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Rigoletto a Mantova

di Marco Iacona - 15/09/2010

Tre motivi fondamentali per non pentirsi di aver visto “Rigoletto a Mantova” nel weekend appena trascorso. Primo motivo. Piaccia o meno, Rigoletto è un capolavoro e i capolavori fino a prova contraria raccontano storie assenti dai salotti di Maria De Filippi e di Bruno Vespa e dalla maggior parte delle case degli italiani medi. Secondo motivo. Piaccia o meno, il protagonista (Placido Domingo) è un signore che, dicono, sia fra i più grandi geni viventi. E siccome nei suddetti salotti non ne trovi facilmente di geni (e ancor meno nelle case degli italiani di prima), forse il tempo speso per ascoltarlo nella celebre “Vendetta, tremenda vendetta” non è stato completamente perso. Terzo motivo. Piaccia o meno, di roba simile non se ne fa molta oggigiorno (dal 1992 a oggi pare sia solo la terza volta), motivo in più per apprezzare uno spettacolo diverso anche se non molto ben riuscito (forse). Oltre i Pooh e Gianni Morandi (con tutto il rispetto per i cinque artisti), un altro mondo è possibile come avrebbe detto un rivoluzionario negli anni del “compromesso storico”, cerchiamo di scoprire qual è allora, data anche la circostanza che l’opera non inquina l’aria e non occorrerà pagare un ticket suppletivo al momento del saldo del canone Rai.

Detto questo possiamo anche dire il perché non ci è piaciuto quel Rigoletto. Innanzitutto riesce sicuramente difficile quantificare il pubblico che abbia compreso quel che ha visto (d’accordo, l’opera sfugge alla razionalità del testo – portateci uno che abbia mai veramente capito la trama del “Trovatore” e lo proporremo come dittatore dello stato “libero” di Bananas – ma perché intanto non provare a capire come stanno le cose?). Qualche bel tipo (o tipa) che all’inizio di ognuno degli atti – come si usava ai tempi d’oro – avesse spiegato quel che sarebbe accaduto o magari quel che era già accaduto sarebbe stato francamente gradito. Cosa significava quel “Cortigiani, vil razza dannata” urlato da Rigoletto nel second’atto o quella “Donna è mobile” che fa quasi da Leitmotiv (chiedendo scusa a Wagner) nel terz’atto? Boh!! Rigoletto peraltro, tratto da un dramma di Victor Hugo (“Il re si diverte”) non è esattamente una puntata dell’Isola dei famosi, e il suo bel significato ce l’avrebbe pure. Il dramma della doppiezza e il dramma di un uomo – un buffone di corte – posto nella possibilità di sfidare un potente… credere di ucciderlo ma finire, poi, per essere sconfitto, anzi distrutto (con annessi e connessi), non è esattamente l’episodio numero 4672 di “Beautiful” dove Ridge fa la mano morta alla cameriera di Brooke che poi sarebbe la nipote della sorella della cugina dello stesso Ridge, altrimenti detto “bel mascellone” (ma si sarebbe scoperto dopo 37 puntate ovviamente). L’Impressione che ha dato il “Rigoletto a Mantova” dell’altra sera è quella di una parata militare con roba sopraffina in primo piano (Bellocchio-Storaro-Andermann), ma se aveste chiesto al vecchietto in trentesima fila perché tutti quegli uomini e quelle donne erano lì a marciare al passo (luoghi fantastici), avrebbe risposto da zero… l’idea che si ha insomma (e non da ora purtroppo), è che questi eventi operistici “preconfezionati” (belli, anzi bellissimi, per amor del cielo), spesso trascurino il particolare “pubblico” per chiudersi in un narcisismo del “io sono la più bella e di te chissenefrega”.

Noi abbiamo visto in tre luoghi diversi i round dell’opera e in tutti e tre i casi chi era con noi lamentava l’impossibilità di seguire il testo. Anziani o giovani che fossero. E siccome a scuola oltre a raccontarci che i marxisti sono belli-e-buoni e i terroristi rossi tutto sommato sono dei diavoli non da ultimo girone, di opera nessuno ci ha mai parlato (e d’altra parte né di Lorenzo Da Ponte, né di Felice Romani né di Francesco Maria Piave), le possibilità erano a quel punto solo tre. O possedere già un libretto di Rigoletto a casa (della vecchia registrazione callasiana del 1955 per esempio, o magari della nonna o del nonno), o averlo acquistato per tempo o averlo infine ricevuto dalla Rai all’atto del pagamento della quota-canone o – variante alla terza possibilità – averlo ricevuto gratuitamente per posta come si farebbe con un programma politico di destra o sinistra al momento delle elezioni (ipotesi assai remota). Morale semiseria: se per favore più in là ci saranno altri eventi del tipo “Sonnambula” di Bellini “fra i tetti della Svizzera” avvisate per tempo. O fate urlare dall’annunciatore Rai (forse però anche quello è assente oramai): “andate sul televideo alla pagina 777 e leggetevelo lì il testo dell’opera!”; o altrimenti regalateci un più italico: “arrangiatevi!”.

Detto anche questo, due parole sull’allestimento. Sulle voci e quant’altro. Domingo, non proprio un ragazzino, oggi è forse più un attore che un cantante. Polemiche a parte su un ruolo da baritono interpretato da un tenore (Leo Nucci, il Rigoletto dei nostri giorni, e con lui molti altri più giovani, non ci saranno rimasti proprio bene), il bel-Placido è sembrato un po’ stanco e non perfettamente in forma. Abbastanza sicuro negli acuti (parliamo sempre di acuti baritonali), ha esibito fiati abbastanza corti; il fraseggio è sempre morbido, ma si notava qualche difficoltà dovuta (forse) al ruolo non proprio ideale, qui la responsabilità potrebbe essere anche di Zubin Metha – il direttore – anche lui non in splendida “serata”, raffinato (perbacco!) ma a volte un po’ leziosetto. Nel ruolo del Duca di Mantova c’era il giovane Vittorio Grigolo, acuti praticamente inesistenti, è apparso un po’ troppo manierato per un tenorattore, a volte ha dato l’impressione del tronista che va “in esterna”, scarso in tecnica teatrale, più ammiccante che recitante. Buona la prova invece della russa Julia Novikova. Il fisico del ruolo c’era tutto; qua e là qualche neo (più nella recitazione che nell’interpretazione vocale), ma ha saputo tener testa al mostro-Domingo e ha regalato al pubblico (in totale solo il 10% di share però), una Gilda che con ingenua leggerezza – senza eccessi in direzioni opposte – va incontro al destino di morte. Sparafucile era Ruggero Raimondi oramai abituato a ruoli e tensioni di questa natura.

148 erano i paesi in collegamento (tutti in diretta?) per un evento che forse verrà presto dimenticato. Stessa sorte della “Traviata a Parigi” del 2002 e purtroppo di “Tosca nelle ore e nei luoghi di Tosca” del ’92 (che resta il migliore dei tre titoli). L’opera lirica è fra i pochi spettacoli in giro non fatti per la tv (tempi, inquadrature, rapporto immagine-sonoro: tutto troppo complicato), né per il cinema e a volte non lo è neanche per il teatro... Se poi si pretende di farne un evento in diretta la faccenda si ingarbuglia come un film di Hitchcock (bé, magari). La coppia Bellocchio-Storaro ha fatto quel che poteva, cioè moltissimo, ma il risultato, e in un’era di grande crisi dello spettacolo nazionale, è rimasto comunque mediocre. Al melomane, al tecnico, il “Rigoletto a Mantova” risulterà pur sempre un’operazione indigesta, stravagante. Indegna di un’edizione “media” andata in scena in un teatro di provincia. Al comune mortale non basterà un “Questa o quella per me pari sono” recitato all’ora di cena perché l’indomani possa recarsi presso il più vicino negozio di dischi per acquistare due-tre edizioni (diverse) della medesima opera verdiana. E magari con essa un bel Falstaff, restando in attesa di un futuro collegamento in mondovisione dai sentieri di Windsor. Un Falstaff con libretto incluso, ovviamente.