guerre mondiali hanno fatto esplodere la ricerca scientifica. Nel 1910 esistevano nel mondo forse ventimila scienziati; oggi ce ne sono più di cinque milioni, uno dei quali solo negli Stati Uniti. Grazie alla nostra immensa crescita demografica, e ai conseguenti bisogni di sviluppo militare e commerciale,  più del novanta per cento di tutti gli scienziati, ingegneri  e inventori mai esistiti è ancora in vita.   Sono fra noi in questo momento, a inventare materiali, macchine, armi, medicine, geni: idee.

In secondo luogo, i computer, sommati alla crescita della popolazione e della ricerca, hanno reso molto più a buon mercato il costo del pensiero, per la prima volta dopo  l’invenzione della stampa, cinque secoli fa;: il numero delle comunicazioni scientifiche oggi raddoppia ogni dieci anni, e il numero degli scienziati ogni venti. Al giorno d’oggi, inventare, progettare e costruire nuovi dispositivi è più facile d quanto non sia mai stato in passato. I Babbage e i Turing di oggi non hanno bisogno di altrettanto denaro, specializzazione o tempo. E poiché in giro ce ne sono  così tanti, è più difficile che le nuove invenzioni vengano soffocate fino a quando non siamo in grado di abituarci a loro.

In terzo luogo, computer, popolazione e ricerca in sinergia hanno fato esplodere i mezzi di comunicazione e di trasporto. Come è crollato il costo del pensiero, così è crollato il costo per comunicare i risultati di tale pensiero. Oggi più persone si incontrano e comunicano con più persone e scorgono più connessioni tra più cose. Grazie a comunicazioni più estese e veloci, più cose nuove con più funzioni nuove vengono inventate da più persone nuove per compiti più nuovi, e tutto viene immesso nella società più in fretta e più a buon mercato che mai prima d’ora.

Questi acceleratori, quindi, continuano a lavorare in sinergia per aumentare popolazione, invenzioni,  comunicazioni e automazione.  oggi, l’unica cosa che non esplode è a nostra capacità di aver a che fare con tutto ciò. Siamo a cavallo di una meteora di trasformazioni.

Purtroppo abbiamo bisogno di molto tempo per digerire emotivamente una nuova idea.  Il computer rappresenta un passo troppo grande, e troppo recente, per farci recuperare rapidamente il nostro equilibrio e poter valutare il suo potenziale. Si tratta di un colossale acceleratore, forse il più notevole dai tempi dell’aratro, dodicimila anni fa.  Come amplificatore dell’intelligenza, può accelerare qualsiasi cosa (compreso se stesso) ed evolve continuamente  perché il suo cuore è l’informazione, cioè, in parole povere, le idee.  Non siamo in grado di prevederne le conseguenze più di quanto Babbage potesse prevedere gli antibiotici, la pillola e le stazioni spaziali.

Inoltre gli effetti di queste idee si stanno rapidamente moltiplicando, perché un progetto di computer è esso stesso nient’altro che un conglomerato di idee. E quanto più evolviamo nel manipolare idee grazie a computer sempre migliori, tanto più evolviamo nel costruire computer ancora migliori: è una spirale ascendente inarrestabile. I primi  dell’Ottocento, quando cominciò la storia del computer, sono così lontani che sembrano ‘età della pietra.

Oggi il nostro computer più veloce e complesso, equipaggiato col nostro software più sofisticato,  ha più o meno la complessità di un lombrico.  Ma allora, data la sua esplosiva capacità di auto evoluzione, quanto tempo occorrerà al lombrico per diventare un pesce?  Se riusciamo ad insegnargli ad adattarsi da solo, quanto impiegherà a diventare complesso come noi?  E poi anche più complesso? Se già oggi ha trasformato  talmente la nostra vita, cosa sarà di noi  a quel punto? Oggi il computer è un lombrico cieco, sordo, muto e privo di sensi.  Ma un giorno, forse prima di quanto pensiate,  potrà passeggiare in mezzo a noi. Sarà una creatura più aliena di qualsiasi altra cosa possiamo mai immaginare.

Allora come sarà il nostro futuro? Meraviglioso e tremendo.»

 

Ormai, dunque, perfino molti scienziati incominciano a nutrire seri dubbi circa l’opportunità di proseguire nella direzione di una tecnologia informatica sempre più potente, indipendentemente da ogni valutazione sulle ricadute negative, materiali e spirituali, che un tale modello di sviluppo comporta; anzi, che comporta qualsiasi modello sociale e culturale basato sullo Sviluppo, eretto al rango di divinità gelosa e infallibile.

Qui, infatti, si parla di sviluppo in senso puramente materiale. Né si risponda che questo sviluppo materiale è pur sempre suscettibile di diffondere valori spirituali, come la vasta circolazione delle idee resa possibile, appunto, dal computer rispetto al libro stampato. Perché tale argomentazione è vera, verissima; ma non ne consegue affatto che ci sia bisogna di uno sviluppo materiale sempre più grande per rendere possibile lo sviluppo spirituale.

Lo sviluppo spirituale dell’individuo, così come quello della società, non ha niente a che fare con la potenza sempre maggiore della tecnologia o di quella sua particolare versione che è la tecnologia informatica.

Anche se il discorso, oggi, non piace, bisogna inoltre ricordare che il fatto che milioni di persone possano accedere all’informazione tramite il computer (la cultura è un’altra cosa), non sposta di una virgola la questione dello sviluppo spirituale, sia del singolo, sia del corpo sociale: perché lo sviluppo spirituale non dipende dai grossi numeri.

Per la società, ad esempio, sarebbe preferibile potersi avvantaggiare della profonda saggezza di pochissimi individui, piuttosto che possedere un livello medio di semi-istruzione, di semi-informazione e di semi-pensiero largamente diffuso tra la popolazione.

Una società, infatti, può andare molto lontano, abbeverandosi alle profondità spirituali anche di un solo individuo; ma non andrà mai da nessuna parte per mezzo della superficialità, dell’ignoranza e della stoltezza delle masse, anche se frettolosamente dipinte con i colori più sgargianti e fatte passare per merci di prima scelta.

È, questo, un discorso essenzialmente aristocratico?

Ebbene sì, non temiamo di riconoscerlo: ricordando che il vocabolo «aristocrazia» non è affatto una parolaccia; significa, puramente e semplicemente, «il governo dei migliori».